Il neoliberismo è il nostro vero nemico
di Enrico Gatto - 02/03/2019
Fonte: oltre la linea
«Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com’erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi»: così si esprimeva George Orwell, allievo niente di meno che di Aldous Huxley, nel romanzo distopico “1984”.
Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo e finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio-politiche ed economiche: infatti, esso costituisce il filo rosso e la scaturigine fondamentali di quello che viene definito Pensiero Unico (nel quale si sostiene, tra le altre cose, il primato dell’economia sulla politica).
In parole povere, si tratta della dottrina economica (cui corrisponde, ovviamente, un’inscindibile ideologia politica) all’origine di tutti i nostri problemi – come ampiamente argomenta l’economista Ilaria Bifarini -: semplificando, altro non è che il coronamento di un progetto di restaurazione del potere di classe da parte dell’élite dominante (un proponimento risalente, peraltro, già agli anni Venti del Novecento, ma iniziato ad attuarsi a partire dagli anni Settanta e dalla stagflazione).
Si tratta, quindi, della reazione delle élite che tanto avevano perduto, in termini di potere e di ricchezza, nell’età contemporanea, soprattutto nei “trenta gloriosi” successivi al secondo dopoguerra: in quel periodo, costituzioni di ispirazione socialista (tra le altre), associate a politiche economiche keynesiane, avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie.
Una condizione inaccettabile, dal punto di vista elitario di queste classi di ricchi, poiché troppo orizzontale. Sia bastevole pensare ad un famoso studio, dal nome “The crisis of democracy”, del 1975, affidato dalla Commissione Trilaterale (società di categoria dell’alta finanza) ad Huntington, Crozier e Watanuki: in esso, si parlava della necessità di apatia delle masse, di spoliticizzazione delle stesse e di un indebolimento del sindacato, a causa di un pericoloso “eccesso di democrazia”, da risolvere anche attraverso l’introduzione di tecnocrazie.
Quindi, partendo dalle teorie di Von Hayek e con gli studi della Scuola di Chicago di Friedman, andò imponendosi in campo accademico questo nuovo pensiero (grazie anche alla influente Mount Pelerin Society, fondata già nel 1947 da Hayek con l’intento di aggregare varie personalità del mondo intellettuale al fine di ridiscutere il liberalismo classico, quello della “mano invisibile” di Adam Smith), che contestava il compromesso keynesiano del liberismo espansivo con intervento statale(l'”embedded liberalism” della piena occupazione e della redistribuzione della ricchezza).
Furono elaborate nuove ricette economiche, che contemplavano “deregulation”, continui tagli alla spesa sociale, privatizzazioni degli utili con socializzazione delle perdite, finanziarizzazione dell’economia, monetarismo, austerità, deificazione del Mercato, con l’obiettivo della definitiva sottomissione dello Stato e della Politica agli interessi economici dei potentati privati.
Il tutto andò in porto grazie alla diffusione a reti unificate del nuovo credo, tramite le “categorie previane” del circo mediatico, del clero giornalistico-accademico e del ceto intellettuale (che, per usare la sintassi di Bourdieu, è da sempre il gruppo dominato della classe dominante). Si iniziò dal “test pilota” dopo il golpe di Pinochet in Cile del 1973 e, poi, nei primi Ottanta, dai governi occidentali di Thatcher, Reagan, Mitterrand e Kohl, fino ad arrivare al capolavoro degli arbitrari parametri di Maastricht (fulcro dell’ordoliberismo) e della moneta unica europea a cambio fisso con Banca Centrale indipendente (e, sostanzialmente, privata).
Fin da allora, la distribuzione di ricchezza avrà un’inversione di tendenza ed andrà concentrandosi sempre più nelle mani di quella che è di fatto un’oligarchia finanziaria, la quale non fa che portare avanti programmi a proprio esclusivo vantaggio ed a detrimento dei popoli (i dati sulla crescita della sperequazione lo dimostrano).
