Post-ideologia o non ideologia? (intervista a Costanzo Preve)
di Costanzo Preve e Luigi Tedeschi - 16/10/2006
Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi
1) L’era delle post-ideologie è di per sé indefinita. Essa non è caratterizzata dall’avvento di nuovi valori morali, correnti di pensiero e dottrine politiche che si siano affermate sulle rovine del ‘900, il “secolo breve”. Semmai, nell’età post-ideologica, ognuno definisce se stesso sulla scorta della sua ascendenza ex ideologica, come se la propria identità possa definirsi solo in termini genealogici e non in base a scelte, schieramenti, idee del presente. Tutti si sentono qualcuno o qualcosa in quanto post-qualcuno e/o post-qualcosa, poiché tali definizioni hanno la finzione di esorcizzare un passato ideologico come strumento di legittimazione di scelte politiche o culturali altrimenti non definibili nell’attuale contesto storico. Le attuali élites politiche e culturali dell’occidente hanno dunque la propria ragion d’essere solo in quanto referenti di un “legittimismo post-ideologico”. I figli affermano se stessi quali successori dei propri padri rinnegati. Del resto la post-ideologia ha un senso solo quale rinnegamento di un passato ideologico, sentito oggi come colpa epocale collettiva, che solo con il tradimento e l’oblio è possibile espiare. Si è dunque determinata questa aperta contraddizione: da una parte l’ideologia, data per morta, è parte integrante della nostra identità (o post-identità?), dall’altra i valori positivi emergenti della post-ideologia consistono proprio nel rinnegamento delle stesse ideologie. Ci si chiese allora, proprio in riferimento a questo snaturamento delle identità personali e collettive se le ideologie vivano una fase di temporanea eclissi o abbiano subito un definitivo tramonto. Esiste la possibilità di un futuro neo-ideologico?
Sono pienamente d’accordo nella lettera e nello spirito con la formulazione della tua domanda, e questo accordo mi consentirà di limitarmi ad alcune ulteriori precisazioni di dettaglio.
In primo luogo, il fatto che oggi i “figli affermano se stessi quali successori dei propri padri rinnegati” (e pensiamo al rapporto di Gianfranco Fini e di Massimo d’Alema rispettivamente con Benito Mussolini e con Palmiro Togliatti) è da un lato un’ovvietà visibile a tutti, e dall’altro lato invece un enigma non ancora pienamente decifrato. Io vedo in questo non tanto un cosiddetto “tradimento da deplorare” (secondo l’approccio insieme moralistico e sterile dei gruppetti della rivendicazione impotente di una impossibile fedeltà ad un tempo astorica e fondamentalistica), quanto un “adattamento obbligato” per chi vuol fare politica accettando le compatibilità dell’impero americano e dell’attuale Europa asservita. Questo adattamento obbligato, che ha come unica alternativa o l’isolamento testimoniale ed autoreferenziale o la lenta preparazione culturale di un’alternativa storico-politica ancora purtroppo al di la’da venire, non è in grado strutturalmente di dotarsi di un “codice ideologico” proprio, e deve allora riferirsi fantasmaticamente ad un passato integralmente trascorso. Questo segnala, ovviamente, un deficit culturale spaventoso, che il circo mediatico manipolato unificato cerca per il momento di esorcizzare con un chiacchericcio pettegolo (esemplare in proposito la pagina “culturale” di Repubblica!), ma che ha egualmente i giorni (o gli anni) contati.
