Oltre il paradigma sviluppista
di Francesco Lamendola - 17/10/2006
Globalizzazione e tecnologizzazione sono le parole d'ordine dell'odierno pensiero unico, basato sull'assoluta autoreferenzialità del paradigma sviluppista, che punta al maximum e non all'optimum. Sapere di più, guadagnare di più, mangiare di più, produrre di più, andare sempre più in fretta sono presentati come i valori supremi e, al tempo stesso, come la ricetta che consentirà anche al Sud del Mondo di… svilupparsi, cioè di far proprio l'"american way of life" e di goderne - presto o tardi - gl'impagabili benefici. Oppure no?
"Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti."
Ep. Ad Rom., 1, 22.
La globalizzazione viene oggi presentata, dai poteri forti dell'economia mondiale e dalla cultura dominante, come un bene evidente in sé stesso, tale da avviare l'umanità verso "le magnifiche sorti e progressive" di leopardiana memoria. E la sua punta di diamante, lo sviluppo illimitato dell'apparato tecno-scientifico, ci viene presentata come un fenomeno altamente positivo, addirittura gravido di promesse liberatrici, perché emanciperà l'essere umano dalla fatica del lavoro e provocherà un aumento del tempo libero da dedicare alle attività creative e al riposo.
Che forse non sia così, dovrebbe farcelo sospettare già la semplice riflessione che la diffusione massiva della super-tecnologia comporta un genocidio culturale planetario, perché in nome di tale supposta "liberazione" sta provocando la soppressione di tutte le culture locali. Raimom Panikkar, nel suo libro La Torre di Babele", osservava già più di quindici anni fa che noi dobbiamo invece emanciparci dalla tecnologia, da lui definita "il nemico più grande della sopravvivenza di tutte le altre culture che sono esistite finora sopra la terra." Se continueremo a tecnologizzare il mondo, inseguendo il miraggio dello sviluppo illimitato, ciò "rappresenterà la morte di tutte le altre culture. Non possiamo illuderci. O una cosa o l'alta. So che questa affermazione risulta discutibile per molti, i quali pensano che sia necessario passare per la tecnologizzazione del mondo, ma imboccare questa strada significa azionare il bulldozer che eliminerà quaòsiasi altro tipo di visione del mondo, di cultura, di religione (il corsivo è nostro). Non possiamo farci illusioni sulla compatibilità fra la visione tecnologica della realtà e ciò che finora e per millenni l'umanità ha vissuto. Quelo che non mi convince è che mi si dica: è per il tuo bene, la tecnologia rispetterà la tua cultura. Cercare di mettere insieme le due cose mi sembra che derivi da una lettura molto superficiale tanto delle culture autoctone come del valore della tecnologia, che non è un semplice strumento che maneggi e puoi abbandonare a tuo piacimento. Si tratta di qualcosa di un ordine molto diverso, e quando i tecnocrati dicono che la tecnologia è solo uno strumento, sembrano non credere nella tecnologia… L'essenza della tecnologia è l'accelerazione" (corsivo nostro).
Panikkar, dunque, propone di emanciparsi dalla tecnologia, non di rinunciare d essa. Nella cultura occidentale, infatti, "rinunciare" a qualcosa implica il concetto che si abbandona ciò che si possedeva, e sia pure in vista di un fine superiore; quindi, che ci si mutila, che ci si impoverisce. Quel che dobbiamo fare è semplicemente prendere le distanze da essa, avendone riconosciuto il carattere di strumento di morte e non di vita, come si credeva; ma non potremo mai farlo, finché non saremo in grado di compiere un salto di qualità e saltare al di là della cultura che l'ha creata. E conclude: "Finché ci si scomunica dal resto della realtà, finchè si pensa che la terra non sia un essere vivente, finché non si ritorna un po' più animisti - l'animismo che abbiamo disprezzato -, finchè non ci rendiamo conto che la solidarietà o la legge del karma è universale e che, di conseguenza, esercitare violenza su una particella infima di materia porta con sé violenze in tutte le parti - senza accorgerci che la causa del cancro dell'organismo dipende dal fatto che abbiamo creato una società cancerosa che ha perduto la omeostasi, cioè che punta al maximum e non all'optimum; finché non esistono ispirazioni interiori per non sapere di più, non mangiare di più, non andare più in fretta, non guadagnare più soldi, non avere più influenza, non essere più potenti e tutto il resto, non siamo sulla buona strada. E poi ci stupiamo che anche l'organismo imiti la civiltà consumista che abbiamo creato."
Per quanto riguarda le alternative alla cultura moderna, occidentale e antitradizionale (compresa la tradizione dello stesso Occidente), con esemplare lucidità di pensiero Panikkar ammonisce che non c'è una alternativa, pena il ricadere (se vi fosse) nella stessa tendenza al pensiero unico, contrappositivo ed esclusivista, che in teoria si vorrebbe esorcizzare. Non cè, infatti, una cultura globale degna di questo nome: sarebbe una contraddizione in termini, perché "cultura" è sempre sinonimo di pluralità. E cita il Talmud per sostenere, lui sacerdote cattolico (ma anche seguace dell'induismo) che "neanche Dio ha una prospettiva globale", di conseguenza non c'è, e non può esserci, una religione universale, né un ordine ideale e perfetto, sia esso politico, economico, umano. Oltre a questa fondamentale obiezione di ordine logico, Panikkar sostiene che la cultura occidentale non è la soluzione degli attuali problemi mondiali anche per specifiche ragioni storiche - in sostanziale assonanza, ci permettiamo di rilevare, col pensiero di Réné Guénon e di altri illustri "eretici" dell'Occidente. Essa è basata, in particolare, su una tecnocrazia sempre più invadente e omologante, ed è dominata da un'ideologia paneconomica che subordina all'utile ogni altro valore (e qui viene in mente il Marcuse de L'uomo a una dimensione); non è - come vorrebbe far credere - né universale, né universalizzabile; e, infine, reca in sé stessa i germi evidenti della propria autodistruzione. Ciò significa che l'Occidente, in questa fase storica, sta letteralmente esportando ( e sempre con la retorica del white men's burden, "il fardello dell'uomo bianco" di kiplinghiana memoria), con le buone e anche con le cattive, una pestilenza che è destinata a propagarsi inarrestabilmente nel resto del mondo.
