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Anna Politkovskaia

di Stenio Solinas - 19/10/2006

Il mondo si accorse di lei, giornalista coraggiosa, nell’ottobre del 2002, quando i terroristi ceceni asserragliati nel teatro Dubrowka la indicarono come intermediario per le trattative

Anna Politkovskaia,
assassinata
la scorsa
settimana a
Mosca sulle
scale di casa
da un killer
politico che resterà naturalmente
sconosciuto, era quella minuta
giornalista russa di cui il mondo
televisivo si accorse nell’ottobre
del 2002 quando i terroristi ceceni,
asserragliati nel teatro della via
Dubroskaia, la indicarono come
intermediario per le trattative. Da
anni la Politkovskaia si occupava
con tenacia della Seconda guerra
cecena e le sue corrispondenze erano
fra le poche in Russia che non
trattassero i ceceni come un puro e
semplice popolo di assassini. La
vicenda allora si concluse, come è
noto, in una sorta di ecatombe: l’intero
commando, 41 fra uomini e
donne, fu sterminato dai gas asfissianti
che i servizi di sicurezza di
Mosca immisero nel teatro prima
dell’assalto finale, ma ben 129
ostaggi per quello stesso gas ci
rimisero la vita, aprendo in patria,
ma ancor di più in Occidente, una
fortissima polemica sulle modalità
dell’intervento e, in fondo, sul disprezzo
mostrato dalle autorità verso
la vita umana di semplici cittadini
in un’operazione di repressione
spietatamente eterodossa quanto
infelice.
Della Politkovskaia l’editore Guerini
pubblicò qualche anno fa Cecenia.
Il disonore russo (192 pagine,
15 euri), un libro che se anche fosse
vero soltanto per la decima parte
degli orrori che descrive sarebbe
sufficiente ad additare il governo
Putin al pubblico abominio e a considerare
la tragedia cecena come
l’ultimo genocidio, in ordine di
tempo, che si svolge sotto gli occhi
la distratta complicità delle cancellerie
europee e d’oltre oceano.
Costruito come una specie di
viaggio all’inferno e ritorno» il
saggio elencava casi con nomi e
cognomi di vittime e di carnefici,
descriveva un’occupazione militare
che ha fatto terra bruciata di ogni
diritto costituzionale, raccontava
psicologie deformate dall’uso della
violenza e dal richiamo della vendetta,
parlava di un Paese annichilito
fin dentro la sua stessa quotidianità:
niente più fabbriche, niente
più lavoro, niente più acqua, niente
più strade, un ritorno allo stato barbarico
all’inizio del XXI secolo.
Come e perché tutto ciò abbia avuto
inizio e si sia poi perpetuato
negli anni con una tenacia che, considerata
la dimensione della Cecenia,
non più grande di una regione
italiana come l’Abruzzo, e il numero
dei suoi abitanti, un milione
all’incirca, risulta mirabilmente
sinistra, è una di quelle domande
che ha in sé molteplici risposte. Ed
per essersele poste e per aver cercato
di dar loro una spiegazione
che la Politkovskaia è alla fine
divenuta un pericolo intellettuale
da eliminare fisicamente. Esse permettono
infatti di delineare il panorama
geopolitico e ideologico nel
quale la Cecenia, ma non solo essa,
trova immersa.
La prima risposta da lei data riguardava
la Russia e la sua classe politica.
Nel decennio che ha seguito il dissolversi
del cosiddetto «impero del
male» l’Occidente, era il suo assunto,
ha fortemente voluto vedere quello
che in Russia non c’era, ovvero un
modello istituzionale simile al suo,
una democrazia dei partiti, un’economia
di mercato. Per crederci aveva
dovuto però chiudere gli occhi su
alcune realtà altrimenti evidenti: l’eccessivo
peso degli apparati militari e
polizieschi, la scarsa consistenza
della società civile,
il forte intreccio fra
capitalismo e criminalità
organizzata.
L’ansia di avere
per alleato quello
che fino al giorno
prima era
considerato il
«nemico principale
»
mise
insomma la sordina a tutta una serie
di rilievi, critiche e pressioni che in
altri casi, e per altre nazioni, sarebbero
stati invece fatti valere.