In secondo luogo, ritengo che tu colga il punto fondamentale del problema quando parli di “passato ideologico come colpa epocale collettiva”, che è “possibile espiare solo con il tradimento e con l’oblio”. Questo è infatti lo “spirito collettivo” (Hegel lo avrebbe detto lo Zeitgeist) dei nostri tempi miserabili e degradati. Ma se questo avviene bisognerà pure tentarne una spiegazione. Io interpreto questa costellazione ideologica (perché sul fatto che sia “ideologica al cento per cento” non ci piove proprio!) come un momento transitorio, frutto dell’incrocio temporaneo fra il pentimento collettivo ed il riciclaggio professionale della miserabile generazione sessantottina europea (e cito qui, alla rinfusa, Sofri, Cohn-Bendit e Joshka Fischer) e lo sbandamento comprensibile della nuova generazione europea, che per la prima volta sperimenta sulla sua pelle una vita flessibile e precaria. Il precariato non ha bisogno di un raddoppiamento ideologico strutturato, perché vive di contingenza e di casualità, mentre solo la permanenza lavorativa novecentesca, nelle sue due forme convergenti e complementari dell’imprenditorialità borghese e del sindacalismo fordista, produceva questo raddoppiamento ideologico necessario, nelle due forme anch’esse profondamente complementari dell’individualismo liberale borghese e dello storicismo progressistico “marxista”. In sintesi, un probabile “ritorno dell’ideologia” è legato nel prossimo futuro all’esaurimento di questa provvisoria costellazione (il pentimento dei miserabili sessantottini riciclati in cantori dell’impero americano e del sionismo, da un lato, ed il sorgere di nuove forme di resistenza sulla base dell’esperienza di massa della precarietà e della contingenza erette a forme di vita).
In terzo luogo, devo dirti che non credo alla fine delle “ideologie”. Tu sai che nella tradizione marxista, che è quella in cui mi sono formato, il termine “ideologia” ha prima assunto in Marx una valenza negativa (ideologia come falsa coscienza, sia pure talvolta soggettivamente sincera ed in buona fede, dovuta alla necessità di razionalizzare gli interessi di classe dando loro un’illusoria veste universalistica), e ha poi invece assunto in Lenin e nel comunismo posteriore una valenza positiva (ideologia come punto di vista organico e strutturato della concezione complessiva del mondo della classe proletaria antagonistica, ritenuta come potenzialmente universalistica). Non c’è qui ovviamente lo spazio per fare la storia di questa compresenza conflittuale durata più di un secolo, e mi limiterò qui ad esporre brevemente la mia personale concezione, che non si identifica pienamente né con la prima né con la seconda concezione di ideologia. A mio parere l’ideologia, o più esattamente la rappresentazione ideologica del mondo, è la conseguenza necessaria di una tendenza umana irresistibile, e pertanto ineliminabile (come lo è peraltro anche e soprattutto la religione), di una antropomorfizzazione soggettivistica del mondo, sia naturale che sociale, che di per sé, visto da un punto di vista puramente “scientifico”, non è per nulla antropomorfizzato ma è pienamente anonimo, impersonale e quindi pienamente disantropomorfizzato. La scienza coincide infatti con la piena disantropomorfizzazione dei processi. Ma, appunto, la coscienza umana rilutta a questo, e risponde con l’ideologia, che è sempre una riantropomorfizzazione, a mio avviso consustanziale all’uomo in quanto tale, dell’esperienza storica.
2) Quando si discute di post-ideologismi, ci si riferisce a improbabili post-fascismi e post-comunismi. Le ideologie sarebbero quindi morte, la loro scomparsa viene universalmente fatta coincidere con la caduta del muro di Berlino. Nessuno però si definisce post-liberale, in un mondo che accetta acriticamente il capitalismo globale come proprio destino ineluttabile, che se fosse tale non avrebbe certo bisogno di definizioni ideologiche alla luce delle quali potrebbero essere legittimate le istituzioni, la cultura, l’economia. L’avvento del neo capitalismo ha le sue radici, non tanto in una supremazia dell’ideologia liberale, intesa come una verità storicamente verificabile, affermatasi su tutte le altre (fascismo, comunismo, cattolicesimo), ma sulla sconfitta bellica del fascismo e sulla implosione interna del comunismo. Si rammenti che fino agli anni ’90 si parlava del liberalismo come un relitto storico del passato. Ci viene dunque il dubbio che, contrariamente a quanto si afferma generalmente, non stiamo vivendo in un’epoca predominata da una ideologia liberale, poiché il neo capitalismo si afferma non sulla libera volontà individuale, ma sulla non scelta, sull’adeguamento massificato al consumismo, sul coinvolgimento forzato nel mercato globale. Le attuali strutture politiche e sociali non richiedono consenso e partecipazione. Il capitalismo attuale, assume le sembianze teocratiche di una necessità immanente, che non necessita di qualificazioni ideologiche (Dio ha forse bisogno di definizioni ideologiche?). Esso si richiama al liberalismo come un suo lontano ascendente, di cui è perfino lecito dubitarne la qualifica di legittimo successore.