Le alternative proposte da Panikkar non possono che essere provvisorie, secolari e pluraliste. Si tratta di decentralizzare le strutture economiche, politiche, psicologiche, etiche, fuori di sé e dentro di sé, per ritrovare il senso di una vera centralizzazione: una realtà d'ordine superiore, ove il centro sia dappertutto. "Corpo mistico di Cristo, buddhakaia, atman-brahaman, ecc. sono altrettanti simboli tradizionali che esprimono questa intuizione. Il senso della vita umana non consiste allora nello scalare i più alti vertici della piramide umana in una lotta a morte contro il tuo vicino (competizione), ma nel trovare il mio centro concentrico con tutti gli altri centri dell'universo e così collaborare al sostegno del mondo (come lo esprime il concetto di 'lokasamgraha' nella Bhagavadgita".
In realtà, quel che oggi viene schematicamente e piuttosto pomposamente presentato come "globalizzazione" è piuttosto una occidentalizzazione del mondo (parafrasando il titolo di un celebre saggio dell'economista francese Serge Latouche, animatore del movimento della Decrescita sostenibile). In nome dell'"american way of life", in nome degli hot-dogs e della Coca-Cola si sta esportando ovunque il modello occidentale basato sullo sviluppo, anzi lo stesso Occidente sta subendo la colonizzazione economica e culturale statunitense (dall'Europa all'Australia, alla Nuova Zelanda). Questo processo sta prendendo, per usare l'espressione di Michael Hardt e Toni Negri, la configurazione economico-politica dell' Impero, intendendo con ciò non l'impero statunitense (di cui oggi si serve), ma il sistema capitalista mondiale basato sulla tecnoscienza e sul "libero mercato", paravento del monopolio planetario delle società multinazionali, i cui bilanci superano - e di molto - quelli della maggior parte degli Stati "sovrani" esistenti. Come affermano Hardt e Negri, "L'Impero si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi. Nel corso degli ultimi decenni, con la fine dei regimi coloniali e, ancora più rapidamente, in seguito al crollo dell'Unione Sovietica, e delle barriere da essa opposte al mercato mondiale capitalistico, abbiamo assistito a un'irresistibile e irreversibile globalizzazione degli scambi economici e culturali. Assieme al mercato mondiale e ai circuiti globali della produzione sono emersi un nuovo ordine globale, una nuova logica e una nuova struttura di potere: in breve, una nuova forma di sovranità. Di fatto, l'Impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo." (op. cit., Milano, 2001, p. 14).
Osserva Latouche: "E' mostruoso per un indù uccidere e mangiare una vacca, ciò è senza dubbio più traumatico di quanto non lo sia per noi il fatto di lasciare che le vedove dei bramini si gettino tra le fiamme del rogo del marito. È chiaro che, se l'India avesse conquistato il mondo, la purificazione delle vedove farebbe parte dei diritti della donna e l'uccisione delle vacche sarebbe proscritta come un crimine contro il rispetto della vita. La sola vera universalità concepibile, dunque, si può basare soltanto su un consenso veramente universale. Essa passa per un dialogo autentico tra le culture. Un simile dialogo è possibile perché la comunicabilità esiste. Può riuscire soltanto se ciascuno è pronto a fare concessioni. Noi condividiamo la convinzione che ogni cultura ha molto da insegnare alle altre, che può arricchirsi di numerosi apporti. Tuttavia, non è sicuro che ciascuno possa giocare il gioco della reciprocità, cioè rinunciare concretamente alla propria 'barbarie' per ottenere dall'Altro che rinunci alla sua in modo da ottenere a entrambi di godere dei loro scambi reciproci. Poiché non c'è speranza di fondare alcunchè di durevole sulla truffa di una pseudo-universalità imposta dalla violenza e perpetuata dalla negazione dell'Altro, vale la pena di fare la scommessa che ci sia uno spazio comune di coesistenza fraterna da scoprire e da costruire." (op. cit., Torino, 1992, pp. 148-49).
Un altro elemento distruttivo del modello sviluppista è la crescente desacralizzazione della società, in quanto abolisce tempi e luoghi del sacro e tende a eliminare il senso del limite e il senso del mistero. I tempi: si pensi all’apertura domenicale dei centri commerciali, che per favorire l’acquisto di beni di consumo (spesso superflui o decisamente dannosi) sopprime il “tempo sacro” settimanale che per 2.000 anni ha scandito i ritmi della vita sociale dell’Occidente. Il contadino che, fino a pochi anni fa, alla domenica non solo sospendeva i lavori agricoli, ma indossava gli abiti “buoni” della festa e sostituiva le scarpe (ben lucidate) agli zoccoli di legno, rispettava una tradizione non solo formale, ma anche sostanziale, legata alla profonda consapevolezza che la terra elargisce generosamente i suoi frutti a coloro che rispettano i tempi del divino, e non diventano “empi” per l’ossessione di massimizzare la produzione e il guadagno. Vi sono alcuni affreschi medioevali, in Italia settentrionale (a Biella, per esempio, o a San Pietro di Feletto, in provincia di Treviso) che raffigurano il “Cristo della domenica”. I lavori svolti empiamente nel giorno del riposo domenicale (potatura delle viti, fabbricazione di utensili, ecc.) sono raffigurati come altrettante piaghe che sfigurano il corpo di Gesù, infliggendogli una nuova e prolungata Passione. Si pensi anche che nel “buio” Medioevio vigeva l’istituto delle “tregue di Dio” e delle “paci di Dio”, che interdicevano le attività belliche nei giorni della passione del Signore (da venerdì a domenica, nonché nelle grandi ricorrenze del calendario cristiano), che erano rispettate da entrambe le parti, anche nel coso dei più aspri conflitti. E si confronti questo atteggiamento con le modalità della guerra condotta, per esempio, in Irak dalle forze armate statunitensi, ove né i tempi né i luoghi della religione islamica sono stati minimamente rispettati (oppure si pensi a quante offensive cruente sono state lanciate, nella ricorrenza del Natale, dagli eserciti contrapposti nel corso delle due guerre mondiali).
