Pensiero debole, ultimo atto del suicidio filosofico
di Francesco Lamendola - 27/03/2018
Fonte: Accademia nuova Italia
Siamo afflitti dal pensiero debole. La cultura odierna ne è impregnata, ne è condizionata, ne è presa in ostaggio; si direbbe che sia impossibile uscirne, che sia impossibile fare un passo al di qua, al di là, al di sopra o al di sotto di esso. È diventato il nuovo pensiero forte, se, con questa espressione, si intende un pensiero totalizzante e scarsamente propenso ad accettare le critiche ai suoi assiomi fondativi: comoda posizione che consente tutti i vantaggi ed esclude qualsiasi rischio. È come sparare al piccione, ben sapendo che nessun piccione potrà mai sparare su di te. Fuori di metafora, il pensatore debole può criticare, deridere, svalutare qualsiasi pensiero diverso dal proprio, e sottrarsi, con la fuga, a qualsiasi contrattacco: in quanto pensiero debole, esso è liquido, è dappertutto e in nessun luogo, è impossibile fermarlo, dargli una forma, localizzarlo in uno spazio o in un tempo: spiacente, ma hai sbagliato bersaglio, non sono io; dovevi prendertela con lui, non con me. È figlio della scissione dell’io di Pirandello; e, prima ancora, è figlio, o nipote, dell’asportazione della metafisica di Kant. Sorge per sottrazione, si moltiplica per esclusione: paradossalmente, cresce sulla propria debolezza, sulla propria fragilità, sulla propria inconsistenza. Pretende di essere post-moderno, ma è solo una espressione verbale: perché ciò che teorizza è che ci sarà sempre qualcosa di post rispetto all’esistente, quindi dopo il postmoderno verrà, per forza di cose, il postmoderno del postmoderno, e poi il postmoderno del postmoderno del postmoderno, e così via, all’infinito. Non è un pensiero debole: è un pensiero piccolo; un pensiero che, programmaticamente, ha rinunciato a pensare qualcosa di grande. Per questo detesta sia l’essere che il soggetto. I suoi due teorici, Vattimo e Rovatti, sono, rispettivamente, figli di Löwith e Gadamer il primo, di Husserl e Paci il secondo, ed entrambi nipoti di Nietzsche e di Heidegger; hanno di mira appunto l’essere (Vattimo) e il soggetto (Rovatti). Che poi, indebolendo o “togliendo” l’essere e il soggetto, non si possa più fare alcuna filosofia; che non si possa più pensare alcunché, questa è una cosa che non li turba minimamente: non è un problema loro. A loro basta distruggere quel che resta delle antiche certezze: la certezza dell’essere, la certezza del soggetto che pensa, la certezza della verità che esiste, nonostante tutto. In quanto “pensatori deboli”, sono dispensati dal preoccuparsi con che cosa sostituire quel che si distrugge. Ci penserà qualcun altro: qualche Cireneo che dovrà prender su di sé, oltre alla croce di una filosofia ridotta in pezzi, anche quella di essere accusato di tendenze totalizzanti e autoritarie. Peggio per lui: quando mai i progressisti si sono preoccupati del destino dei loro oppositori o anche, semplicemente, di chi esita a seguirli?
E dunque, vediamo. Che cos’è questo pensiero debole?
Lo spiegano i suoi teorici, Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, nella Premessa a Il pensiero debole (Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 10-11):
“Pensiero debole” è […] una metafora, e in certo modo un paradosso. Non potrà comunque diventare la sigla di qualche nuova filosofia. È un modo di dire provvisorio, forse anche contraddittorio. Ma segna un percorso, indica un senso di percorrenza: è una via che si biforca rispetto alla ragione-dominio comunque ritradotta e camuffata, dalla quale, tuttavia, sappiamo che un congedo definitivo è altrettanto impossibile. Una via che dovrà continuare a biforcarsi.
Si inizia, forse, con una perdita o, se si vuole dire così, con una rinuncia. Ma già fin dall’inizio si può scoprire che essa è anche l’allontanamento da un obbligo, la rimozione di un ostacolo. O meglio, l’assunzione di un atteggiamento: il tentare di disporsi in un’etica della debolezza, non semplice, assai più costosa, meno rassicurante. Un equilibrio difficile tra la contemplazione inabissante del negativo e la cancellazione di ogni origine, la ritraduzione di tutto nelle pratiche, nei “giochi”, nelle tecniche valide.
In secondo luogo, è uno sperimentare, un tentativo di tracciare analisi, di muoversi sul terreno.
Verso il passato: il “pensiero debole” può riavvicinarsi al passato attraverso quel filtro teorico che si può chiamare “pietas”. Una sterminata quantità di messaggi, che la tradizione invia a noi, può essere di nuovo ascoltata da un orecchio che si è reso disponibile.
