Il Cambiamento Climatico è realtà, non restiamo a guardare: la decrescita come alternativa percorribile
di Karl Krämer e Michel Cardito - 05/03/2019
Fonte: decrescita felice
Il Cambiamento Climatico oggi è già realtà, anche attuando le più drastiche strategie di riduzione delle emissioni non saremo probabilmente in grado di invertire completamente il processo.
Alcuni dei cambiamenti in atto sono già irreversibili e altri avranno conseguenze catastrofiche o imprevedibili. Il nostro ecosistema è sconvolto, le implicazioni globali a cui andremo incontro modificheranno completamente le società così come la conosciamo ed è a rischio la stessa possibilità di sopravvivenza della specie umana sulla Terra.
Per la tutela del clima, per la prima volta nella storia, stiamo assistendo ad una mobilitazione dal basso di livello globale. Dopo decenni nei quali “globalizzazione” ha spesso significato solo scambio di merci, assistiamo finalmente ad una globalizzazione dei popoli e delle idee, per una presa di posizione senza confini.
Siamo tutti un solo popolo, specialmente quando si parla di clima.
Per questo MDF ritiene fondamentale aderire alle iniziative dello SCIOPERO GLOBALE PER IL CLIMA del 15 Marzo e della MARCIA PER IL CLIMA, CONTRO LE GRANDI OPERE INUTILI del 23 Marzo e invita tutte e tutti a parteciparvi attivamente.
Le generazioni dei giovani di oggi, come quelle che verranno, dovranno avere lo stesso diritto al futuro di quelle che le hanno precedute. Per questo riteniamo sia importante tenere alta l’attenzione e far in modo che ogni individuo e isitituzione apra gli occhi sul tema di cambiamenti climatici.
Far sentire la propria voce non è però abbastanza, bisogna cominciare ad applicare un pensiero critico al sistema che ci ha condotto a questa crisi ecologica, sociale e culturale, e cominciare ad attuare da subito un cambiamento in grado di prospettare un’alternativa efficace e percorribile.
La proposta della Decrescita Felice è la strada alternativa a questo sistema economico insostenibile e autodistruttivo.
La Decrescita Felice come soluzione:
Il concetto di decrescita prende origine da molte fonti: è una risposta alle ingiustizie globali ecologiche ed economiche strutturalmente connesse a questo sistema; è una ricerca della felicità umana con mezzi diversi rispetto a quelli consumistici proposti dal sistema economicista; ed è una risposta al fatto che questo sistema, orientato alla crescita forsennata della produzione e dei consumi, mina le stesse basi ecologiche della vita umana, oltrepassando ogni limite di sostenibilità.
Assistiamo continuamente ad un dichiarato consenso sulla necessità e l’urgenza di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra anche nel mondo economico e delle istituzioni, ma finora è mancata un’analisi critica radicale delle cause del problema e la volontà politica di attuare per tempo misure efficaci e tempestive.
Perché riteniamo che la decrescita possa apportare una prospettiva fondamentalmente diversa ed efficace?
Per capirlo dobbiamo brevemente analizzare, con gli strumenti che ci da la nostra particolare prospettiva, quali sono le strategie politiche finora messe in campo messe in campo per affrontare il problema, per poi chiarire in cosa può dare soluzioni e come si differenzia un approccio decrescente al tema dei Cambiamenti Climatici.
Partiamo innanzitutto da un punto messo chiaramente in evidenza dall’IPCC nel suo ultimo rapporto : gli impegni presi dagli stati per ridurre le emissioni sono molto lontani dall’essere sufficienti.
Dal nostro punto di vista questo è facilmente spiegabile: è dovuto a un errore concettuale e di sistema profondo. Non è una semplice una questione di mancanza di impegno a cui si può far fronte facendo di più dello stesso, bisogna fare in modo diverso:
Le politiche internazionale messe in campo in tema di riduzione delle emissioni si basano infatti tutte sul concetto di sviluppo sostenibile o anche green growth (la differenza è poca). Questo approccio si basa sull’idea che la crescita economica (misurata in Pil) possa continuare e il danno ecologico (e in particolare le emissioni di gas serra) possa invece diminuire: questo viene chiamato ‘disaccoppiamento’. Più in dettaglio si distingue tra disaccoppiamento relativo e assoluto.
Quello relativo si ha quando Pil ed emissioni non crescono più alla stessa velocità – le emissioni continuano a crescere, ma più lentamente del Pil. Guardando i dati relativi agli anni passati vediamo che alcuni stati sono riusciti a raggiungere l’obiettivo del disaccoppiamento relativo, in particolare grazie all’introduzione di innovazioni tecnologiche che hanno permesso un aumento dell’efficienza dei processi produttivi. Il quantitativo di emissioni emesse per unità di Pil è diminuito inoltre anche a livello globale.