I luoghi: nell’ottica sviluppista, il paesaggio terrestre non è che un grande area commercializzabile ed edificabile; qualunque porzione della superficie terrestre è, economicamente, paragonabile ad un’altra, poiché sono tutte intercambiabili. Invece le culture autoctone (compresa quella occidentale, fino alle soglie della modernità) hanno sempre ritenuto che alcuni luoghi, per il loro carattere sacro, sono qualitativamente diversi dal territorio circostante, e penetrarvi senza il dovuto rispetto - o, peggio, saccheggiarli e devastarli a fine di lucro – significa mettere in crisi l’armonia cosmica: un valore che trascende le beghe fra le singole comunità umane e implica, invece, la preservazione dell’intero ecosistema. Per difendere i luoghi sacri dalla profanazione, valeva anche la pena di combattere e morire: come fecero i Sioux di Cavallo Pazzo quando affrontarono le “giacche azzurre” del colonnello Custer al Little Big Horn, nel 1876: si trattava di proteggere le Colline Nere del Dakota, sacre alla divinità, dai cercatori d’oro e dagli speculatori di cui l’esercito statunitense non era che il braccio armato. Ma nell’ottica sviluppista, ripetiamo, non esistono più i luoghi del sacro: l’intero pianeta è un unico luogo profano, essenzialmente un magazzino da cui attingere materie prime e una discarica ove gettare i rifiuti del processo industriale.
A questo punto, è bene fare una precisazione. I concetti di “tempo sacro” e di “luogo sacro” sono certamente universali (fino all’avvento della cosiddetta Rivoluzione scientifica e al suo logico corollario, la Rivoluzione industriale), ma non è universale il modo in cui vengono percepiti dalle diverse culture, né il quadro generale di riferimento in cui vengono elaborati. Anzi, addirittura non sono universali nemmeno i concetti più generali di “tempo” e di “spazio”, che solo il nostro “sapere” moderno (forse, come pensava Karl Jaspers, un borioso e paradossale “non sapere" eretto a sistema), giudica - con buona pace di Einstein e della teoria della relatività - come spazio e tempo assoluti, dunque intercambiabili. E questo è un altro di quegli equivoci in cui la presuntuosa mentalità occidentale moderna cade più sovente: credere, cioè, che la categoria del sacro sia universalizzabile (come pensavano gli antropologi di formazione positivista: valga per tutti il celebre esempio del Ramo d’oro di Frazer). Scrive, a questo proposito, Giovanni Monastra su Diorama letterario (n. 166, 1993): “Incredibilmente ancora oggi molti, ignari dei progressi della prossemica [n.b.: lo studio delle forme di interazione comportamentale dei vari gruppi umani], credono che tra gli uomini i vari tipi di spazio costituiscano una serie di dimensioni oggettive, uguali per tutti gli individui. Alla base di tale credenza sta l’idea astratta derivante dall’Illuminismo, secondo cui l’uomo e l’animale sarebbero macchine strutturate in serie, appiattite da un egualitarismo che relega nella marginalità ogni differenza. In contrasto con tutto ciò, invece, il modo di percepire e vivere la dimensione spaziale muta più o meno pure all’interno della nostra specie, tra una cultura e l’altra. Così i rapporti e le relazioni tra gli individui, esprimendosi, appunto, nello spazio, sono profondamente segnati dal modo di concepirlo, quindi la loro struttura varia da cultura a cultura in maniera radicale.”
Come sappiamo già fin dagli anni Trenta del Novecento (grazie agli studi di B. L. Whorf), il linguaggio non riveste solo una funzione comunicativa, ma anche concettuale; non è solo un codice di segni, ma anche un universo mentale. Di conseguenza, la semplice “traduzione” linguistica di concetti quali tempo e spazio è inadeguata a rendere il significato profondo nelle diverse culture umane. Prosegue infatti Monastra: “Secondo questo modo di vedere (ossia quello “riduzionistico” occidentale moderno) il pensiero non dipende dalla grammatica, ma dalle leggi della logica o della ragione, che si ritiene siano le stesse per tutti gli osservatori dell’universo [corsivo nostro: non aveva affermato Galilei che anche Dio pensa in termini matematici, ossia di geometria euclidea?], e rappresentino la razionalità dell’universo, che può essere trovata indipendentemente da tutti gli osservatori intelligenti, che parlino cinese o chocthaw. Si sostiene che la matematica, la logica simbolica, la filosofia trattano direttamente della sfera del pensiero, e non sono esse stesse estensioni specializzate del linguaggio. Ciò non è vero (…): infatti esistono condizionamenti linguistico-grammaticali sulla formulazione del pensiero, condizionamenti che sono inconsci. Gli indiani Hopi, ad esempio, percepiscono la realtà in modo molto diverso dal nostro, in quanto la loro struttura linguistica filtra ed esprime la realtà secondo canoni differenti da quelli impliciti nel nostro linguaggio: così essi vivono in un eterno presente, mancando loro la dimensione del divenire, così radicata invece nel mondo indoeuropeo. La loro è una lingua “atemporale”, la nostra a sua volta si connota come “temporale”. In sintonia con tutto ciò, gli Hopi possiedono verbi senza soggetto: questo permette loro di descrivere il mondo come un insieme di stati piuttosto che di forze in azione.”