Nel presente: basta osservare quante esclusioni di campi e di oggetti lo sguardo totalizzante può, anzi deve praticare. Il prezzo pagato dalla ragione potente è una impressionante limitazione degli oggetti che si possono vedere e di cui si può parlare.
Infine, anche in direzione del futuro, verso il quale il “pensiero debole” sembrerebbe impedito. Infatti, perché non ipotizzare che il contenimento del pensiero forte possa produrre un incontro su un territorio diverso da quello normativo e disciplinare, sul quale vengono stipulati normalmente tutti i nostri “accordi”?
Ma già siamo corsi troppo avanti. Per ora c’è da tentare qualche piccolo movimento, un alleggerimento. È più agevole la polemica con il già noto. E ci sono già – in circolazione – monete contraffatte da individuare…
Dunque, per i suoi teorizzatori, il “pensiero debole” è ciò che si contrappone al “pensiero forte”. Quest’ultimo, a quel che è dato di capire, ha fatto il suo tempo, e comunque è antipatico, perché corrisponde alla ragione-dominio, impone degli obblighi, non sa ascoltare il passato, non sa vedere tutte le sfumature del presente, progetta eccessivamente nel futuro, è limitato, è normativo, è “disciplinare”. Invece il pensiero debole è duttile, malleabile, si adatta, si biforca, e poi si biforca ancora, all’infinito, rifiuta gli obblighi, scavalca gli ostacoli, non vuol saperne del dominio, nutre la pietas verso la tradizione, coglie i particolari del presente che all’altro sfuggono, sa pensare in modo creativo e accetta persino il confronto con il “pensiero forte”, purché su un terreno che non sia normativo e disciplinare: cosa, date le premesse, evidentemente impossibile, perché il pensiero forte è in se stesso autoritario, e quindi è un’affermazione insincera. Insomma, un bellissimo mucchio di sciocchezze, ma esposte con l’accortezza di evitare definizioni precise, sicché risulta malagevole smascherarle come tali. A cominciare dalla definizione: “pensiero debole”, sì, ma guardate che è solo una metafora, un paradosso; non è una nuova filosofia; è sempre qualcos’altro rispetto a ciò che si credeva (si biforca all’infinito…); eppure, al tempo stesso, è pronto a denunciare le contraffazioni, le appropriazioni indebite del copyright. Non male, per un pensiero che si dice anti-autoritario e che rifiuta di esser definito una nuova filosofia.
Quel che si doveva fare era dare una vera definizione del proprio programma: se non ti dico chi sono, tu hai il diritto di non prendermi sul serio. Secondo, si doveva spiegare meglio che cosa, del cosiddetto pensiero forte, non piace e si rifiuta: “pensiero forte” è una comoda astrazione. Si intende la ragione-dominio? Si intende il Logos calcolante e strumentale? Bene, su questo terreno ci possiamo intendere; ma bisognava dirlo. Se non che, la filosofia si regge sul pensiero; e il pensiero non è né forte, né debole: è pensiero e basta. Risponde a determinati requisiti, rispetta certe categorie; ha la sua sintassi, la sua terminologia (per evitare confusioni ed equivoci e non per fare sfoggio di erudizione). Non tutta la filosofia “classica” tende al dominio, se, con questa espressione, si intende un modo di pensare che interdica le obiezioni, che pretenda di annichilire ciò che ad esso non si conforma. Il vero pensiero non teme mai il confronto con niente e con nessuno. Se è un pensiero “autoritario”, la cosa vien fuori da sé; ma, in tal caso, si tratta di cattivo pensiero, cioè di ideologia, perché il vero pensare e la vera filosofia non sono né autoritari, né antiautoritari: sono la ricerca del vero, puramente e semplicemente, secondo le modalità che sono proprie della ragione umana. Né più né meno: questo e non altro. Chi adopera la ragione per cercare la verità, secondo le buone regole della ragione stessa, senza gonfiarle, senza assolutizzarle arbitrariamente, senza negare che esista un ambito di comprensione del reale che è anche diverso (ma non, perciò, contrario) alla ragione stessa, fa della buona filosofia; chi non lo sa fare, no. La differenza è tutta qui. Pertanto non c’è un “pensiero forte” cattivo, perché autoritario e assolutizzante, ed un “pensiero debole” buono, perché democratico e pluralista: c’è un pensare secondo le regole della filosofia, e uno pseudo pensare disordinato, anarcoide, soggettivista. Il quale poi è un pensiero comodo, perché si sottrae in partenza a qualsiasi critica: può sempre negare di essere stato rettamente inteso, può sempre affermare di essere “altro” rispetto a ciò che viene contestato. Che vuol dire, ad esempio, che il pensiero debole equivale a un tentativo di tracciare analisi, di muoversi sul terreno? Dicendo che è solo un “tentativo”, si scongiura in anticipo qualsiasi critica che venga condotta a fondo; e quel “muovesi sul terreno”, poi, che meraviglioso sapore esistenzialista, anzi, situazionista: piacerebbe al signor Bergoglio, il quale, forse, si è ispirato a tale concetto quando ha scritto l’ottavo capitolo di Amoris laetitia. Non ci sono cose assolute, ma solo relative; non ci sono verità certe, ma solo apparenti; non ci sono giudizi pieni ed interi, ma solo giudizi parziali, legati alle situazioni del momento, legati “al terreno”, appunto. Peccato. Avevamo sempre creduto che fare filosofia fosse volare in alto, vedere le cose dall’alto, coglierle nella loro totalità; non muoversi sul terreno, senza un ampio orizzonte davanti a sé, ma con il naso rivolto a terra, la testa china, la mente concentrata nell’attimo fuggente.