Questo è però del tutto irrilevante negli effetti sul clima: siamo già oltre il limite sostenibile di concentrazione di gas serra nell’atmosfera e, anche con il disaccoppiamento relativo, continuiamo comunque ad aumentare le emissioni a livello globale. Che questo aumento avvenga un più o meno rapidamente è di poco interesse per i processi biofisici in atto. E’ necessaria una vera e propria diminuzione in termini assoluti delle emissioni, non basta un rallentamento della velocità di crescita.
I fautori dello sviluppo sostenibile ritengono che questa diminuzione si possa ottenere col ‘disaccoppiamento assoluto’ tra Pil ed emissioni, ovvero riducendo le emissioni mentre il Pil continua a crescere. Che questo sia possibile per ora non è mai stato provato.
Se si guarda lo storico delle emissioni, esse sono cresciute sempre in modo più o meno proporzionale al Pil. Anche se si analizza a livello geografico dell’impronta climatica (ed ecologica in generale) delle persone nei diversi stati in relazione al Pil, il rapporto è sostanzialmente proporzionale.
E questo ci porta a un interessante aspetto della narrazione su sviluppo sostenibile e green economy: Secondo voi chi è la persona con lo stile di vita statisticamente più sostenibile: un italiano o un danese? Chiaramente il danese, no? Invece no, è l’italiano – le sue emissioni di gas serra sono mediamente un bel pezzo inferiori di quelle di un danese (o svedese, olandese, tedesco). Questo semplice paragone numerico sfata efficacemente l’immagine sostenibile dei paesi del Nord (per altro sapientemente costruita). Va comunque precisato che anche l’italiano medio, così come ogni abitante europeo, conduce uno stile di vita decisamente insostenibile.
Ma come è possibile che sia così? Nonostante tutte le innovazioni tecnologiche, politiche e comportamentali che il Nord riesce ad applicare, e che invece in Italia fatichiamo a diffondere, l’impatto di questi paesi resta più elevato di quelli dell’area mediterranea. Sono quindi politiche, tecnologie e pratiche inutili? La risposta, come spiegheremo meglio successivamente, è un chiaro Ni.
Bisogna infatti tener presente almeno due fenomeni complessi che rendono la valutazione delle emissioni e degli interventi più complicata da valutare: Da un lato vi è l’ esternalizzazione, dall’altro l’effetto rimbalzo.
Il concetto di esternalizzazione ci permette di capire bene perché uno svedese tendenzialmente viva in un ambiente più pulito ma il suo impatto pro capite sia più alto di quello di un italiano.
Il problema è capire a chi viene attribuita una certa quantità di emissione di gas serra nell’analisi dei dati. Normalmente essa viene attribuita allo stato in cui questa viene emessa (per esempio quello nel quale le merci vengono prodotte). E’ evidente che in un mondo globalizzato il commercio sia senza confini e avvenga normalmente che gli stati più ricchi consumino una grande quantità di merci prodotte altrove. Uno dei luoghi da cui questi prodotti vengono maggiormente importati è ovviamente la Cina. Nonostante queste merci vengano prodotte per l’uso nei paesi ricchi, le emissioni ‘incorporate” nel prodotto (oltrechè lavoro, materiale, energia) vengono comunque attribuiti alla Cina. In altre parole queste emissioni (così come altri effetti negativi non voluti come rifiuti, lavori sottopagati ecc.) vengono esternalizzati alla Cina. Così facendo i paesi ricchi ed “ecologici” del mondo scaricano una quota di emissioni su paesi più poveri.
Se ora analizziamo le emissioni in un modo differente, cioè le attribuiamo a chi consuma merci e servizi piuttosto che a chi li produce, osserviamo che il quadro diventa molto poco roseo per gli stati apparentemente ecologici del Nord.
Se poi, facendo queste stesse considerazioni, osservassimo le emissioni di quegli stati che, apparentemente, hanno raggiunto il famoso disaccoppiamento assoluto, si vedrebbe che in realtà semplicemente hanno esternalizzato altrove le proprie emissioni.