Ma tornando alla dimensione specifica del sacro, ci sembra particolarmente significativo quanto osservato da un insigne studioso della classicità, Massimiliano Pavan, a proposito dell’eccesso di razionalizzazione della cultura occidentale moderna e del divorzio fra la sfera del sacro e quella del pensiero raziocinante (che poi è una particolare forma del Logos, quella del pensiero strumentale e calcolante, che vede negli enti del mondo solo dei mezzi per raggiungere il proprio fine, ossia, sostanzialmente, il dominio sulla realtà). Egli parlava de la lezione di Diotima (il misterioso personaggio femminile cui Socrate, nel Simposio platonico, attribuisce le sue conoscenze segrete sul mistero dell’Eros) quando affermava che l’ansia del sapere è, in definitiva, ansia di redenzione, ed è elemento identitario dell’umano. Per Diotima, la funzione di Amore è “amore di sapere” e non “possesso” di esso; poiché si trova a mezza strada fra sapienza e ignoranza. “E quindi – scrive Platone – poiché la sapienza lo è delle cose più belle e Amore è amore del bello, ne consegue necessariamente che Amore è filosofo, e in quanto filosofo sta in mezzo tra il sapiente e l’ignorante.”
Partendo da questa “lezione di Diotima”, Pavan giustamente osserva: “Oggi siamo abituati alla rottura, o divaricazione, fra il senso del sacro e il filosofare, cioè il raziocinare. In realtà il razionalismo, lungi dall’aver distrutto il senso del sacro, è ripiegato nel proposito di spiegarlo, cioè di storicizzarlo. In sostanza mira a svuotarlo del mistero che gli è consustanziale. Si arriva alla incongruenza di razionalizzare formule e misteri religiosi, per renderli ‘più accessibili’. Ma esiste una religione senza la carica d’ineffabilità che c'è nel 'segno'? Dopo aver relegato la religione al regno dell'ignoranza e dell'assurdo, il razionalismo mina il sacro con la parvenza di salvarne la storicità. La conseguenza è che la razionalizzazione del mito genera altri miti. Ridurre il mito a storicità comporta che tutta la storia è mito col che lo è anche la pretesa di razionalità [cosivo nostro; da Massimiliano Pavan, La lezione di Diotima, in Tra classicismo e cristianesimo, vol. 1, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1995, pp. 113-14].
Anche scientismo e iper-razionalismo, dunque, in ultima istanza non sono altro che miti; miti che hanno preteso di sostituire i "vecchi" miti di origine religiosa (ma anche artistica, filosofica, magico-alchemica, astrologica, ecc.), ossia le altre visioni del mondo, basate sul senso del limite e sul senso del mistero: i due elementi fondanti della categoria del sacro. Dunque il razionalismo di matrice positivistica e materialistica, rafforzato dai "successi" quantitativi della tecnologia, si presenta non come un mito che vuole aggiungersi agli altri miti o, al limite, detronizzarli (come può fare una nuova religione con quella precedente), ma come un sapere vero (epistéme) che si pone di contro a un sapere parziale e illusorio (doxa). Insomma un sapere autoreferenziale di primo livello che squalifica e rende obsoleti, col solo fatto di esistere, i saperi di secondo e terzo livello, e li relega al rango di curiosità o testimonianze archeologiche. È esattamente lo schema seguito da Marx nell'accreditare la sua formulazione del comunismo di quell'appellativo di "scientifico" (poi ripresa e oggettivata dagli stessi avversari e dalla terminologia storico-filosofica) di contro alle altre forme del pensiero e della prassi comunista, da lui gratificate esplicitamente della qualifica di "utopistiche" e collocate, nel contesto di una concezione evolutiva di chiara derivazione hegeliana (e darwiniana), tra le più o meno nobili anticaglie che andavano dimenticate con un sorriso di compiacenza. Il sorriso dell'uomo "civilizzato" di fronte ai riti dello sciamano di qualche tribù autoctona, e che esprime la compiaciuta consapevolezza non solo di un'intrinseca superiorità, ma anche di una ineluttbile scomparsa delle forme culturali "obsolete". Ahimè, scientismo e ultra-razionalismo non si rendono conto che, se è vero che "l'essenza della tecnologia è l'accelerazione", allora essi hanno innescato un meccanismo che sta rendendo - e forse ha già reso - "obsoleto" non l'essere umano di questa o quella determinata cultura, ma l'essere umano in generale: nel senso in cui l'intendeva Günther Anders quando affermava che la tecnica ha ormai reso antiquato l'uomo come tale, con buona pace degli esponenti di questa o quella "avanguardia" culturale.
La conclusione di Pavan è molto chiara. "L'eccesso di razionalizzazione ha emarginato le istanze del profondo nella misura in cui ha cercato di esorcizzarle 'spiegandole'. Ma così conoscere non è comprendere (…). Il vero conoscere vuole 'partecipazione': entrare. Che senso ha la conoscenza del vero e del bene, senza desiderio o aspirazione di esserne 'possessori'? è questa la lezione di Diotima. Dice la sacerdotessa di Mantinea: L'amore è desiderio di possedere il bene per sempre. Amore, che è desiderio di possedere, non ancora possesso, "procrea nel bello, secondo il corpo e secondo l'anima." La naturalità non è nemica del logos perché non può essergli estranea: il logos tende al disvelamento finale perché è anche il fondamento iniziale, 'naturale'. Deve 'farsi carne' perché la carne partecipi del disvelamento." (come sopra, p. 116).
Ed ecco una plausibile spiegazione del perché il nostro sapere, come diceva Karl Jaspers, è in realtà un non-sapere: 1), perché è conoscere senza partecipare, quindi senza comprendere, 2) perché mira al possesso e non all'amore del sapere; 3) perché ignora le istanze del profondo e quindi tradisce quell'intima ansia di redenzione che ne è l'orgine e l'intimo significato.