Mi permetterai di riformulare filosoficamente la tua tesi, che peraltro anche in questo caso condivido pienamente. Utilizzerò un ragionamento in due tempi, riferendomi prima a Heidegger e poi a Marx.
In primo luogo, credo che Heidegger abbia capito l’essenza della questione a proposito dell’evoluzione generale dell’epoca moderna, quando parla dell’esito progressivo ed inarrestabile della storia bimillenaria della metafisica occidentale oggi risoltasi in Tecnica planetaria. Questo significa che la fase storica che richiede l’elaborazione di complesse legittimazioni ideologiche per “coprire” forme di sfruttamento ancora personalizzato e non pienamente incorporato in meccanismi riproduttivi apparentemente anonimi non è “eterna”, ma è destinata ad essere progressivamente superata da fenomeni di “incorporazione sistemica”. E’in fondo la tesi oggi alla moda persino nei settimanali femminili per semicolte dal parrucchiere per signora propagandate da Umberto Galimberti, e questa volgarizzazione adattativa dell’heideggerismo non sarebbe neppure tanto lontana dal vero, se non dovesse rassicurare la lettrice globalizzata e conformista che ormai nessuna rivoluzione sarà più possibile, perché la Tecnica (ahimé o per fortuna, signora mia, scelga lei!) ha incorporato ogni soggettività collettiva e comunitaria residua, e non c’è più nulla da fare, anche se è stato bello sognare!
In secondo luogo, questo approccio alla Heidegger deve essere a mio avviso “incrociato” con il metodo dialettico di Marx. Heidegger non lo ha fatto, perché per ragioni sue odiava e disprezzava il marxismo, al di là di secondari “riconoscimenti” (evidenti soprattutto nella Lettera sull’Umanesimo del I947). Riformulata in linguaggio marxiano la tesi di Heidegger, dirò che la fase “metafisica”, in cui il capitalismo era dialetticamente scisso nella due soggettività collettive rivali della Borghesia e del Proletariato, viene oggi progressivamente sostituita da una nuova fase “tecnica”, in cui i processi impropriamente chiamati di “imborghesimento del proletariato” e di “proletarizzazione della borghesia” alludono ad un superamento della vecchia fase del capitalismo in direzione di un Capitalismo Senza Classi (CSC). Non mi si fraintenda, per favore. Non intendo affatto dire che siano in diminuzione le differenze sociali di reddito, consumo e potere fra i gruppi sociali. Queste differenze sono anzi spaventosamente in crescita, in direzione di una società sempre più oligarchica e sempre meno democratica. Intendo solo evidenziare che queste differenze sempre crescenti non possono più essere “descritte” adeguatamente con i vecchi approcci dicotomici di tipo Borghesia contro Proletariato, o viceversa. Questo però non è la “fine della dialettica”, come dicono i postmoderni, ma è solo l’annuncio di nuove ed ancora inedite forme di dialettica.