L’altro pezzo del problema è il cosiddetto effetto rimbalzo. Un elemento cardine della green economy è l’efficienza, o meglio l’idea di aumentarla. L’efficienza di un processo è il rapporto tra output e input: quanto capitale, materiale, lavoro e energia devo investire per produrre una certa quantità di merce. Se riesco a produrre lo stesso quantitativo riducendo l’input ho aumentato l’efficienza. Il credo dello sviluppo sostenibile è quindi che sia possibile accontentarsi di produrre lo stesso quantitativo globale di merci riducendo progressivamente l’input di materiale, energia ecc. risparmiando così emissioni.
Il problema è che ciò empiricamente non avviene. Infatti, normalmente, quando si riduce il costo in termini di produzione o impatto di una tale merce, si tende a produrne e consumarne di più.
Già nell’Ottocento in Inghilterra un certo Jevons (per cui questo fenomeno viene anche chiamato Jevons’ Paradox) si rese conto che, con l’aumento dell’efficienza delle macchine a vapore, il consumo di carbone non diminuiva, ma addirittura aumentava. Questo perché la maggiore efficienza fece abbassare i costi di produzione e quindi rese sempre più conveniente usare le macchine a vapore per qualsiasi scopo e quindi consentì di poter produrre tantissimi prodotti a costi improvvisamente inferiori. In questo senso dunque l’effetto rimbalzo è un elemento centrale del salto di ricchezza che il nord del mondo ha cominciato a intraprendere con la rivoluzione industriale (insieme all’esternalizzazione, in particolare attraverso il colonialismo e lo sfruttamento di lavoro e risorse primarie di altri paesi. A questo proposito vi segnaliamo il seguente articolo)
Quindi è evidente che basando tutto sull’efficienza non ottengo necessariamente una riduzione delle emissioni. Aumentare l’efficienza non è sufficiente, bisogna ripensare l’utilizzo globale delle risorse per affrontare i cambiamenti climatici.
L’effetto rimbalzo si applica anche ai consumi e alle emissioni personali: se, ad esempio, volessi avere un comportamento a basso impatto nella mia vita potrei impegnarmi a tenere tutto l’anno il riscaldamento dell’abitazione basso, potrei isolare bene la casa, comprare prodotti stagionali e poca carne, non usare la macchina ma solo la bici… comportarmi ecologicamente; così facendo non farei solo bene all’ambiente ma risparmierei anche un sacco di soldi. Ma cosa potrei farmene di questi soldi? L’effetto rimbalzo ci dice che potrei facilmente ritrovarmi a spendere questo eccesso di soldi in beni e attività che alla fine mi farebbero emettere lo stesso quantitativo di emissioni, o addirittura un quantitativo maggiore, di quello che avevo precedentemente risparmiato con i miei comportamenti virtuosi. Ad esempio potrei comprarmi finalmente quel volo carissimo per andare in Costa Rica a vedere finalmente la bellissima natura incontaminata, la foresta tropicale, le barriere coralline… peccato che con questa scelta avrei rovinato tutto il mio personale bilancio ecologico!
Anche in questo caso non basta l’efficienza, bisogna pensare in modo differente. Ad esempio scegliendo di lavorare meno, guadagnare meno e dedicare il tempo liberato alla vita sociale, all’arte, all’autoproduzione, all’attività sociale e politica ecc..
In conclusione possiamo dire che la strada dello Sviluppo Sostenibile non è in grado di offrire soluzioni reali a questo problema. Se la strada dello sviluppo sostenibile non è percorribile quale lo è?
La decrescita permette affrontare alla radice i problemi sopra esposti: l’unico strada percorribile è quella della riduzione, in maniera guidata e ragionata, della produzione e il consumo di merci a livello globale e in termini assoluti, ed è chiaro che questa riduzione in termini globali dovrà avvenire in misura maggiore in coloro che in questo momento hanno un elevato livello di consumo e di impatto.
Se, alla luce di quanto esposto finora, la necessità di ridurre la produzione di merci appare ovvia, diviene importante capire come questa riduzione possa avvenire senza mettere a rischio la nostra qualità di vita, anzi, pensando invece a come sarebbe possibile aumentarla.
La proposta della decrescita felice è proprio questa: ripensare la nostre idea di progresso e di benessere di fronte alla sfida che la crisi ecologica oggi ci pone, in modo da poter migliorare la qualità di vita di tutti.
Ridurre il consumo e la produzione di merci, associando un meccanismo di ridistribuzione, vorrebbe dire lavorare di meno, avere una qualità della vita più elevata con meno scambi mercantili e poter riscoprire la vere ricchezze della vita: il tempo per le relazioni sociali, quelle familiari, amicali e quelle comunitarie e politiche; il tempo per migliorare insieme l’ambiente in cui viviamo, i beni comuni, l’arte, il cibo e il tempo per tutto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.