Un altro aspetto inquietante della cosiddetta globalizzazione, è la sua caratteristica evocazione di quelle forze malefiche, demoniache, che - come pensava anche Julius Evola (vedi, in particolare, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo) non è più in grado di controllare. Lasciamo perdere, per ora, se si tratti di forze personali o impersonali, interiori o esterne; questione che non ci sarebbe possibile affrontare in questa sede, ma che ci promettiamo di riprendere in un luogo a parte. Quel che è certo è che tali forze esistono, e che l'umanità, probabilmente, ha già dovuto fare i conti con esse, laddove la sua smisurata hybris l'ha condotta sui sentieri perduti della potenziale autodistruzione. Una traccia ci è data dal mito platonico dell'Atlantide (mito, lo ripetiamo, nel senso più alto della parola, di sapere profondo), narrato nel Timeo e nel Crizia. La civiltà di Atlantide aveva raggiunto livelli insuperati di benessere e di progresso, ma i suoi sapienti, accecati da un delirio di onnipotenza, scherzavano col fuoco delle forze proibite della magia nera, dalle quali finirono peressere travolti insieme a tutti gli altri. Difficile non vedere l'analogia con la "civiltà dell'atomo", inaugurata dai funghi malvagi di Hiroshima e Nagasaki; difficile, anche, non correre con la mente a tutti quei reperti archeologici incongrui (Charles Fort diceva "maledetti", ossia scientificamente inspiegabili secondo l'attuale paradigma del sapere evoluzionistico; ad esempio, quell'impronta di piede umano - anzi di mocassino, con tanto di cuciture - trovata in una roccia antica di milioni di anni.
A conclusione di un ragionamento sulla linea di sviluppo di talune sette e logge spiritualistiche in direzione superomistica e, più in generale, sulla fondamentale "ambiguità" etica (nel senso proprio del termine) delle iniziazoni esoteriche, Evola si domandava: "Si può dunque parlare di 'asceti del male'? Lo si può, ma non in senso moralistico. Il regno del 'male' corrisponde, metafisicamente, a ciò che il Guénon ha chiamato contro-iniziazione. Sul piano più basso, si tratta delle influenze che già chiamammo 'infere', influenze che, per via della loro stessa natura, agiscono distruttivamente su tutto ciò che è forma e personalità. Ma, più in alto, si tratta di forze intelligenti, lo scopo delle quali è il deviare, pervertire o invertire ogni tendenza dell'uomo a riconnettersi col vero soprannaturale. È, questo, un ordine che si può chiamare 'diabolico' e, nel caso limite, satanico. Né esso va concepito astrattamente, bensì in relazione ad esseri reali, talvolta anche a determinati centri e ad un specie di fronte occulto. Anche questo è un piano non semplicemente umano, e appunto in funzione di esso si definisce, in determinati casi, il concetto di 'asceti del male'." (op. cit., 1971, p. 170).
Abbiamo detto che la filosofia sviluppista, divinizzando la tecnologia, relega l'essere umano al ruolo di macchina accessoria del sistema, rendendolo irrimediabilmente obsoleto rispetto alla sua stessa scienza. Ora dobbiamo aggiungere che essa, in quanto economicizza tutti i fenomeni umani, in una spirale cieca di consumo e produzione, produzione e consumo, si regge sulla continua, nevrotica invenzione di bisogni artificiali che ci rendono sempre più schiavi del futile e del superfluo, danneggiano la salute, l'ambiente e i rapporti sociali, e in definitiva risultano utili solo al mercato e non al cittadino-suddito-consumatore. Già Pier Paolo Pasolini, inascoltato profeta degli anni del preteso "miracolo economico", denunciava, nei suoi Scritti corsari, quello che lui chiamava giustamente "sviluppo senza progresso". Ora anche i più miopi possono rendersi conto, se lo vogliono, che non questo o quel modello di sviluppo, ma proprio la filosofia dello sviluppo è in sé stessa contraddittoria e insostenibile. Come si può pensare, in un pianeta dalle risorse limitate, a uno sviluppo indefinito? A un aumento illimitato della produzione, dei consumi, del benessere materiale, del dominio sulla natura? Per non parlare del tremendo impoverimento spirituale cui ci stiamo avviando, e che un profeta ancora più in anticipo sui tempi, Oscar Wilde (di nuovo un poeta!, ma diceva Tiziano Terzani che solo i poeti potranno, forse, salvare il mondo) così denunciava, alla fine del XIX secolo: "Conosciamo il prezzo di tutto, ma il valore di niente."
Tuttavia, è lecito domandarsi da dove abbia avuto origine il perverso meccanismo della sovraproduzione, sempre più costretta a creare nuovi bisogni immaginari e a spacciarli per necessari. Alain Caillé, ad esempio (nel suo libro Critica della ragione utilitaria) sostiene che, secondo la visione utilitaristica oggi dominante, la storia umana sarebbe stata caratterizzata, ab origine, dalla scarsità materiale, il che avrebbe obbligato le comunità umane a un defatigante tour de force con relativo accompagnamento di inasprimento dei ritmi di lavoro, predominio della logica dell'interesse, affermazione degli impulsi più egoistici e conflittualità permanente. Da ciò, una linea di tendenza destinata a sfociare inevitabilmente, nelle società moderne, in una economia di mercato in cui la sfera economica diviene sempre più autonoma rispetto a quella sociale e culturale e sempre più slegata dalle condizioni materiali, ma non dai meccanismi psicologici, che l'hanno originata (e viene in mente, a questo proposito, il "mito della roba" che induce il verghiano Mazzarò a vivere per accumulare beni, senza peraltro concedersi mai il piacere di goderne).
