Antispecismo come necessità di cambiamento
di Claudio Cianca - 07/03/2019
Fonte: Maurizio Pallante
Perché parliamo di antispecismo?
Cosa c’entra con la decrescita (selettiva degli sprechi) e con l’ecologismo (difesa dell’ambiente naturale)?
Spesso questi temi vengono visti separatamente eppure, non cogliere i reciproci nessi, significherebbe pensare di praticare il paradigma della decrescita – o analogamente dell’ecologismo – mantenendo un modello culturale (antropocentrismo: visione dell’uomo e tutto ciò che gli è proprio, come centrale nell’Universo), il quale sostiene ideologicamente le dinamiche produttive opposte. Qui intendiamo sostenere che ciò non ha molto senso.
Perseguire la sostenibilità alimentare mantenendo inalterato un modello culturale incentrato sul solo agente umano, conduce a contraddizioni che minano alla base il perseguimento della stessa sostenibilità. La ragione sta nel fatto che si muovono critiche ad alcune pratiche produttive, senza tenere conto della visione del mondo che è nata in funzione delle medesime pratiche messe in discussione. La presunta “alternativa” finisce con l’essere la “copia conforme” delle stesse logiche, riproposte –spesso inconsapevolmente- sotto altre forme.
L’antispecismo è il movimento che intende attribuire un pari valore e status morale a tutti gli esseri senzienti, individuando la categorizzazione biologica di specie, come origine -e successiva giustificazione- della discriminazione verso gli animali non umani. In sostanza, questa corrente di pensiero, sostiene l’ugualianza fra le specie, che necessita però di essere attuata, affinché l’etica che la contraddistingue possa modificare le condizioni di disparità determinate storicamente. Un antispecismo, vissuto in maniera solo autoreferenziale, resta confinato in posizioni tanto nobili quanto irrealizzabili, finendo per confinare gli stessi attivisti che lo animano in lidi idealisti, spesso portatori di giudizi. Invece, un antispecismo che voglia sperimentare la propria ispirazione filosofica in un progetto politico e culturale, ha bisogno di incontrare i movimenti che, a loro volta, provano a generare cambiamenti, per mezzo di un progressivo impatto a modifica delle norme socialmente stabilite.
Facciamo un passo indietro. Ci permettiamo di dire, semplificando, che una qualsiasi società umana si basa su tre colonne portanti: le pratiche produttive, le quali hanno il compito di assicurare la materiale sopravvivenza / un ordinamento sociale, il quale ha il compito di consentire l’attuazione di quelle pratiche / un modello culturale, ovvero un’immagine della realtà e della posizione del gruppo sociale in essa (da cui consegue una scala di valori e le relative norme di comportamento impartite). Il modello culturale ha proprio il compito di legittimare “ideologicamente” sia le pratiche produttive, sia quell’ordinamento sociale (fungendo da collante sistemico collettivo), di creare cioè una visione che faccia apparire leciti le une e l’altro. Tale visione non ha sempre il compito di descrivere oggettivamente la realtà e, nella maggior parte dei casi, non lo fa; essa appartiene più alla mitologia che alla sfera della conoscenza. Il suo vero compito sta nel giustificare ai membri del gruppo le azioni che il gruppo dirigente compie, verso l’interno e nei confronti del mondo esterno. Poco importa se spesso assume connotati così fuori dalla realtà da divenire paragonabile ad un’allucinazione collettiva.
Le tre colonne portanti si influenzano vicendevolmente. Il modello di cultura deriva dai primi due pilastri ma, al tempo stesso, nel giustificarli in quanto “normali” o addirittura “naturali”, agisce a rafforzarli: quando direttamente, motivando ogni azione che li mantenga, quando indirettamente, ostacolando ogni tendenza divergente. Per il modo stesso in cui sono nate, esse sono inestricabilmente legate l’una all’altra, al punto che non è pensabile modificarne una, senza intervenire contemporaneamente sulle altre. Spesso invece, a leggere le teorie antispeciste, ecologiste e della decrescita, ne ricaviamo la sensazione che si stia parlando di tre temi (e schemi) completamente scollegati fra loro. Manca la visione delle connessioni fra le componenti sociali invece collegate; di conseguenza, se si tende ad un’alternativa reale, non è possibile teorizzare né praticare il cambiamento concependolo separatamente. Se ci chiediamo quando, come e perché nasce l’ideologia specista e con essa il dominio sistematico dell’uomo sulle altre specie animali, o cosa sta all’origine della società della crescita, o ancora cosa determina lo scempio degli habitat naturali, scopriamo che queste tre domande richiedono una risposta omnicomprensiva, facente capo all’analisi di un processo diversificato ma inscindibile.
La crescita è un processo di lungo periodo, iniziato già in epoca protostorica in Europa con le invasioni del popolo pastorale che abbiamo studiato a scuola: gli Indoeuropei. Processo che è andato avanti nel tempo, fino a giungere oggi al suo più grande compimento con la globalizzazione. Anche per quanto riguarda l’ecologismo, si identifica nel neolitico il momento in cui l’umanità cominciò ad avere un impatto molto sensibile sugli ecosistemi, con l’irrompere dell’agricoltura e, soprattutto, dell’allevamento. L’antropocentrismo è nato parallelamente al nascere della società della crescita, dunque con il primo svilupparsi delle culture urbane, come ideologia necessaria alla legittimazione delle pratiche diffuse. Affinché una società pretenda di espandersi indefinitamente, essa deve esprimere una visione antropocentrica del mondo, ovvero della reificazione (riduzione a merce) di tutto ciò che è esterno a sé e dunque oggetto di tale dominio. E’ importante dire che i processi di formazione ed evoluzione dei modelli di cultura non appartengono alla sfera razionale, al contrario coinvolgono il nostro inconscio, dove la razionalità non arriva e
l’elaborazione si compie senza che l’individuo ne abbia alcuna consapevolezza.