Voglio fare ancora un rilievo sulla curiosa permanenza ideologica di un Antifascismo in assenza di Fascismo. Ho già fatto notare nella risposta precedente che questo ridicolo ircocervo segnala semplicemente un deficit di legittimazione ideologica della società attuale, costretta a cercare nel passato le “risorse simboliche” della propria identità. Ma questa ovvia considerazione non è più sufficiente. C’è indubbiamente il rifiuto del novecento ideologico, che giunge ormai alla vera e propria falsificazione del passato storico, e ricordo qui il giullare PCI-PDS-DS Benigni, che nel film La Vita è Bella riscrive la storia della seconda guerra mondiale, facendo liberare Auschwitz dai carri armati americani, laddove invece storicamente essa fu liberata dagli imbarazzanti, totalitari ed impresentabili carri armati di Stalin. Penso però che si debba ormai periodizzare in due distinti momenti la permanenza ideologica dell’Antifascismo in assenza completa di Fascismo. In un primo momento (1945-1991 circa), l’antifascismo fu un’ideologia che permetteva la permanenza simbolica, ed in realtà largamente inesistente, della coalizione dei partiti del CLN in una mutata fase storica, ed era anche il modo in cui il PCI poteva scaricare silenziosamente il suo marxismo ed il suo comunismo effettuandone la metamorfosi ed il trapianto in una sorta di “azionismo sociale”, in cui di fatto Norberto Bobbio potasse sostituire Antonio Gramsci, eretto ad icona religiosa del tutto innocua. Ma oggi è più così, perché è mutata l’epoca storica. Oggi l’Antifascismo senza Fascismo è funzionale, anche se non ci se ne è ancora accorti per quel fenomeno di “stupidità inerziale” tipico della classe politica e dei giornalisti, alla lotta contro il terrorismo musulmano che viene infatti simbolicamente “hitlerizzato” e non “stalinizzato”. In questo modo il minimo comun denominatore “antifascista” può unificare simbolicamente Gianfranco Fini e Massimo d’Alema, George Bush ed i centri sociali soggettivamente “comunisti”, insieme con tutta l’Armata Brancaleone Postmoderna (ABP).
Quanto durerà tutto questo? Non è ancora chiaro. Ma non è il caso di essere ottimisti, se pensiamo che alla terribile vischiosità inerziale delle visioni del mondo subalterne si unisce l’interesse manipolatorio dei dominanti.
3) Le ideologie, dopo la seconda guerra mondiale e la sconfitta del fascismo, furono impersonate dalle grandi potenze vincitrici USA e URSS, poi protagoniste della “guerra fredda”. Liberalismo e comunismo, proprio a causa della loro natura internazionalista, contribuirono in modo determinante alla decolonizzazione del terzo mondo e al declino delle potenze europee. L’internazionalismo ideologico, sia nella versione capitalista che in quella comunista, se da una parte erose, fino a distruggerlo, l’ordine mondiale ottocentesco basato sull’equilibrio stabilito dagli stati coloniali europei, dall’altra creò nuovi stati sorti dalle lotte di liberazione anti-colonialiste in cui le dottrine ideologiche dovettero conciliarsi, fino in alcuni casi ad essere soppiantate, da culture autoctone tradizionali già oscurate dal dominio coloniale e/o da motivi nazionalisti che fecero venir meno l’internazionalismo ideologico da cui le guerre indipendentiste avevano preso le mosse. E’ questo il caso della Cina e dell’Asia orientale, delle nazioni islamiche, dell’Africa. Le ideologie quindi finirono per essere patrimonio elusivo delle grandi potenze (liberalismo = USA, comunismo = URSS), furono peraltro motivi ispiratori della loro politica imperialista nei confronti dell’Europa e del terzo mondo, dando vita ad un nuovo colonialismo economico spesso più oppressivo di quello politico europeo. La stessa contrapposizione tra USA e URSS, che generò guerre per procura e colpi di stato a ripetizione in Africa, Asia e America Latina, assunse sempre più le sembianze di un confronto coloniale teso all’accaparramento di materie prime ed aree strategiche, con conseguente strumentalizzazione ideologica dei popoli belligeranti e soggetti. Dato che nella seconda metà del ‘900 le ideologie si trasformarono in sostanziali tecniche di dominio gestite dagli apparati delle due superpotenze, ci si chiede allora se le ideologie siano morte già assai prima della caduta del muro di Berlino per propria consunzione, causata dalla progressiva perdita di credibilità. Del resto, le prospettive internazionaliste e mondialiste, già causa di tanti fallimenti ideologici, sembrano oggi essere state assorbite e realizzate dalla globalizzazione capitalista.
Credo che per rispondere adeguatamente alla domanda che tu poni sia necessario problematizzarne, e quindi dialettizzarne, sia l’aspetto geopolitico che quello specificatamente filosofico (e cioè sulla natura dell’universalismo in quanto tale). Cominciamo dal primo e passiamo poi al secondo, sia pure con tutta la concisione possibile.