Ebbene Caillé contesta una tale spiegazione e, rifacendosi agli studi dell'antropologo M. Sahlins (Economia dell'età della pietra, Milano, 1980) egli afferma che la vera "società dell'abbondanza" non è quella moderna, caratterizzata da una rincorsa affannosa del principio di massimo piacere, ma lo è stata quella cui meno si penserebbe di primo acchito: la società paleolitica. Infattii, come osserva in proposito Mario Cenedese, nelle società ad economia di caccia e raccolta, che non conoscono l'agricoltura oppure che la conoscono ma la rifiutano (in base a una scelta ben precisa: richiederebbe un super-lavoro non necessario e tale da sconvolgere gli equilibri interni) il tempo di lavoro medio si aggira sempre intorno alle quattro ore giornaliere, calcolo del resto malagevole per la difficoiltà di separare nettamente il tempo di lavoro dal tempo libero. "Infatti - scrive Cenedese (su Frontiere, nr. 1, 1995), negli ambienti tribali la maggior parte della giornata viene impiegata per dormire, giocare, chiacchierare o, a seconda dei periodi, per la celebrazione dei riti. Rispetto ai nostri standard, alla nostra capacità di usufruire di beni e servizi, il livello di vita può sembrare incomparabilmente basso." E allora?
Lasciamo la parola direttamente a Caillé: "Tuttavia, è lecito parlare di abbondanza perché questa non ha alcun rapporto semplice con la quantità dei beni posseduti e consumati. Essa è il risultato di un rapporto con ciò che si considera ed è istituito come bisogno. Del fatto che queste società sappiano limitare i loro bisogni, la prova migliore è che esse non si preoccupano affatto di accumulare o di accrescere la loro produzione. Se per caso diventano più produttive, esse non aumentano la produzione ma il tempo dedicato agli ozi. Alcune di esse rifiutano poi di lanciarsi nell'avventura dell'agricoltura, spiegando che ciò richiede troppo lavoro (A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Torino, 1991, p. 64).
Di conseguenza, osserva Cenedese, sembrano avvalorate le tesi dell'economista Karl Polanyi, "secondo cui la scarsità, lontana distanze stellari dall'essere secondo natura, è per converso istituita dall'economia di mercato come suo elemento costitutivo centrale, assieme all'incentivo rappresentato dal profitto."
Ora, la globalizzazione non è altro che l'esportazione forzata di questo modello economico-sociale basato sulla nevrosi dell'indigenza e, quindi, dell'accumulo illimitato di beni. Osserva Cenedese che nell'impostazione della dialettica Nord-Sud i termini di "sviluppo" e di "ritardo" hanno una data ben precisa: il 20 gennaio 1949. In quel giorno, il presidente statunitense Harry S. Truman tenne un celebre discorso al Congresso di Washington, in cui definiva gran parte del Pianeta "area sottosviluppata" e sosteneva che, per colmare tale ritardo, occorreva puntare sullo sviluppo, "cioè un processo attraverso il quale, seguendo l'esperienza dell'occidente e imitandone i percorsi, un paese povero, quindi arretrato, poteva diventare ricco, cioè sviluppato, mediante la crescita economica e la modernizzazione socio-culturale. In breve, il messaggio era: Fate come noi." Ma l'esportazione del modello sviluppista ai paesi del Sud del Mondo doveva portare necessariamente con sé la distruzione non solo delle economie tribali tradizionali, ma anche delle culture spirituali che ne costituivano l'elemento coesivo fondamentale.
Scrive Caillé (op. cit., pp. 75-77): "Ciò che la conquista coloniale distrugge non è l'economia. Ciò che essa distrugge sono i meccanismi sottili di produzione e riproduzione delle società tradizionali e i simbolismi attraverso i quali i loro membri davano un senso all'esistenza. Dopo l'annientamento dei loro punti di riferimento immaginari tradizionali, la sola via di uscita simbolica che resta loro aperta è quella dell'imitazione dei vincitori. Ma la soluzione mimetica crea altrettanti o anche più problemi di quanti non ne risolva. Più il desiderio porta all'imitazione dei dominatori e più vacilla ciò che contribuiva a nutrire il sentimento di una identità propria e permetteva di resistere. Il mercato, allorchè si estende più rapidamente della capacità del tessuto sociale di cicatrizzare le ferite che esso gli infligge, genera catastrofi."
Continua Cenedese, riprendendo osservazioni dell'ecologista Wolgang Sachs: "Per non parlare dei cosidedetti 'trapianti tecnologici', fondati sull'idea singolare che il sottosviluppo sia primariamente un problema 'tecnico': l'abbandono delle tecniche tradizionali a profitto di tecniche occidentali moderne approda sovente a un fallimento. (…) Le tecniche tradizionali scompaiono, ma le nuove restano marginali. Esse non sono né ricreate, né gestite localmente, generano delle pratiche di produzione e di consumo estranee all'universo antico, determinano una disoccupazione supplementare. Tuttavia, la loro inadeguatezza alla situazione locale sarà trattata come un nuovo problema tecnico suscettibile di ricevere una nuova soluzione tecnica. A pieno titolo si può perciò considerare il massiccio ingresso del Terzo Mondo nell'universo tecnico occidentale come una forma di suicidio culturale. Per giunta, il divario tecnologico che oggi più che mai separa i paesi sviluppati da tutti gli altri è destinato ineluttabilmente ad aumentare."
Ecco, dunque, che l'idea sviluppista, enunciata formalmente nel discorso di Truman del 1949, ci si rivela oggi per quel che realmente era: una ideologia in cattiva fede, un mito artificialmente fabbricato per dare una giustificazione morale e materiale al crescente saccheggio planetario da parte dell'Impero, non senza un paternalistico aupicio di riduzione della forbice tra Nord e Sud, a patto di mettersi ciecamente nelle mani dei chirurghi del libero mercato; "Che imparino da noi!", ripeteva Reagan negli anni '80, e ripete Bush junior negli anni 2.000: ammirevoli esempi di stolidità e d'inossidabile arroganza culturale.