La Cecenia rientrava in questa operazione
cecità. Dopo una prima guerra
di invasione fallita, ai tempi di Eltsin,
una volta sentitasi più forte e in grado
di vincerne la resistenza ostinata,
questa regione – diceva la giornalista
– è stata considerata dai russi un fatto
interno, una sorta di attentato
all’integrità nazionale da reprimere a
qualsiasi costo. Nessuna copertura
giornalistica è stata più possibile,
nessuna difesa dei diritti umani ritenuta
degna di considerazione, nessuna
organizzazione internazionale
accettata come garante di una normalizzazione.
Le porte della Cecenia
sono state chiuse a doppia mandata e
Mosca si è messa le chiavi in tasca.
Si inseriva qui la seconda risposta
che era quella che vedeva il terrorismo
internazionale come ulteriore
giustificazione e spiegazione. A
Mosca faceva comodo far credere
che la resistenza cecena non facesse
parte dell’imprinting nazionalistico di
quel popolo, annesso sanguinosamente
ai tempi dello zar, trattato
come carne da cannone ai tempi del
comunismo. La spiegazione era che
si trattasse di un enclave musulmano,
di una quinta colonna islamica nel
cuore dell’ Europa.
Si è verificato così un fatto paradossale.
La cosiddetta guerra al terrorismo
internazionale ha in realtà internazionalizzato
il terrorismo in dimensioni
fino a ieri impensabili. I guerriglieri
islamici ceceni sono insomma
l’effetto e non la causa del tentativo
repressivo russo.
C’è di più: l’ossessione per la sicurezza
e la paura che quest’ultima possa
venire infranta hanno abbassato
clamorosamente il livello di guardia
delle libertà individuali, favorito il
loro baratto nei confronti delle istituzioni
chiamate a difenderle, in
sostanza hanno tolto alle democrazie
proprio l’elemento che le caratterizzava
e le rendeva un esempio da imitare
quanto a qualità della vita: il
rispetto della privacy, la libertà di
stampa e di associazione, la difesa
delle minoranze. .
Nel libro della Politkovskaia tutto
questo veniva splendidamente illustrato
nel corpore vili di una società
quale quella russa, dove la democrazia
è ancora in fieri e quindi più facilmente
calpestabile. I richiami patriottici
e sciovinistici, la censura, le pressioni
finanziarie, l’orgoglio cieco e
superbo della struttura militare fanno
tutt’uno con la difficoltà del cittadino
comune a farvi fronte, con la sua
paura di essere considerato oggi un
critico, domani un dissidente, dopodomani
un nemico...
La Russia di Putin (Adelphi, 293
pagine, 128 euro) è il vibrante
pamphlet che Anna Politkovskaia
scrisse successivamente per cercare
di spiegare a un lettore occidentale
cosa fosse oggi questo Paese, le sue
potenzialità, ma, soprattutto, i suoi
punti deboli. È un libro dichiaratamente
partigiano e il sentimento anti-
Putin che lo attraversa è un sentimento
comprensibile se si tiene conto
che in Europa e negli Stati Uniti l’accettazione
senza riserve con cui è stato
accolto e continua a essere sostenuto
Putin è un po’ surreale e svela
chiaramente come l’Occidente si
preoccupi più di avere al Cremlino
un referente sicuro e con il quale fare
affari che non un referente democratico
o, addirittura, liberale.
Già il fatto che alla presidenza di una
nazione così importante ci sia un ex
colonnello dei servizi segreti è un
qualcosa che, se si fosse verificato in
Paesi di comprovata esperienza liberaldemocratica
avrebbe fatto scorrere
sulla stampa fiumi indignati di
inchiostro. Perché poi, naturalmente,
non si tratta del caso singolo, dell’uomo
Putin in quanto tale. Scrive la
Politkovskaia: «Secondo fonti indipendenti
(non ne esistono altre) sono
ormai più di seimila gli ex uomini del
Kgb/Fbs con incarichi di potere ai
piani alti dello Stato, ivi compresi i
posti chiave nei ministeri: nell’ufficio
del presidente (due vicedirettori, il
capo del personale e dell’ufficio
stampa), nel Consiglio di sicurezza
(il vicecapo), nell’apparato del
governo, nei ministeri della Difesa,
degli Esteri, della Giustizia, dell’Industria
atomica, al Tesoro, agli Interni,
alla Stampa, in televisione e in
radio, alla Dogane, all’agenzia russa
per le riserve di Stato, al Comitato di
risanamento finanziario e via discorrendo.