Da un lato, è indubbio che nel mezzo secolo 1945-1991 sia il liberalismo che il comunismo hanno funzionato come “protesi ideologiche” di due politiche di potenza globali, quelle cioè degli USA e dell’URSS. L’Europa ne è stata di fatto “tagliata fuori”, ma deve a sé stessa questa iattura. De Gaulle è stato il solo statista occidentale che ha saputo da un lato decolonizzare in forma relativamente pacifica (laddove l’estrema destra ha perso un’ennesima buona occasione di riconvertirsi con la sua ingiusta e suicida difesa nostalgica del colonialismo vecchio tipo), e dall’altro rilanciare l’indipendenza politica e militare dell’Europa delle nazioni. Tito ha perseguito anche lui un modello di comunismo nazionale, al di là poi dei giudizi di merito sociale interno che se ne possono dare. Dunque De Gaulle e Tito restano di fatto i soli “patrioti europei” della seconda metà del novecento, laddove gli altri, chi più chi meno, sono stati solo subalterni pidocchietti filoamericani o filosovietici.
Dall’altro lato, non bisogna dimenticare che sia il liberalismo targato USA sia il comunismo targato URSS non possono essere ridotti a protesi ideologiche di esportazione e di legittimazione di strategie geopolitiche di potenza. Nell’intenzione delle dirigenze USA e URSS lo erano certamente, ma esiste per fortuna nella storia una vichiana eterogenesi dei fini, per cui in tutto il mondo forze patriottiche, nazionali e locali hanno “usato” queste protesi ideologiche di grande potenza per promuovere di fatto i loro legittimi e sacrosanti interessi. E’ stato questo il caso prima di tutto dell’India, dell’Indocina e della Cina, e poi anche in minore misura del mondo musulmano e latinoarnericano. E’questa la ragione per cui la fine del bipolarismo con la dissoluzione unilaterale della potenza sovietica, che è stata in una certa misura una chance per una riunificazione politica dell’Europa (chance sciaguratamente sprecata dalle bestiali politiche subalterne filoamericane dei Paesi ex-comunisti), è stata nello stesso tempo una disgrazia per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo, ed in particolare per i popoli del Medio Oriente arabo e musulmano, consegnati alla ferocia del sionismo e all’unilateralismo militare americano.
Fin qui l’aspetto, per così dire, militare e geopolitico. Passando ora all’aspetto “ideale” e filosofico, si ha anche qui, e direi soprattutto qui, una vera e propria ambivalenza dell’universalismo, che per ragioni di spazio mi limiterò a segnalare. Da un lato, è assolutamente indubbio che l’ideologia della Democrazia e dei Diritti Umani è solo una protesi geopolitica di potenza, che ha sostituito il precedente modello dicotomico Liberalismo-USA/Comunismo-URSS. Per questa ragione questa ideologia espansionistica, la cui funzione è la distruzione del diritto internazionale moderno fra stati sovrani, deve essere respinta in toto e senza tentennamenti come il nemico più feroce e bestiale oggi esistente, e rimando qui agli studi esaustivi di pesatori diversi e però felicemente convergenti come Danilo Zolo e Alain de Benoist. Dall’altro lato, tuttavia, non è possibile seriamente negare che gli stessi processi impropriamente battezzati come “globalizzazione” (e dico impropriamente, perché molti studiosi negano con buoni argomenti che una vera e propria globalizznzione sia in corso, ma sia molto meglio usare la buona vecchia categoria di “imperialismo”) portano potenzialmente con sé un aumento dei contatti e delle intersecazioni fra popoli, nazioni, lingue, usi e costumi. E’ questo il fenomeno del cosiddetto “multiculturalismo”, che a mio avviso nella forma attuale deve essere combattuto, perché si tratta solo di fatto di una vera e propria “anglobalizzazione” del mondo, ma che però indica pur sempre, sia pure in forma ideologica e sfigurata, un processo di dialogo fra culture e civiltà che non possiamo respingere in via di principio solo perché in questo momento chi tiene il volante ed il timone sono le orribili multinazionali USA.
