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La storia agli storici

di Franco Cardini - 27/10/2006

 

In Italia è boom della divulgazione Ma nemmeno le polemiche intorno ai casi Pansa e Bocca si trasformano in attenzione verso ciò che hanno da dire gli addetti ai lavori, troppo spesso rinchiusi nelle loro torri d’avorio

 

A quanto sembra, l'Italia sta dividendosi in pansisti e bocchisti: i due bestseller, rispettivamente appunto di Pansa e di Bocca, dedicati all'Italia della Resistenza e dell'immediato dopoguerra stanno non solo spopolando nelle librerie ma anche riaccendendo polemiche d'un tipo che speravamo di esserci lasciati alle spalle. E via con i soliti tormentoni: il fascismo e l'antifascismo, il contributo partigiano alla «guerra di liberazione», il carattere moralmente condannabile o accettabile, se non onorabile, della scelta di quanti finirono con la Repubblica sociale italiana. Francamente, si tratta di questioni arcinote e ormai stantie. Una polemica dello stesso tipo di quella odierna s'impiantò quando videro la luce i libri di Carlo Mazzantini, che raccontava - e giustificava: nel senso che contribuiva a chiarire e a far capire - per quali ragioni un bravo e onesto adolescente allevato nel clima del fascismo aveva potuto nel '43 scegliere Salò, «per l'onore», davanti allo spettacolo del re in fuga, della vergogna e del caos generale. Poi c'erano state le esternazioni di Giorgio Albertazzi e di Dario Fo, anch'essi «repubblichini confessi» sia pur con differenti motivazioni: e, anche lì, si sollevò un discreto polverone. In tutti questi casi, tuttavia, brillavano per la loro assenza (e non per colpa loro) gli storici di professione, i docenti universitari: che, per quanto politicamente allineati - con poche eccezioni, militavano nelle sinistre (cattolica, laica o comunista) o le fiancheggiavano - avrebbero dovuto esser comunque ascoltati per primi. Fece a suo tempo scalpore la testimonianza d'un grande contemporaneista, Roberto Vivarelli, anch'egli ex ragazzo di Salò; ma era appunto un professore, un addetto ai lavori: che noia, e tutto finì lì. L'opinione pubblica italiana, vale a dire la società civile, non aveva alcun interesse per il lavoro degli storici: stava a sentire solo i politici e i giornalisti. Oggi l'informazione è quantitativamente più diffusa ma, sotto il profilo qualitativo, addirittura peggiorata. La gente continua non solo a leggere pochi libri e a non saperli scegliere, ma ormai dà ascolto quasi soltanto a pochi anchorman televisivi, di solito biecamente indirizzati sotto il profilo politico e interessati a far emergere solo alcune «verità» celandone altre nonché abbastanza disinformati riguardo a chi siano gli autentici specialisti delle cose che trattano. Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, chi scrive è stato un ragazzo del Msi. Fu un'esperienza pulita: avevo tredici anni al tempo di Trieste italiana, sedici quando nel '56 gli ungheresi insorsero contro il gigante sovietico. Di famiglia cristiana e socialista, m'iscrissi al Msi soprattutto perché nauseato della viltà dei «moderati» e dei «benpensanti» che nascondendosi dietro alla loro pelosa virtù democratica lasciavano massacrare gli ungheresi. Uscii da quel partito nel '65, deluso, perché mi ero reso conto che non riusciva ad articolare un autentico discorso politico rispetto al mondo attuale: l'attività principale era l'elaborazione del lutto repubblichino. Ebbene: già allora noialtri ragazzi missini avevamo letto e riletto gli articoli e i libri di Giorgio Pisanò, forse giornalista mediocre e personaggio ambiguo, ma che tuttavia aveva con certosina pazienza raccolto più o meno tutto il materiale che oggi Pansa ripropone. Chi non voleva voltarsi dall'altra parte e far la politica dello struzzo, sapeva. Ma politici e mass media facevano quadrato e imponevano silenzio. E la storiografia universitaria si trincerava dietro l'alibi dell'«ininfluenza» di certi episodi rispetto al «generale giudizio critico» da fornire su quegli anni e quegli eventi. Le donne rasate a zero e violentate, i ragazzi ammazzati, i campi di concentramento come quello di Coltano - dove fu tenuto chiuso anche Ezra Pound -, le sevizie e le torture, la gente che continuava a sparire ancora nel '47, la ripugnante spirale della vendetta: tutto era ininfluente. Per i vinti non c'erano né giustizia, né misericordia, né memoria. E non perché avessero torto, come magari avevano: ma perché erano vinti. Punto e basta. Il punto è quindi l'arroganza e la malafede dei detentori del potere dell'informazione da una parte; l'inadeguatezza, la viltà e la scarsa visibilità degli storici seri dall'altra; l'ignoranza e la leggerezza dell'opinione pubblica da un'altra ancora. Rimedi? Carta stampata e tv dovrebbero imparare a lasciar perdere le solite primedonne, e far invece lo sforzo di rintracciare gli studiosi di professione, che stanno nelle università e sono pagati dal popolo per fare ricerca scientifica come servizio pubblico. Ed essi dovrebbero dal canto loro imparare una buona volta a far quello che piuttosto bene fanno per esempio i loro colleghi americani, inglesi e francesi: cioè a non parlarsi soltanto fra loro, ma a comunicare in modo semplice e diretto con la gente. Solo così potremmo creare una divulgazione storica in grado di funger da filo diretto tra la ricerca scientifica e l'opinione pubblica.