Alcuni esempi: gli effetti che i pesticidi hanno sugli animali, domestici e selvatici (incluso l’umano ovviamente); le popolazioni di uccelli in Europa che hanno subito negli ultimi decenni una drastica rarefazione (la cui causa primaria viene identificata nell’agricoltura industriale, nel cui ambito è da inserire anche la gestione intensiva dei pascoli e quindi ciò che mangiamo), non solo attraverso l’uso di sostanze chimiche letali ma anche attraverso la sistematica distruzione degli habitat. Allo scopo di disporre di un pascolo, si brucia o si abbatte una foresta e ciò implica la morte di tutti gli animali che vivevano in essa (o arsi vivi o di fame perché il loro habitat non esiste più), un gigantesco genocidio. Foche e orsi polari annegano a causa dello scioglimento precoce dei ghiacci provocato dal riscaldamento globale causato dalle più nocive attività umane. Senza parlare dell’orrendo sfruttamento degli animali “da reddito” perpetrato negli allevamenti, intensivi/industriali/biologici o diversamente alternativi che siano.
Per ciascuno di questi effetti è riscontrabile una causa comune, un fatto di validità generale. L’“animale non umano” è trattato come un’astratta entità, invece di quell’organismo biologico che gode e genera allo stesso tempo un ecosistema: il riconoscimento degli animali come agenti sociali implica la loro profonda ri-considerazione, implica la tutela degli ecosistemi in cui vivono, degli habitat dai quali sono – e siamo – indissolubili, di cui sono – e siamo – parte. Non si può preservare i primi senza preservare i secondi. Cos’è d’altronde un ecosistema, se non un insieme organico di comunità viventi?
E’ pensabile una società della decrescita che si mantenga specista? E’ desiderabile un cambiamento che si fondi su di un concentrato di individui ed attività in perenne – e discriminatoria – infinita espansione? Noi pensiamo di no, perché su un pianeta di dimensioni finite, è chiaro che se una specie vivente pretende di crescere all’infinito non può farlo che a danno di tutte le altre, compresa la parte più debole della propria. Se una parte cresce, le altre devono contrarsi: non c’è alternativa. Una società antispecista deve puntare ad essere una società stazionaria, non nel senso di stagnante, ma una società quantitativamente stabile. La ricerca di un equilibrio nelle convivenze oltre la specie diventa un tema centrale che merita la dovuta attenzione da parte di chi, pur provenendo da diversi interessi, vuole convergere verso l’obiettivo d’interesse comune. Tale atteggiamento, se ponderato, trasforma le battaglie singole da questioni che puntano alla specifica inclusione nel sistema dominante, a lotte che cercano forme di liberazione emancipative, attraverso un approccio intersezionale (l’intersezionalità afferma che le concettualizzazioni classiche dell’oppressione nella società – razzismo, sessismo, abilismo, omofobia, transfobia, xenofobia e tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza
– non agiscono in modo indipendente, bensì che queste forme di esclusione sono interconnesse e creano un sistema di oppressione che rispecchia l’intersezione di molteplici forme di discriminazione) . Ci spostiamo quindi dal piano della rivendicazione dei semplici diritti, secondo i ritornelli delle retoriche populiste, per entrare nell’alveo delle ampie rivoluzioni paradigmatiche, che possono davvero ambire a modificare il corso della storia e delle storie.
Se si cerca di cambiare solo una parte della realtà, senza intaccare il modello di cultura generale, non si fa altro che riprodurre nuove versioni della medesima realtà. Viceversa, nel momento in cui si cerca di cambiare il modello culturale, senza porsi il problema di cambiare contestualmente le strutture produttive e sociali che quel modello sostiene, si pretende di costruire un tetto senza aver prima costruito l’edificio sottostante. Nel primo caso, nel momento in cui si sottopone a critica la prassi produttiva del presente (crescita infinita), mantenendo il modello culturale nato per giustificare quella prassi (antropocentrismo), qualunque progetto alternativo sarà solo una versione edulcorata di quella stessa prassi. Facciamo un esempio particolarmente evidente, nel caso delle scelte alimentari: la sostituzione della carne animale con la carne sintetica, sia che il signor Rossi la acquisti al Mc’Donalds, sia che il signor Rossi aderisca alle proposte Slow Food, non è che la stessa carne che diversamente sfrutta, devasta, uccide.
L’opposizione a certe attività produttive (in cui si comprende la condanna della zootecnia), genera uno scollamento, una frattura, fra una visione del mondo (l’uomo superiore agli “animali”) e una delle modalità attraverso cui questa visione trovava una corrispondenza nel mondo reale (l’“animale” reso cosa, materia prima e trasformato in cibo). Si crea un’insostenibile incoerenza fra una dimensione culturale che enuncia un certo rapporto con l’altro-non-umano (la sua negazione in quanto soggetto) e una situazione materiale che impedisce l’esercizio di quel rapporto. Viene così a mancare quella fett(in)a di funzionalità, di ragion d’essere, che incarna il superamento di una certa visione del mondo.
In sostanza, questo nuovo movimento socio/cultural/politico, si prefigge di non cadere nell’errore di essere paladino solo di un nuovo ordine degli umani e delle loro cose, di sostituire semplicemente il vertice della piramide del potere; costruzione nella quale le esistenze degli “schiavi” alla base servirebbe ancora una volta a permetterci di restare in cima. La decrescita è sì auspicabile in termini quantitativi e qualitativi ma, ancor più importante, in termini di equità nei confronti di tutte le specie viventi.