Come si vede, il modello deve essere complessificato non certo perché lo vogliamo noi per qualche operazione ideologica, ma perché è di fatto complesso ed ambivalente. Detto questo, accolgo nell’essenziale i rilievi contenuti nella tua domanda. E’ stato facile “riciclare” gli ex-comunisti sia facendo leva sul loro “antifascismo”, per cui è bastato passare dalla demonizzazione dei “fascisti” Hitler e Mussolini alla demonizzazione dei “fascisti” Milosevic e Saddam Hussein, sia soprattutto attuando il passaggio dialettico dalla mondializzazione comunista alla mondializzazione liberale. Questi miserabili sono ora sotto i nostri occhi. Ma per fortuna altre culture sembrano meno “riciclabili”, da quella cinese a quella musulmana, è questo è oggi un grande Bene per il mondo intero. Che Allah e Confucio siano benedetti!
4) Il concetto di ideologia, elaborato alla fine del ‘700 come scienza delle idee o percezioni, assunse il significato corrente in Marx ed Engels. Ideologia è per essi il “vestito delle idee”, designando con tale termine l’insieme di concetti, idee e rappresentazioni illusorie aventi la funzione di ricoprire la vera realtà dei fatti e degli eventi. Prendendo le mosse da tali definizioni, comprendiamo appieno come l’ideologia abbia alla sua radice una rappresentazione univoca della realtà, funzionale alla politica di potenza di questa o quella classe dirigente (sia essa liberista che comunista), tale da trasformarsi in una fede ideologica in un popolo di militanti tramutatisi in popolo di credenti. Ma l’epoca post-ideologica è iniziata proprio nel momento in cui questo popolo ha scoperto l’impossibilità di una verifica oggettiva del dogma ideologico. Oggi, nel mondo post-ideologico, ci aggiriamo tra le rovine delle fedi ideologiche, e ci accorgiamo come da esse non si possa mai prescindere, dal momento che quando ci imbattiamo in problematiche legate a dottrine politiche, filosofie, religioni, leggi morali, avvertiamo che queste non sono conosciute dai più (quasi tutti) nella loro forma originaria, ma nella loro versione ideologica, già motivo di fede politica nei decenni passati. L’ideologia è di per sé una falsa rappresentazione della storia e della realtà che tradisce i presupposti di validità universale di natura filosofica da cui ha tratto la sua origine. La filosofia ha orizzonti universalistici specularmente opposti a quelli particolaristici dell’ideologia. Se dunque l’ideologia è la traduzione elaborata dalle classi dirigenti al fine della conquista del potere, non sembra che l’origine della genesi dell’ideologia stessa sia nella pura e semplice volontà di potenza? E’allora pensabile l’avvento di un’epoca anti ideologica, in cui filosofia, politica, religione e morale possano essere restituite alle loro problematiche autentiche, in contrapposizione alla globalizzazione post-ideologica, dato che le stesse ideologie, con le loro prospettive utopiche, progressiste, cosmopolite, generalizzanti, hanno contribuito non poco all’avvento del mondo globalizzato ed economicista del neo capitalismo?
Da come tu poni la domanda, credo di capire che tu ipotizzi la possibilità che l’attuale situazione storica di crisi generalizzata delle ideologie moderne di tipo grande-narrativo (uso qui il noto termine di Lyotard) possa avere, a fianco degli aspetti negativi di rassegnazione al dispotismo dell’ultracapitalismo globalizzato, anche un lato positivo, e cioè la possibile estinzione dell’illusione ideologica. Ho già sostenuto nella mia prima risposta che personalmente credo nella permanenza dell’ideologia intesa come forma debole di soggettivizzazione antropomorfizzante del mondo, e nello stesso tempo considero del tutto legittima la tua utopia. Per me “utopia è una buona parola, a differenza che per i sostenitori di Bobbio o di Croce, e vedo in essa una sorta di “idea regolativa della morale cosmopolitica”, per usare un linguaggio tratto liberamente da Kant. E tuttavia la tua mi sembra una utopia del tutto irrealizzabile.
