“Il Primo Re”. Il film di cui il cinema italiano aveva bisogno
di Carlomanno Adinolfi - 02/02/2019
Fonte: Il Primato Nazionale
Ieri è stato il gran giorno. Dopo più di un anno dall’annuncio, con una post-produzione durata 14 mesi, caso quasi unico in Italia, dopo un trailer molto contenuto e poco rivelatore uscito a solo un mese dall’uscita, ecco arrivato nelle sale l’attesissimo Il Primo Re, la versione cinematografica della storia di Romolo e Remo targata Matteo Rovere.
L’attesa è stato un mix di aspettative frementi e di terribili paure, con la voglia di vedere su schermo una storia epica sulla fondazione di Roma che si scontrava con la quasi certezza di veder violentato il mito più importante della civiltà umana. Alla fine, visto il film, è però difficile capire se abbia prevalso la prima o la seconda componente. In effetti è un film talmente particolare su una storia talmente particolare che è difficilissimo dare un giudizio sereno ed equo. L’unico modo, forse, è scindere le diverse componenti e dare diversi livelli di giudizio: quello da spettatore, quello da cinefilo, quello da critico storico e quello, inevitabile almeno su queste pagine, del “purista” della romanità intesa nel suo significato più sacro e profondo.
Un continuo crescendo
Lo spettatore difficilmente rimarrà deluso. Il film è un continuo crescendo, tiene incollati alla poltrona nonostante la sua singolarità, fatta anche di pochi dialoghi – e in latino arcaico – e molti silenzi che avrebbero potuto appesantire il film. Rovere aveva detto che tra le fonti di ispirazione vi era il Valhalla Rising di Refn, che è davvero per pochi cultori del genere perché molto difficile da seguire per il pubblico generalista che infatti era abbastanza preoccupato dal paragone. Ebbene il regista romano è riuscito nella difficilissima impresa di riportare lo spirito della pellicola refniana in un film che appassiona, aiutato anche dall’ottima colonna sonora di Andrea Farri.
Tutto questo porta anche al giudizio positivo da cinefilo. Un film di questo genere è un unicum in Italia, un budget molto alto per lo standard italiano – il film è costato 9 milioni – finalmente usato in maniera seria, tanto che molti critici per parlarne bene hanno usato l’espressione “non sembra neanche italiano”. Le scene di combattimento, con una violenza e una crudezza impressionanti, ricordano quelle delle più acclamate serie tv statunitensi. La famosa scena dell’esondazione del Tevere di cui si è tanto parlato per la sua difficile realizzazione, è resa in modo fantastico anche se forse un po’ esagerata. L’impressione di trovarsi finalmente davanti a un film a tratti epico e che possa competere con pellicole straniere realizzate con un budget minimo dieci volte superiore e che non abbia nulla a che fare con la mediocrità pallosa e finto-impegnata del cinema nostrano è grande, e a dir poco soddisfacente.
La componente storica
Il film però ha delle pecche anche gravi. Storicamente ci sono molte libertà, come è ovvio che sia. La professoressa Donatella Gentili che insegna etruscologia e antichità dei popoli italici aveva definito il film “un’utilissima fonte per gli accademici” con “importanti finalità didattiche”. Ovviamente era solo una “marchetta” per il film, almeno speriamo, perché di attinenza storica ce n’è pochina. Al di là dell’aspetto linguistico su cui rimandiamo a esperti del settore, anche se per ora sembrano essere tutti concordemente entusiasti, Rovere utilizza un eccesso di arcaismo: il suo voler proiettare lo spettatore in un’epoca remota e arcaica fa sembrare il film ambientato più nell’età del bronzo che nell’ottavo secolo a.C. con scontri tribali tra clave e mazze di pietra unite a lance, spade, coltelli e archi rudimentali. Ma è un problema minore perché lo stesso regista aveva ammesso di aver voluto puntare sull’effetto di remota arcaicità anche a discapito della coerenza storica dei costumi. Ma quella che appare una scelta inspiegabile è la totale assenza dei popoli storici che furono protagonisti della Fondazione. C’è Alba, che nel film rappresenta la più grande potenza della zona, e ci sono i “Velienses” che si presume essere gli abitanti della Velia, una delle alture che costituirono il septimonzium originario. Niente sabini e soprattutto niente etruschi, la cui presenza avrebbe forse potuto minare la versione barbarico-primordiale del film ma almeno avrebbe potuto permettere di inserire degli elementi sacro-religiosi che, purtroppo, nell’eccesso di realismo del film mancano del tutto.
La parte “spirituale” del film
E qui arriviamo all’inevitabile giudizio sulla parte spirituale.
Chiariamoci: se vi aspettate un film scritto da Evola o da Ignis-Musmeci Ferrari Bravo e non transigete minimamente su questo aspetto, evitate di andare a vedere il film. Ma partendo da posizioni più realiste si arriva comunque alla conclusione che Rovere ha delle lacune gravissime che avrebbero potuto essere colmate davvero con poco, anche solo con una semplice lettura di un libro dumeziliano di facile lettura e reperibilità come La Religione Romana Arcaica. Le divinità romane non esistono.