"Non è più possibile negarlo - scrive Sachs -: l'idea di tutti i Paesi del mondo in marcia su una strada comune non era che una chimera del dopoguerra. In realtà il mondo è diviso nella super-economia di una classe superiore e nell'economia povera di una classe inferiore di Paesi. Non è più possibile dire che tutti si muovono in uno spazio interdipendente: al contrario, la super-economia internazionale e l'economia povera del Sud del Mondo sono separate da un vero e proprio muro.[ E non è solo una metafora, ci permettiamo di aggiungere. Si pensi al muro che le autorità statunitensi stanno costruendo attraverso il deserto, da San Diego in California al Golfo del Messico, per tenere a bada i poveri dell'America Latina che cercano di entrare illegalmente negli U.S.A., e che il presidente Bush, nel maggio 2006, ha annunciato di voler far presidiare da reparti consistenti della Guardia Nazionale]. È passato tanto tempo da quando il Nord poteva essere considerato la locomotiva per la crescita del Sud. Un tempo ancora più lungo sembra trascorso da quando il Nord dipendeva da materie prime, da prodotti agricoli e da forza lavoro a basso costo, tutte cose che l'economia altamente tecnologizzata è in grado di sostituire con sempre maggiore facilità. Il Nord non ha più bisogno del Sud: prospera sull'esclusione del resto del mondo. Il mondo non si spacca più tra capitalismo e comunismo, ma tra economie lente e veloci (Wolfgang Sachs, Economia dello sviluppo, Forlì, 1992, pp. 56-57).
Esiste ancora, almeno a livello teorico, una via d'uscita da questo apparente vicolo cieco? Cenedese ricorda che alcuni economisti "eretici" dell'ultima generazione, tra i quali Edward Goldsmith, cercano di familiarizzarci con l'idea (a prima vista alquanto insolita)che dovremmo incominciare a muoverci verso una società economicamente stabile o in stato stazionario, cioè verso un'economia a crescita zero, "società in cui l'investimento di capitale uguaglia il deprezzamento e le nascite uguagliano le morti."
Torando agli effetti culturali e spirituali della globalizzazione, è facile notare come essa produca, attraverso i meccanismi descritti, una progressiva "despiritualizzazione" dell'essere umano, abbassandolo al livello di un corpo fisico da sfruttare selvaggiamente non solo sui luoghi e nei tempi di lavoro (tanto più invasivi quanto più "virtuali"), ma anche nel tempo libero, nello sport, nelle pratiche volte alla ricerca di un benessere fisico illusorio, perché decontestualizzato. È possibile, infatti, perseguire la ricerca della salute individuale all'interno di una natura ammalata, di un ambiente degradato? O non è forse vero che la salute fisica (e anche quella psichica: rara è la malattia mentale nelle culture autoctone, come ci dice l'etnopsichiatria; e rari sono i tumori e le malattie cardio-circolatorie) è in larga misura un fenomeno sociale?
Inoltre, essa appattisce le differenze individuali e, come aveva intuito Kierkegaard nella sua solitaria battaglia contro la dittatura della stampa e i meccanismi anonimi della società moderna, tende a sopprimere la categoria della unicità e irripetibilità del singolo essere umano (e ora, con la clonazione, non solo in senso figurato, ma anche in senso tragicamente letterale). Viene in mente l'opera teatrale di Egéne Ionesco Il Rinoceronte, che descrive una società in cui gli umani, l'uno dopo l'altro, si trasformano appunto in rinoceronti, sotto lo sguardo inorridito del protagonista, dove la cosa più raccapricciante non è poi la metamorfosi in sé stessa, ma il grottesco, narcisistico compiacimento che provoca in quanti ne sono protagonisti. Più si guardano allo specchio, più ammirano il grande corno che emerge dalla loro fronte, più si piacciono e si compiacciono: questa è la cosa terribile; più ancora della perdita dell'identità, la soddisfazione provata nel vederla soppressa (ma già Erich Fromm aveva parlato di Fuga dalla libertà; ed Etienne de la Boëthie, molto tempo prima, di Servitù volontaria.
Un discorso sulla scomparsa progressiva della unicità caratterizzante il singolo individuo, a questo punto, non può prescindere dalle recenti, acute riflessioni di Umberto Galimberti, che prendono le mosse da un celebre aforisma di Nietzsche: "L'uomo è un animale non ancora stabilizzato" (in Umano, troppo umano). Galimberti (che ha svolto tali riflessioni anche dalle pagine del quotidiano Repubblica) parte dalla constatazione che l'essere umano è fondamentalmente privo di "istinti", se per istinto si intende (come per gli animali) un codice di risposte rigide alle situazioni ambientali; tanto che lo stesso Freud si decise ben presto ad abbandonare il termine "Istinkt" per sostituirlo col più blando "Trieb", ossia "pulsione". Ciò fa sì che la sua vita, non governata da un codice biologico, sia notevolmente instabile; l'instabilità, però, è percepita come una condizione inquietante, perché ne risultano dei comportamenti imprevedibili. Appunto per stabilizzare il linguaggio ed il pensiero, egli ha elaborato la logica (togliendo alla parola quell'ambivalenza, tipica del discorso poetico e religioso); per stabilizzare i comportamenti, ha elaborato una morale (sia essa trascendente o immanente). Ora siamo giunti alla fase della stabilizzazione economica, per mezzo della ragione strumentale la cui applicazione è la tecnica.
La ragione strumentale, anzi, è divenuta l'unica forma di pensiero ammessa nell'era della tecnica, perché è rivolta ad ottimizzare il rapporto tra mezzi e fini e quindi, attraverso la tecnica, ad ottenere dall'essere umano la massima produttività. Per raggiungere quest'ultimo obiettivo, si devono necessariamente eliminare gli "inconvenienti umani", quali stanchezza, depressione, amore, che distraggono l'essere umano dalla sua funzione di produttore e lo differenziano dall'alto livello di efficienza della macchina. La conclusione di Galimberti, quindi, è un grido di allarme: stiamo attenti a non voler stabilizzare oltre un certo limite l'essere umano: solo accettando un certo grado di instabilità egli può far emergere la sua personalità individuale, altrimenti costretta a scomparire nel generale livellamento efficientistico-produttivo.
