Banche, treni, aerei, latte e gioielli: perché l’Italia è in vendita
di Alberto Negri - 09/02/2018
Fonte: Alberto Negri
L'Italia è terra di conquista degli investitori stranieri? E’ un’impressione che si rafforza con il passaggio dei treni di Italo al fondo Usa Global Infrastructure Partners che ha messo sul piatto un'offerta da 2 miliardi di euro (1,98 più i debiti della società che ammontano a quasi 450 milioni). Non sarà certo questo l'ultimo annuncio di acquisizione nel settore trasporti, anzi si attende anche quello per Alitalia.
Per la compagnia di bandiera è tornata in corsa anche Air France – Klm che guarda con interesse ad Alitalia ma temporeggia in attesa dell’esito delle elezioni del 4 marzo. Il matrimonio mancato del 2008 e il divorzio consumato nel 2014, quando la compagnia transalpina è uscita definitivamente dal capitale Alitalia, bruciano ancora e il gruppo franco-olandese si muove con cautela.
Ma la posta in gioco è alta. La pressione dei concorrenti si fa sentire e il gruppo franco-olandese è stretto tra Iag (British Airways, Iberia, Aer Lingus e Vueling) e Lufthansa che negli anni scorsi ha incorporato Swiss Air, Austrian Airlines e Brussels Airlines. Non solo. In gioco c’è il futuro dell’alleanza transatlantica tra Air France – Klm, Delta Airlines e Alitalia. Se Air France-Klm non si sbriga rischia di ritrovarsi isolata perchè il rischio è che prevalga la Lufthansa piuttosto che Easyjet.
Chi sono gli acquirenti di Italo che hanno sbriciolato l'ipotesi di un collocamento in Borsa della società come avrebbe voluto il ministero italiano dell'Economia?
Il Global Infrastructure Partners (Gip) è nato nel 2006 da un gruppo di top executive di Credit Suisse e General Electric. Nel suo portafoglio sono presenti una quindicina di società, un piccolo impero con entrate annuali superiori ai cinque miliardi e 21.000 dipendenti.
La strategia seguita dal quartier generale di Manhattan prescrive la caccia a asset di qualità: oltre ai finanziamenti iniziali di Credit Suisse e Ge, il Gip conta sui grandi fondi sovrani e fondi pensione. Un esempio di come agisce è proprio il suo primo investimento, quasi una scommessa: rilevò il London City Airport nell’ottobre di undici anni fa e lo ha venduto nel 2016 con un guadagno, secondo quanto trapelato, di 2,5 miliardi di dollari, più del doppio dell’investimento iniziale.
Ma l'Italia è davvero cosi appetibile per i grandi gruppi esteri come sembra? Nel 2017 le acquisizioni straniere in Europa hanno premiato la Francia, la Germania e anche la Spagna, mentre hanno rallentato la corsa in Italia: secondo la banca dati di Bureau van Dijk, lo shopping complessivo da parte delle imprese straniere nel nostro paese è stato di 44,9 miliardi di euro, il 32% in meno rispetto al 2016.
Al contrario, quello appena passato è stato un anno effervescente per la Spagna: nonostante l’incertezza sulle sorti della Catalogna, il Paese nel suo insieme ha portato a casa oltre 40 miliardi di euro in partecipazioni straniere, con un aumento del 32% rispetto al 2016. Bene sono andate anche Germania e Francia, che nel 2017 entrambe hanno visto affluire investimenti nelle loro imprese per oltre 61 miliardi di euro, con una crescita rispettivamente del 7,6% e del 13,3 per cento. Né Parigi né Berlino dunque sembrano aver pagato il prezzo delle rivendicazioni protezionistiche presentate a Bruxelles a più riprese nel corso del 2017: al commissario Ue per il Commercio, Cecilia Malmström, si è chiesto infatti di fermare le acquisizioni in Europa da parte di società che beneficiano di finanziamenti pubblici e che non rispettano le regole del mercato.
L’obiettivo nel mirino della Ue erano soprattutto le aziende cinesi e al coro franco-tedesco si era unito anche il nostro ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda. Peccato che il 2017 italiano sia andato in un altro modo. Ad abbandonare il nostro Paese, però, non sono stati i capitali di Pechino, il cui flusso è balzato dai 230 milioni del 2016 a quasi 3,5 miliardi.
Chi ha perso leggermente interesse verso le nostre aziende sono stati gli investitori francesi che negli anni scorsi in Italia avevano condotto uno shopping quasi sfrenato.
Basti pensare alle banche, alle Generali nel mirino di Axa e Allianz, all’acquisizione dei fondi comuni di investimento Pioneer da parte della francese Amundi, alla fusione tra Luxottica e Essilor che sembra sempre più un’acquisizione posticipata da parte dei francesi, a Vivendi che controlla Telecom e insidia l’impero Berlusconi.
Prima del 2007 le operazioni di fusione e acquisizione tra Francia e Italia erano più o meno equilibrate, da allora abbiamo avuto operazioni di acquisizione dalla Francia all’Italia per 52 miliardi e operazioni di segno opposto per soli 8 miliardi di euro. Negli ultimi dieci anni le aziende francesi in Italia si sono comprate banche (Cariparma e Bnl), il latte di Parmalat, lo zucchero di Eridania, i gioielli di Bulgari e Pomellato, marchi della moda come Loro Piana e Bottega Veneta, pezzi del mondo dell’energia (Edison e Acea) e delle infrastrutture (Grandi Stazioni e Ntv).
Eppure l' industria italiana, nonostante le difficoltà, resta vitale: dopo la crisi finanziaria le aziende hanno continuato a guadagnare quote sui mercati esteri. Allora perché questo lungo elenco di acquisizioni? Molte ricostruzioni liquidano i mali del capitalismo italiano riducendoli a un binomio: “nanismo” delle imprese e l'influenza del “salotto buono”. In realtà il capitalismo italiano ha mostrato tutti i suoi limiti nell'accompagnare le imprese nel loro processo di crescita: modesto ricorso al mercato dei capitali (obbligazionario e azionario), eccessivo ricorso la credito bancario con i crack che sappiamo quando alcune banche sono entrate in coma.
Se così stanno le cose è giusto difendere l'italianità di un'azienda? La risposta è si soprattutto quando si tratta di settori strategici e di difendere alcune competenze tecnologiche da alto valore aggiunto. Ma per ottenere questi risultati si deve essere in grado di esercitare il controllo sull’azienda. Questo può avvenire in due modi, tramite un azionista forte, anche pubblico, o con un management forte. Problemi che non si risolvono erigendo barriere: le imprese indebitate o in fase di crescita complicata prima o poi finiranno ugualmente sul mercato degli investitori stranieri. Se siamo prede e non predatori è perché vogliamo esserlo e gli altri continueranno a sfruttare la nostra vulnerabilità.