Niente Giove, niente Marte o Venere, soprattutto niente Vesta nonostante il termine vestale sia usato costantemente e nonostante, soprattutto, il Fuoco Sacro abbia una centralità cardinale nel film. Purtroppo si parla solo in termini troppo generici di “il Dio” e “la Dea”, in una semplificazione che troppo ricorda alcuni blog new-age e neo-paganeggianti della rete. Cosa che risulta abbastanza evidente nell’invocazione iniziale alla “Triplice Dea” (sic) affinché sia lei a far nascere il Sole (sic), roba insomma da matriarcato wicca. “Il Dio” poi è il fuoco stesso: non è il fuoco ad essere la presenza visibile e fisica della divinità ma è proprio il fuoco materiale ad essere dio, in un eccesso di primitivismo quasi animista e africano. Cosa che si nota anche nell’eccessivo senso di superstizione e timore verso il sacro mostrato dai personaggi del film, quasi da uomini appena usciti dalle caverne che non da Latini o Italici dell’ottavo secolo.
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La Vestale di Alba ha poi un ruolo troppo da strega che un po’ rovina il personaggio. Soprattutto nella scena dell’aruspicina in cui è la Vestale (sic) a leggere il futuro da un fegato d’agnello trasformandosi in una specie di Sibilla Cooman di Harry Potter che in estasi fornisce la profezia riguardante i due fratelli e un re. O nelle scene in cui davvero sembra una strega che lancia maledizioni con gesti davanti al fuoco.
L’impressione è che Rovere abbia del tutto snobbato questo aspetto, cosa gravissima per un film sulle origini di Roma. La mancanza degli Etruschi, come dicevamo, ha anche avuto l’effetto di eliminare del tutto non tanto la scena dell’ispezione del volo degli uccelli quanto il rito stesso di fondazione della città. Che poi sarebbe bastata anche la sola presenza di un aratro e di un solco anche per richiamare il tutto, senza aver per forza bisogno di evocare Rumon o chissà cosa. Un altro aspetto che fa decisamente storcere il naso è l’eccessivo “spartachismo” dei futuri Romani.
Si punta troppo sul loro essere schiavi liberati, reietti, scarti di altre città in cerca di riscatto. Eppure…
In conclusione
Eppure nonostante queste gravissime pecche, se ci si estrae un attimo dal purismo oltranzista, il film ha molti elementi validissimi anche dal punto di vista spirituale. La scena della ri-accensione del Fuoco è a dir poco evocativa, così come la captio della futura Vestale. L’importanza del Fuoco Sacro, al di là dell’aspetto fin troppo material-animistico del culto, porta ad almeno due battute da parte di Romolo che lasciano a bocca aperta per il profondo significato che recano.
La stessa caratterizzazione dei due gemelli, cosa che preoccupava non poco visto che si parlava di “punto di vista di Remo” e che quindi faceva temere un Remo buono e Romolo cattivo o addirittura a un “Dio cattivo” con Romolo suo fanatico seguace, è invece molto buona. L’ascesa e caduta di Remo così come la parallela discesa e ascesa di Romolo ha degli elementi molto “tradizionali” – dalla hybris che cresce in modo maniacale e demonico nell’inizialmente pio Remo alla complementare presa di coscienza da parte di Romolo dopo che è quasi sceso agli inferi – anche se probabilmente non sono stati inseriti in maniera consapevole da Rovere.
Anche il concetto di pietas seppur mai definito nel film con questo nome, risulta evidente in tutto il film, così come la impietas che porta alla naturale caduta di un capo. Forse Romolo è addirittura reso troppo pius, quasi a sembrare più un Numa Pompilio che un Romolo, ma nel contrasto tra i due fratelli alla fine è una caratterizzazione filmicamente efficace.
Degna di nota poi tutta la sequenza finale, dal “compimento della profezia” fino alle ultime parole di Romolo che decreta la nascita di Roma, sequenze che indubbiamente fanno vibrare. E poi la sequenza post-credits con la mappa che mostra l’espansione di Roma ha il suo perché.
Insomma, se non ci si pone in maniera togata o troppo fanatica, cosa che inevitabilmente porterebbe al gridare al sacrilegium, il film nel suo mix di cose positivissime, gravi mancanze e spunti degni di nota può essere considerato più che buono.
Parafrasando Christopher Nolan, non il capolavoro che speravamo ma sicuramente un film di cui avevamo bisogno. Sperando che, nei suoi limiti ma anche nelle sue grandezze, “Il Primo Re” possa essere simbolicamente una prima pietra di fondazione che innalzi il cinema italiano facendoci uscire dalla palude della melensa, mediocre e noiosissima cricca dei Virzì, Ozpetek, Muccino, Rubini e compagnia cantante, portandoci a un futuro che con i Rovere, i Mainetti e forse i Sollima avrà da dire il suo anche davanti alle grosse produzioni hollywoodiane ed Hbo.