Abbiamo detto, più sopra, che una componente psicologica fondamentale della logica di mercato, esasperata dalle dinamiche della globalizzazione, è l'ansia di accumulare beni e, più in generale, di possedere, tanto che le stesse attività spirituali sono definite da un linguaggio di tipo economico-militare ("le conquiste del pensiero", per fare solo un esempio). Questo spirito di attaccamento spasmodico agli enti ridotti al rango di cose, questa avidità di possesso senza freno né misura è esemplificata dal rapporto fra essere umano e natura, fra essere umano e opere d'arte. L'alpinismo, pratica tipicamente moderna, nasce dalla volontà di conquistare le montagne per piantarvi una bandierina sulla cima, simbolo di quella prometeica scalata al cielo il cui scopo è la desacralizzazione dei luoghi sacri per eccellenza (le montagne, come dimore degli dèi o come divinità esse stesse, specie nelle culture orientali) e, specularmente, nella autodivinizzazione dell'uomo. Si tratta della versione moderna della Torrre di Babele, quale volontà di potenza proiettata verticalmente verso un cielo ormai vuoto di Dio; che sia proprio un caso che l'annunciatore della "morte di Dio" abbia concepito l'idea dell' eterno ritorno presso un lago di montagna, il lago di Silvaplana, circondato dalle vette imponenti delle Alpi dell'Engadina?
Per millenni, l'essere umano ha percepito le montagne come il segno visibile del limite posto alla sua condizione mortale, un segno da non oltrepassare e a cui avvicnarsi con estrema umiltà e reverenza; come un regno che non gli apparteneva; di più: come uno dei canali privilegiati di comunicazione fra la dimensione trascendente la dimensione umana. Su un'alta montagna trovò la salvezza l'arca del padre Noè, dopo il diluvio; su una montagna Mosé vide Dio faccia a faccia; su una montagna avvennero le tentazioni, la trasfigurazione e, infine, l'ascensione di Gesù Cristo. L'Olimpo, il Sinai, il Fuijama, il Chomolungma (vero nome dell'Everest) sono tutte montagne sacre, venerate e circondate da un'aura di mistero. Ma per l'uomo nell'era della tecnica, la montagna non è che una risorsa da sfruttare o un simbolo da sottomettere; magari - psicanalisti, sbizzarritevi - un simbolo fallico, un grande lingam su cui proiettare idealmente la sua forza virile (magari con qualche imbarazzante sottinteso inconsciamente omosessuale, se è invece vero che penetrare in una foresta vergine come gli esploratori ottocenteschi, o penetrare in un'umida caverna come facevano e fanno gli speleologi, esprimerebbe una pulsione di natura eterosessuale).
Anche le opere d'arte, nella situazione attuale, non solo semplicemente una merce come un'altra (per quanto più preziosa di altre), ma un simbolo di potere da possedere ad ogni costo: legalmente, se possibile, attraverso le aste; illegalmente, attraverso la florida industria dei furti commissionati dai mercanti d'arte, se necessario. Quei miliardari newyorkesi che accumulano dipinti originali del Rinascimento nelle loro gallerie private, per godere loro soli, in segreto, della felicità di possedere con lo sguardo delle opere che potrebbero fare la gioia spirituale di un pubblico innumerevole, presente e futuro, sono l'espressione di quella economicizzazione esasperata della società attuale, di cui parla anche Umberto Galimberti.
La brama paranoica di possesso e di dominio raggiunge il culmine nei confronti della malattia e della morte. "L'ultimo nemico a essere distrutto, sarà la morte" dice san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi,15, 26; e questo sembra essere il manifesto programmatico della cultura tecno-scientifica oggi dominante. La morte, per essa, è uno scandalo e un affronto; l'essere umano rifiuta la sua natura mortale e, pur di prolungare di qualche anno la durata della sua vita (ma senza preoccuparsi della sua qualità) è disposto a imprigionare, seviziare e torturare in ogni modo innmerevoli animali usati come cavie (macchine parlanti come voleva Cartesio?). In particolare, l'abbattimento - nei Paesi del Nord della Terra, beninteso - della mortalità infantile, ha prodotto il curioso risultato che le grandi aspettative di durata quantitativa si coniugano con la percezione della morte come di una ladra e un'assassina (sempre più spesso i media definiscono assassini gli squali, le tigri, i tifoni, le valanghe, i vulcani, le stesse malattie), un'intrusa irragionevole che sconvolge i nostri piani così ben programmati.
Osserva giustamente Mirko Grzimek che, fino a qualche anno fa (quando ancora sopravviveva la civiltà contadina) la morte di un ventenne, di un trentenne, o la morte di parto di una mamma non facevano scandalo; oggi sì. Non sembra giusto sottomettersi al destino di morte, anche se naturale. Del resto, se l'idea di Dio reca implicitamente l'idea di sopravvivenza dell'anima, il dio laico chiamato Scienza, in un mondo ridotto a puro meccanismo materiale, non può non farsi carico di garantire (a gran richiesta di pubblico), presto o tardi, la sopravvivenza fisica del corpo, la sconfitta materiale della morte. Risultato che certe pratiche del taoismo magico pensavano di poter raggiungere attraverso una lunga e dura serie di esercizi e di discipline psico-fisiche, culminanti nella costruzione di un nuovo e incorruttibile corpo di giada, ma che la tecnoscienza si prefigge di ottenere coi soli mezzi del Logos calcolante, in un supremo orgasmo di autoaffermazione, per poter poi cantare, ebbra di trionfo:
La morte è distrutta! La vittoria è completa!
O morte, dov'è la tua vittoria?
O morte, dov'è il tuo pungiglione? (1 Cor., 15, 54-55).