Vattimo e Rovatti sostengono che il pensiero debole corrisponde a un’etica della debolezza che non è più semplice, anzi, è più “costosa” e meno rassicurante. Rispetto a cosa? Al pensiero forte, evidentemente. Ma siamo sicuri che le cose stiano così? Che l‘etica delle debolezza sia meno riassicurante e più costosa? E se fosse, invece, più comoda e più economica? Ciascuno si fabbrica la sua etica personale, vi si chiude come dentro una fortezza e accusa di autoritarismo chiunque critichi le sue scelte: a noi, questo, sembra molto, ma molto comodo. E poi, chi lo dice che una tale etica soggettivista corrisponde a un’etica della debolezza? Bisogna vedere “debolezza” di chi e rispetto a chi o a che cosa. Di fatto, diventa facilmente un’etica della forza: e che forza!; una forza suscettibile di qualunque arbitrio. Prendiamo un giudice che vuol staccare la spina alle cure mediche di un bambino, malato incurabile: lui dice, in nome del pensiero debole, che non ci si può accanire, non si può pretendere di prolungare le sofferenze di questo bambino. Ma i suoi genitori non ci stanno, chiedono che la spina non venga staccata, che l’assistenza medica non sia interrotta. Essi agiscono in base a un’etica forte, a un pensiero forte? Senza dubbio. E quale dei due è realmente “forte”, nel senso che ha la forza, la forza effettiva, dalla sua? La cronaca di tutti i giorni ci dà la risposta: la forza è dalla parte dell’etica relativista, del pensiero debole; e, se le persone non sono d’accordo, non importa, ci pensa lo Stato a intervenire, fino al punto di sospendere o sottrarre la patria potestà ai genitori recalcitranti. Come manifestazione di un pensiero forte, non c’è male davvero: si direbbe che la sua forza sia fatta di aria. Nella realtà delle cose, comandano i seguaci e i nipotini del pensiero debole: scettico, relativista, soggettivista, laicista, ateista. Hanno conquistato le élite dominanti, o meglio le élite dominati hanno imposto come cultura ufficiale quella del pensiero debole e del relativismo. C’è una perfetta corrispondenza biunivoca fra i signori del pensiero debole, i Vattimo, i Rovatti, gli Eco, e le élite mondaliste dominati, i Soros, gli Zuckerberg e i Bezos: i primi criticano ogni manifestazione del pensiero forte, i secondi occupano tutti gli spazi (anche mentali) in nome del pensiero debole. Non vogliamo dire che i primi sono sul libro paga dei secondi: prendiamo atto del fatto che la loro azione è convergente e, guarda caso, perfettamente sincronizzata, come se fosse concordata. Ma non vogliamo cadere nel complottismo gratuito e paranoide: è giusto che ciascuno tragga da sé le proprie conclusioni. A noi sembra che Hegel, cacciato dalla porta, sia rientrato dalla finestra. Ciò a cui stiamo di fatto assistendo, sulla scia del pensiero debole nelle sue varie forme e declinazioni, è una diffusione capillare e irresistibile dello storicismo assoluto: non avrai altro dio all’infuori della storia, cioè al di fuori dell’uomo. Questa è la grande rivincita del paganesimo anticristiano; una rivincita lungamente attesa e ora assaporata con immensa gioia, come prova il rinnovato interesse per Giamblico, Porfirio, Proclo, Giuliano imperatore, fra gli intellettuali anticristiani: si vede che in duemila anni non hanno saputo elaborare niente di meglio e, vista la vacuità e l’inconsistenza dei pensatori illuministi, kantiani e neokantiani, eccoli ripartire da dove tutto era cominciato. Quanto a Vattimo, è vero che ha mostrato un certo coraggio nel dire che la finanza mondiale è sotto il controllo dei banchieri ebrei (perché, di questi tempi, anche dire una ovvietà non politically correct è un atto di coraggio), ma la convergenza con le politiche di Soros & C. esistono, eccome. L’obiettivo di Soros è distruggere le identità dei popoli per creare una marmellata indifferenziata su cui poter meglio dominare; mentre il pensiero debole conduce a una marmellata filosofica ove, in assenza di verità e certezze, non rimane che arrendersi...