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“Infamous” Truman Capote

di Stenio Solinas - 26/10/2006

 

“Credevano fossi un giullare…”

La foto che Henri
Cartier Bresson fece
a un Truman Capote
poco più che ventenne
e appena divenuto
famoso con Altre
voci, altre stanze è
quella di un ragazzo bello di una
bellezza inquietante, un corpo
minuto e asciutto, i capelli biondi e
un po’ lunghi, uno sguardo appannato
più che torbido, diretto eppure
sfuggente. Semisdraiato su una panca
da giardino, circondato da piante
in un’afosa giornata del sud degli
Stati Uniti, dà l’idea di quei fiori
d’estate splendidi e delicati che il
caldo farà appassire dopo aver regalato
loro un effimero trionfo. Nel
giro di pochi anni anche il corpo di
Capote si disfece, la languida bellezza
si fece putrida, un che di marcio
lo avvolse, lo inebriò e lo perse.
Infamous, il film di Douglas Mc
Grath presentato nella sezione
Orizzonti all’ultima Mostra del
Cinema di Venezia, racconta proprio
la china fatale dell’esaltazione
prima, della dannazione poi, il passaggio
dal Famous
cui nessuno sa dire
di no, perché è spiritoso,
intelligentissimo,
mordace, ma
capace di ascoltare e
di consolare, all’Infamous
da bandire
dalla società e dalla
mondanità perché
inaffidabile, crudele
e vendicativo, spregiatore
di chi l’ha
coccolato e ammirato.
A un quarto di secolo
dalla morte, la
morte triste e solitaria
di chi era divenuto
un ricettacolo di
alcool e di pillole,
insonnie e depressioni,
manie di persecuzione
e angosce da
pagina bianca, il prepotente
ritorno alla
ribalta del personaggio Capote,
due film sulla sua vita in un
anno, questo e il precedente,
Capote, appunto, con cui Philip
Seymour Hoffman ha vinto
l’Oscar per la migliore interpretazione
maschile, biografie,
saggi critici, epistolari e inediti,
è un segno dei tempi. La
società degli anni Cinquanta-
Sessanta che lo vide protagonista
fu l’ultima in cui glamour
e genio, arte e ricchezza,
pettegolezzo e intrattenimento,
eccessi e rigori avessero
ancora la logica e l’illusione
degli happy few, dei pochi
felici, prima che la volgarità di
massa e la ricchezza di massa
sommergessero tutto e tutto
appiattissero, prima che la
ideologizzazione della politica
rendesse tutto irrespirabile.
Fra il party con cui alla fine di
quegli anni Capote festeggerà
il successo di A sangue freddo, il
libro che lo consacrerà e, però, lo
dannerà, e quello che all’inizio dei
Settanta vede Leonard Bernstein
intrattenere in salotto, fra camerieri
in guanti bianchi, caviale e champagne,
“pantere nere”, militanti dei
diritti civili, leader della contestazione
studentesca, si racchiude la
fine di un mondo, di un’epoca, di
un modo d’essere.
Interpretato in maniera mirabile non
solo da Toby Jones nella parte dello
scrittore, ma da un convincente
Daniele Craig (il prossimo James
Bond in Casinò Royal) nel ruolo del
pluriomicida Perry Smith e da una
sobria Sandra Bullock in quello di
Nelle Harper Lee, l’autrice del Buio
oltre la siepe, amica d’infanzia di
Truman, Infamous racconta la
discesa agli inferi di uno scrittore
mondano che dai quartieri alti di
New York si trasferisce in Alabama
per raccontare il massacro di una
famiglia di agricoltori e la psicologia
dei loro massacratori. Ne uscirà
un libro unico e devastante, emblema
di quello che sarà poi chiamato
new journalism, ma alla fine a salire
sul patibolo non saranno solo i due
assassini: in Perry Smith, infatti,
Capote rivedrà se stesso, bambino
prima e poi ragazzo infelice, una
madre suicida, un padre detestato e
tirannico, un’infanzia e una giovinezza
da artista solitario e incompreso,
il desiderio di essere, a tutti i
costi, famoso. «Per tutta la vita ho
desiderato creare un’opera d’arte»
gli dirà Perry in carcere: «Cantavo,
nessuno ascoltava. Dipingevo, nessuno
guardava. Ora ho ucciso quattro
persone... E il risultato? Un’opera
d’arte»…
La morte del suo alter ego cui la
vita non ha concesso la chance che
lui invece ha avuto, una morte
temuta eppure desiderata, perché
senza di essa il libro non può essere
pubblicato, segnerà il suo trionfo e
la sua tomba di scrittore. Il bel mondo
gli apparirà come una caricatura
feroce dell’esistenza, l’idea di raccontarlo
in modo impietoso gli varrà
il bando da quella società per
anni agognata, per anni dominata.
Ma, e forse soprattutto, da quell’esperienza
Capote uscirà come prosciugato,
incapace di creare di nuovo.
«Scrivere è sempre stata per me
una forma di ossessione. Era come
se fossi un’ostrica e qualcuno facesse
entrare a forza un granello di
sabbia nella mia conchiglia. Poi
intorno al granello iniziava a formarsi
una perla e questo mi irritava,
mi rendeva furioso, talvolta mi torturava.
Ma l’ostrica
non può fare a
meno di essere
ossessionata dalla
perla». Da allora, ci
fu solo sabbia nella
conchiglia.
Come capita a molti
scrittori di talento,
l’ansia di perfezione,
la paura del fallimento,
la consapevolezza,
nel suo
caso, che dopo A
sangue freddo
indietro non si poteva
più tornare, ma
avanti non si sapeva
dove andare, misero
Capote in un cul de
sac. Sognava una
specie di Alla ricerca
del tempo perduto
made in USA,
ma anche un libro e
uno stile che incarnassero
tutti i libri e tutti gli
stili: romanzo e saggio, racconto
e diario, critica e teatro. Il
titanismo di un’impresa simile
era il pretesto perfetto per parlarne
sempre e non portarla
mai a termine. Il tentativo di
applicare lo stesso metodo
appassionato eppure distaccato
utilizzato per i due assassini
alle vicende dell’alta società
newyorkese gli valsero l’ostracismo
e il rigetto, allorché
qualche anticipazione cominciò
a uscire. «Credevano fossi
un giullare, e invece sono uno
scrittore», si difenderà. Il
mondo dell’infanzia era ormai
troppo lontano e troppo arato
nei suoi due primi romanzi,
quello del crimine lo aveva
assorbito per troppi anni; la
buona società, a lungo fonte di
storie e situazioni, si rivelò di
colpo in secca nel momento in
cui da simpatico descrittore Capote
si trasformò in giudice spietato.
Ricostruito alla perfezione nei dettagli
d’epoca, quadri, mobili, vestiti,
nei tic e nelle manie, Infamous
riporta sulla scena lo stile indimenticabile
di Capote, la camminata
ancheggiante e però regale, il miagolio
di una voce che graffiava,
l’eccentricità degli abiti e degli
atteggiamenti. Inglese, Toby Jones
indossa con naturalezza gli abiti e il
tono di uno che sognava di essere
un gentiluomo del sud e aveva un
debole per le teste coronate. L’humour
britannico fa il resto. «Cosa
ha provato nel girare la scena d’amore
fra lei e Daniele Craig?», gli è
stato chiesto. «Per un eterosessuale
non è male essere il primo uomo
che abbia baciato James Bond», è
stata la risposta. Eterosessualità a
parte, Capote l’avrebbe fatta sua.