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Amici virtuali

di Jeremy Rifkin - 17/10/2006


Non ci sono dubbi sul fatto che un sempre più corposo numero di (più o meno) giovani finiscano per rimanere intrappolati nella tecnologia di mondi virtuali e paralleli. Con l’affective computing in agguato all’orizzonte, coloro che vivono in solitudine fremono per interagire con amici di silicio, emotivamente programmati per riuscire a diventare i migliori confidenti. Progresso? Possiamo di certo fare di meglio

Nel corso degli ultimi vent’anni, poco più o poco meno, ci siamo preoccupati di sviluppare sempre più nuovi sofisticati metodi per comunicare tra noi. I nostri telefoni cellulari, personal computer, Blackberry, sms, e-mail e connessioni internet, mettono in contatto il 25% della popolazione mondiale nel villaggio globale alla velocità della luce.

Nello stesso momento in cui ci troviamo sotto questa unica grande stretta elettronica, il nostro vocabolario – in tutto il mondo – in realtà precipita clamorosamente, rendendoci incapaci di comunicare e di convivere in modo costruttivo con i nostri simili. Si tratta di un buon paradosso: comunichiamo di più ma diciamo meno cose.

Uno studio condotto dal Dipartimento dell’istruzione Usa ci dice che l’insegnamento della letteratura inglese tra gli studenti statunitensi diplomati ha conosciuto, da dieci anni a questa parte, un drammatico declino. Soltanto il 31% degli studenti delle scuole superiori sono afferrati in materia, contro il 40% di una decina di anni fa. Secondo Grover J. Whitehurst, direttore del DOE Institute, sovrintendente del ‘National Assessment of Adult Literacy’, alla base del regresso delle lettere stanno l’incremento degli spettatori del piccolo schermo e degli accessi web.

Sembra che l’abuso dell’interconnessione elettronica nasconda un isolamento personale. Una ricerca promossa dal ‘Kaiser Family Fund’ ha rivelato che i bambini americani oggi trascorrono ogni giorno in media sei ore e mezza davanti alla TV – navigando su internet, scrivendo sms e passando il tempo i compagnia di videogiochi e altri apparecchi elettronici.

Ancor peggio, la stessa ricerca ha evidenziato che i minori interagiscono con i media elettronici in completa solitudine. Ad esempio, i bambini di fascia d’età più alta trascorrono il 95% del proprio tempo guardando la TV da soli, per quelli tra i due e i sette anni la percentuale supera l’81%.

I nostri figli stanno addentrandosi sempre più a fondo in mondi virtuali, perdendo progressivamente partecipazione e contatto diretto con i loro coetanei e con le emozioni che ne scaturiscono. Non è un problema solo americano.

I bambini delle altre nazioni tecnologicamente avanzate stanno seguendo i passi dei loro consimili negli Usa. Questa condizione non potrebbe essere meglio descritta che dall’espressione “depressione ad alta tecnologia”.

Le generazioni future sono destinate a rimanere sole per sempre? No, dicono gli ottimisti tecnologici. Alcuni tra i massimi esperti del settore si stanno freneticamente occupando della prossima proliferazione di alte tecnologie, con l'obiettivo di imprimere una svolta alle nostre esistenze ormai obsolete.

Il tema è quello dell’affective computing, e l’obiettivo è quello di creare una tipologia di computer che possa esprimere emozioni, interpretarle e rispondere a quelle sollecitate da altri. In sostanza, un computer che si mette in relazione con i sentimenti. Alcune videocamere permettono alle macchine in questione di registrare anche i più impercettibili mutamenti del viso, che vengono processati in tempo reale per consentire di riconoscere lo stato emozionale di un individuo.

Alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (M.I.T.) hanno progettato una macchina del genere, grazie alla quale sono riusciti a individuare impercettibili cambiamenti d’umore partendo da alterazioni del battito cardiaco, del respiro, della conduttività epidermica, della temperatura corporea, della pulsazione e dell’attività muscolare.

Rosalind Picard, uno dei ricercatori pionieri nel campo dell’affective computing, ha riportato di un eccezionale studio effettuato al MIT Media Lab. Un individuo virtuale computerizzato chiamato ‘Laura’ è stato “formato” come consigliere individuale, di aiuto nelle cose pratiche, nei problemi quotidiani delle persone. Laura è in grado di conversare, e anche di manipolare gli oggetti, fissare e reagire con lo sguardo alle cose, mantenere posture, fare cenni col capo, esprimersi col viso. Laura, come ogni buon allenatore, fornisce ai propri “interlocutori” feedback sulle loro performance, li aiuta a migliorare i propri esercizi, dà empatiche risposte sia fisiche sia verbali, suggerisce il corretto stato comportamentale.

Le reazioni dei soggetti interessati non si sono fatte attendere. Rispetto a coloro che interagiscono con computer “non relazionali”, alcuni degli individui – ma non tutti – che sono stati con Laura hanno dichiarato di aver avuto esperienza di un rapporto non dissimile da quello che ci si potrebbe aspettare di avere con un vero tutor. “Sentivo che Laura, nel suo stile del tutto particolare, ci teneva sul serio”, ha dichiarato qualcuno. “Sento… di piacere a Laura”, ha detto un altro. Così un terzo: “Laura ed io abbiamo fiducia l’uno nell’altra”. Un tipico commento è stato: “Mi piace conversare con Laura, soprattutto se penso a quelle piccole battute su scuola, condizioni climatiche, interessi personali e così via. È così generosa! Davvero sembra una persona in carne e ossa”.

Ad essere sinceri, ci sono stati anche commenti diversi. “Personalmente, Laura mi fa schifo”, ha detto qualcuno.

Altri esperimenti dai simili risultati – empatici computer pronti a dialogare con la gente come se niente fosse – condotti all’Università di Stanford hanno portato i ricercatori a concludere che “i computer personificati sono in effetti attori sociali nel vero senso del termine ‘sociale’, in quanto sono in grado di stabilire rapporti tipici dell’interazione tra essere umano e essere umano”.

Francamente, è dura scegliere come comportarsi di fronte a tali bizzarre pretese tecnologiche, l’imbarazzo oscilla tra l’idea di doversi confrontare con una triste patologia e una forte sensazione di inquietudine. Non ci sono dubbi sul fatto che un sempre più corposo numero di (più o meno) giovani finiscano per rimanere intrappolati in mondi immaginari e paralleli, che credono i sostituti ideali di quello reale. Con l’affective computing in agguato all’orizzonte, coloro che vivono in solitudine fremono per interagire con amici di silicio, emotivamente programmati per comportarsi il più empaticamente possibile e per riuscire a diventare i migliori confidenti.

Progresso? Possiamo di certo fare di meglio.

 

Jeremy Rifkin è autore di 'The Hydrogen Economy: The Creation of the World Wide Energy Web and the Redistribution of Power on Earth' e consigliere del parlamento europeo per le politiche di energia rinnovabile e per l'economia dell'idrogeno. È presidente della Foundation on Economic Trends di Washington.

 


Fonte: The Boston Globe
Traduzione a cura di Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media