Ciò che si è cercato di riassumere in poche righe va contestualizzato nel panorama dell’epoca: fu l’avvio della lotta di classe dopo la lotta di classe (Gallino), ovverosia la ribellione delle élite (Lash); fu (ed è tuttora) l’operato di un gruppo, l’1% della popolazione, che faceva (e tutt’oggi fa) i propri interessi a spese di un altro, quello del 99% (come è purtroppo lecito, non di certo etico).
Il problema è stata la mancata risposta delle “classi subalterne” e dei loro rappresentanti (politici e sindacali), che non hanno saputo interpretare e comprendere i fatti: senza considerare che tendono a non vederli o capirli tuttora (alcuni scioccamente, altri in malafede, sia a sinistra che a destra, con l’esaurimento della loro storica dicotomia).
Bisogna liberarsi dei mantra che da tempo vengono introiettati: quelli del “There Is No Alternative” (Thatcher), dell’ineluttabile “Fine della Storia” (Fukuyama) e del “siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”. In realtà, tutto è frutto di scelte politiche ed economiche deliberate e pianificate, il sistema socio-economico nel quale viviamo non è un fatto naturale ed irriformabile e, in quanto tale, non è necessario subirlo: basterebbe, in un’ottica individuale e collettiva, pensare ed agire altrimenti(poiché, parafrasando Einstein, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato).
Tuttavia, purtroppo le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti (Marx). Per giungere ad un cambiamento è necessario arrivare ad una “massa critica” di persone consapevoli, che comprendano che è in atto una “guerra” (la mai estinta contrapposizione hegeliana servo-signore) e che si compattino riconoscendo il “nemico” comune da combattere: un sistema ideologico, il neoliberismo, profondamente competitivista, classista e de-umanizzante.
Dal sistema economico vigente scaturisce l’onnipervasivo e catechizzante Pensiero Unico, nel quale si innervano tutte le esiziali logiche sociali hobbesiane della competizione, dell'”homo homini lupus”, del “mors tua vita mea”, del “do ut des”, del narcisismo individualista, dell’egoismo, dell’edonismo, del materialismo, del consumismo e della spietatezza di cui è malata la nostra società nichilistica: peculiarità che ci rendono “schiavi perfetti”, poiché il velo di Maya (Schopenhauer) ci rende incapaci di vedere le nostre pastoie e, quindi, impossibilitati a liberarcene.
All’interno di quel coagulo di interessi economici e di valori culturali e morali (il blocco storico di gramsciana memoria), appare chiaro come il pensiero economico egemone abbia influito cambiando la società – che, come propugnava la Thatcher, davvero non esiste più -: esistono solo gli individui, non più una comunità di animali sociali (Aristotele) ma una massa di “homines oeconomici”, di imprenditori di sé, di monadi, la cosiddetta modernità liquida di Bauman (prodromici furono i movimenti sessantottini e, successivamente, grazie al neoliberismo ed alla sua sovrastruttura, il “politicamente corretto” [ed “etnicamente corrotto”, con le parole di Diego Fusaro], a causa dei quali l’attenzione è stata sempre più focalizzata su diritti individuali e civili a spese di quelli collettivi e sociali).
Perciò, occorre una rivoluzione culturale che può partire solo da chi ha una propria coscienza infelice (Hegel), rifuggendo dalla crematistica e ritornando all’equilibrio, ai concetti di misura e limite come ci insegnano gli antichi greci (oltre che tornare all’applicazione della Costituzione del 1948).
Rimane un unico ostacolo che Platone conosceva finanche oltre due millenni fa: l’eventuale “liberatore” verrà dapprima deriso e finanche ammazzato da quelli in “catene”. In questo senso, è davvero eloquente ed attuale il “mito della caverna”, in cui Platone descrive come una realtà mediata e manipolata venga invece percepita come “verità” dagli sventurati protagonisti che, nati in cattività, non possono immaginare un’esteriorità rispetto alla caverna stessa, nella quale sono imprigionati. Non sapendosi schiavi ingannati, non potranno ambire alla libertà: almeno, fino a che non avranno preso coscienza di sé e della propria condizione.