Nel passaggio dall’Urss alla
nuova Russia ci siamo trascinati dietro
tutti i nostri pidocchi sovietici: il
Kgb continua a essere dovunque».
Si spiega anche così quel misto di
segretezza, disinformazione, silenzio
che circonda non solo fatti eclatanti
come il conflitto ceceno e gli atti terroristici
della Dubrovka o di Beslan,
ma anche avvenimenti, diciamo così,
minori: processi e condanne di
imprenditori non in linea con la politica
del governo, licenziamenti o
allontanamenti di magistrati ritenuti
non addomesticabili, lo sfascio di
enti pubblici che dovrebbero garantire
l’elettricità e il riscaldamento, la
crisi delle stesse istituzioni militari in
una nazione che della propria potenza
bellica è sempre stata orgogliosa.
È il problema della transizione, dirà
qualcuno. Settant’anni di regime, e di
un regime del genere, non passano
invano: permeano non solo le strutture
di uno Stato, ma il modus vivendi,
l’anima di chi lo abita, lavorano in
profondità per più di una generazione.
La Politkovskaia ne era consapevole:
«Cosa siamo divenuti tutti
quanti? Noi ex cittadini dell’Urss?
Noi che avevamo tutti, più o meno,
un lavoro fisso e uno stipendio regolare,
a scadenze definite, noi con la
nostra fiducia sterminata e inflessibile
nel presente e nel futuro? Noi che
credevamo che i medici dovessero
per forza curare e gli insegnanti insegnare?
E senza che si sborsasse un
soldo? Che vita è cominciata per noi,
quando tutto questo è scomparso? E
ancora: quale destino incombe su di
noi? Come ci siamo ridistribuiti nello
spazio postsovietico dopo un triplo
salto mortale? Triplo, sì. Il primo è
stato quello della metamorfosi del
singolo e della società con la caduta
dell’Urss e con l’era Eltsin, quando
di colpo non avevamo più nulla, dall’ideologia
al salame più scadente,
dai soldi alla convinzione che al
Cremlino ci fosse un “Grande
Padre” che poteva anche essere un
despota cattivo, ma che comunque si
curava di noi. Il secondo è stato
quello della crisi del 1998... Da un
giorno all’altro ci ritrovammo con un
pugno di mosche a ricominciare tutto
da capo. Il terzo salto mortale, infine,
è stato quello di, e con Putin, un ibrido
bizzarro fra leggi di mercato, dogma
ideologico e molto altro ancora.
Gli ingredienti sono forti capitali,
un’ideologia di taglio marcatamente
sovietico posta al loro servizio e un
numero crescente di poveri».
È intorno a quest'ultimo salto mortale
che il pamphlet della Politkovskaia
prendeva corpo, nell’analisi di una
nuova nomenklatura di governo e di
partito che lavora al proprio arricchimento
e favorisce una corruzione che
stritola le piccole e medie imprese e
la classe media che le impersona, e
sostiene i grandi gruppi e i monopoli
paragovernativi grazie ai quali la torta
delle tangenti, delle protezioni e
delle entrate garantisce la più ampia
delle distribuzioni. Sullo sfondo, una
forte nostalgia per i miti e i fantasmi
dell’antica grandezza e quindi un’ideologia
del capitalismo putiniano
che rimanda al tempo della stagnazione
brezneviana.
Che raccontasse squarci di vita quotidiana,
dal crack economico alla nuova
mafia di Stato, dai «cadaveri
dimenticati» in Cecenia alle degenerazioni
in atto nell’ex Armata Rossa,
dallo sfascio del sistema giudiziario
asservito al sistema politico, al sorgere
di un capitalismo rampante e assolutamente
spregiudicato, la Russia di
Putin era il resoconto emblematico di
un Paese che continua a oscillare fra
vecchio e nuovo, in cerca di un punto
dove posizionarsi, roso dalla umiliazione,
voglioso di una rivincita,
impossibilitato a tornare al passato
eppure nostalgico di ciò che il passato
significava.
L’averlo capito – e denunciato – purtroppo
le è costato la vita.