Torniamo allora ancora sul problema. Paradossalmente (ma non poi troppo) l’utopia del superamento integrale dell’ideologia è il solo visibile minimo comun denominatore delle filosofie di Marx e di Nietzsche, che gli sciocchi vedono in genere “incompatibili” perché la prima è di “sinistra” (come Prodi e d’Alema) e la seconda è di “destra” (come Berlusconi e Fini). Se però usciamo da questa batracomiomachia per deficienti, vediamo come questa strana convergenza di prospettive filosofiche tanto diverse come quelle di Marx e di Nietzsche ha in comune un vecchio sogno della tradizione metafisica occidentale (uso qui il termine nel senso di Heidegger e non in quello di Tommaso d’Aquino), e cioè il sogno della “giusta visione” del mondo così com’è, e non solo come molti credono che sia. Si tratta di un sogno che sta infatti all’inizio della tradizione filosofica occidentale, e che viene razionalmente elaborato in Pitagora ed in Platone. Dunque, nulla di strano. Per Marx, il superamento integrale dell’ideologia può avvenire con l’acquisizione di una sorta di “sapere assoluto” (e qui la sua matrice hegeliana ed idealista è palese, per chi non si lascia fuorviare dalla terminologia o dalle dichiarazioni soggettive di appartenenza), il sapere assoluto che risulta dal superamento collettivo delle condizioni storiche che rendono indispensabile e “funzionale” l’ideologia, e cioè i rapporti sociali di produzione basati sullo sfruttamento classista. Per Nietzsche, il superamento integrale dell’ideologia può avvenire con l’avvento dell’Oltreuomo, questa nuova figura antropologica che si lascia alle spalle le consolazioni ingannatorie di tutte le religioni, da quelle esplicite alla Paolo di Tarso a quelle implicite alla Rousseau.
Non vorrei che tu mi scambiassi per un cinico sostenitore della preminenza dell’ideologia sull’arte, la scienza e la filosofia. Tutto al contrario, sono un sostenitore accanito ed esplicito della superiorità della filosofia sull’ideologia, e come sai ho diagnosticato in una serie di opere storiche e filosofiche il “peccato mortale” del marxismo storico novecentesco veramente esistito, che è stato proprio quello di aver sottomesso la libera ricerca filosofica alla logica manipolatoria dell’incorporazione ideologica della conoscenza nelle logiche del potere. Colgo anzi l’occasione di questa domanda per cercare di chiarire ulteriormente la mia posizione. Io penso che tu sia sulla buona strada, che è quella dello smascheramento filosofico razionale e dialogico delle “formazioni ideologiche”, non importa se di opposizione o di potere. Se infatti la mia legittima opposizione assume forme ideologiche, e quindi illusorie, ha poca importanza il fatto che io faccia questo in “buona fede”, perché ciò che conta è ben altro, e cioè che l’aver rivestito i miei progetti di liberazione con uno scafandro ideologico ne comporta la debolezza strategica, e debolezza strategica significa possibilità permanente di rovesciamento nel suo contrario. L’esempio prima citato del rovesciamento dialettico (peraltro hegelianamente non solo prevedibile ma praticamente “già scritto”) del mondialismo ideologico comunista in neomondialismo della globalizzazione ultracapitalistica ne fa fede. Dunque, la parola d’ordine della “critica alle ideologie” è una buona parola d’ordine, da perseguire e da concretizzare il più possibile.
Io metto in guardia soltanto dalle illusioni. La critica delle ideologie è qualcosa di ciclicamente interminabile, e non si colloca a mio avviso in uno spazio lineare progressivo in cui c’è un “lieto fine” di abolizione della forma ideologica della conoscenza. E’ vero che nessuno ci impedisce di coltivare l’utopia positiva e l’idea regolativa di una umanità capace di autofondare le propria razionalità in modo puramente artistico, scientifico e filosofico, ma l’esperienza non solo storica ma anche antropologica ci dice che l’uomo, pur restando un essere razionale e sociale, tende irresistibilmente ad autorappresentarsi i propri interessi non solo collettivi ma anche comunitari in forma ideologica, e cioè antropomorfizzante se però lo sappiamo, possiamo attuare una prevenzione che di fatto assomiglierà sempre più alle prevenzioni mediche, sanitarie e dietetiche. E non è certo poco.
da Italicum sett/ott 2006