L'uomo senza maschera: tra identità e omologazione
di Claudio Bonvecchio - 28/10/2006
1. Incipit
Tra i tanti possibili, un incipit particolarmente stimolante è dato dalla celebre fiaba di Biancaneve e i sette nani. In essa, la protagonista “cattiva” ossia la malvagia regina davanti allo specchio magico, cui rivolge l’interrogativo su chi è la più bella del reame, scopre la sua vera natura di strega. Ossia rivela che l’habitus di regina era solo una maschera che celava la realtà della strega e, viceversa, che la maschera della strega nascondeva la realtà della regina. La regina e la strega erano, insomma, due maschere tra loro intercambiabili. Continuando sulla medesima falsa-riga, si potrebbe allo stesso modo considerare la dolce Biancaneve come la maschera, luminosa, della regina-strega e questa come il lato d’Ombra[1] dell’infelice principessa. In ambedue le possibilità, balza subito all’attenzione come sia la maschera per contrasto a fornire una identità alle due protagoniste principali che, a loro, volta si possono considerare come le due maschere archetipiche[2] del femminile: della donna.
Ora, senza soffermarsi sul tema, estremamente importante, della fiaba importanza che le viene dal suo valore euristico e di Bildung e su cui, per altro, esiste una sterminata letteratura[3] conviene focalizzare l’attenzione sulla maschera e sul suo ruolo. La prima e più importante riflessione mostra come la maschera – in tutte le tradizioni simboliche conosciute[4] – abbia la fondamentale funzione di fornire una identità a chi se ne serve[5]. É una identità “altra” che si sovrappone – per esigenze rituali, comunitarie o sociali e per un tempo reale, provvisorio o duraturo – a quella dell’uomo. Essa pone in essere una figura differente rispetto a quella che caratterizza, normalmente, chi la indossa e possiede una esistenza del tutto autonoma: oltre che dotata di significato. É una persona nel senso proprio del termine e, non a caso, persona in latino – derivandolo dal greco pròsopon – significa maschera[6]. Ma con persona indichiamo un essere appartenente a pieno titolo alla specie umana: un essere che possiede specifiche, spiccate e appropriate caratteristiche individuali. É il motivo per cui si dice di un uomo che è dotato di “personalità”. D’altronde, il latino persona/maschera rimanda ad una identità autonoma che si sostituisce all’individuo e agisce per suo tramite[7], rivelandosi come una diversa specifica individualità. É una persona che ostenta una “personalità” solitamente più incisiva di quella dell’uomo che la indossa. Si potrebbe, al limite, sostenere – enfatizzando i termini del discorso – che ha una sua propria autosufficienza: talora maggiore e più articolata di quella di colui che è mascherato.
Il che giustifica l’alone di mistero e di sacralità che da sempre accompagna la maschera, facendone il tramite privilegiato per il cui tramite si palesano, in tutta la loro rilevanza teofanica, gli esseri divini o Dio stesso[8]. Con il che, la maschera – che ne è il simbolo – acquista lo statuto di un essere vivente, portatore di una forza (mana) extraumana. Per questo, la maschera rivela una sua intrinseca forza plasmatrice e – come scrive Burchkardt – la si poteva tradizionalmente, indossare «solo dopo aver compiuto particolari riti di purificazioni»[9]. Cosa questa facilmente comprensibile se si considera che la maschera modella chi – in determinate occasioni – la indossa, identificandosi con ciò che effigia. In merito ad esempio, Jung ricorda come «ogni professione presenti una sua Persona caratteristica [..] Il rischio è solo di diventare identici alla Persona: il professore al suo manuale e il tenore alla sua voce»[10]. Dalle parole di Jung si evince quello che si può considerare il rischio maggiore connesso all’indossare una maschera – e, parimenti, ciò che la rende un tabù – ossia che si attivi una preoccupante inversione di ruoli tra la maschera e chi la indossa[11]. Inversione in cui l’uomo si identifica con quella maschera e la maschera con quell’uomo. Il che avviene – peraltro solo pro tempore – nei riti e nelle cerimonie primitive, in cui «la maschera viene adorata e vissuta come una vera apparizione dell’essere mitico che essa rappresenta, anche se tutti sanno che un uomo l’ha costruita e che un uomo la sta indossando»[12]. E come, stabilmente, tende a verificarsi nella modernità, senza però alcuna manifestazione di esseri mitici. La maschera, dunque e – e qui l’aspetto simbolico della maschera è evidentissimo – esprime qualcosa che rimanda ad altro o, ancor meglio, ad un altro. Altro che può essere la totalità espressa dal divino o trascritto nel linguaggio della psicologia analitica dall’inconscio collettivo. Si potrebbe, anzi, considerare la maschera come una forma o meglio un’immagine (archetipica) dell’inconscio collettivo: o, più precisamente, come un suo segmento. Come scrive Jung: «Se analizziamo la Persona, stacchiamo la maschera e scopriamo che ciò che pareva individuale è, in fondo, collettivo»[13].
Pertanto, quando un uomo si maschera tende a identificarsi – cosa questa che riguarda soprattutto le società primitive – con le forme archetipiche (e con i relativi comportamenti) che la maschera indossata simboleggia e veicola. Ne deriva che quei comportamenti archetipici connessi con la maschera o con l’essere archetipico effigiato dalla maschera diventano preponderanti rispetto ai comportamenti che normalmente influenzano – caratterizzando significativamente – il singolo soggetto che la indossa. Ovviamente, se nelle società primitive questa sovrapposizione uomo-maschera è un potente tramite per acquisire una identità coscienziale altrimenti inesistente[14], nella modernità è il sigillo che caratterizza la persona che, in un certo senso, ha perduto o sta perdendo la coscienza che aveva acquisito. Infatti, nella società moderna, i cittadini non indossano maschere per rivendicare una coscienza che non possiedono, semmai se ne servono onde celare a se stessi qualcosa che è andato perduto: onde acquisire una propria (apparentemente autonoma) e provvisoria personalità, una propria (apparentemente autonoma) e provvisoria coscienza. Le nuove maschere della modernità delineano figure costruite dalla razionalità sociale. Sono i personaggi che circoscrivono ed incarnano ruoli e status definiti e pietrificati: in una fissità che fa della maschera un collettivo calco mortuario. In tal modo, la maschera da simbolo si trasforma in allegoria. Diventa qualcosa che rimanda ad una assenza, che rimanda a quello che non c’è e non ci può essere: oppure è la caricatura di ciò che c’è, ma non è accettabile. Così facendo, essa non riveste più alcun valore simbolico e neppure attiene ad una dimensione totale: semplicemente allude. Allude ad un mondo vuoto che riempie di apparenze: come si racconta degli elfi della tradizione nord-europea descritti come figure cave, come figure illusorie.
2. La maschera e l’occultamento
In questa realtà vuota e cava, in questo mondo di apparenze, la maschera serve ad occultare un tutto che è un nulla ed in un nulla che è un tutto: in una società dove regna il guadagno, l’egoismo, il mercato. Dove non hanno dimora – se non marginalmente – reali ed umani rapporti individuali e collettivi. In un siffatto contesto di disgregazione, se il singolo contesta la maschera che la società ha voluto imporgli e che lui ha accettato – se intende deporre la sua maschera – perde, paradossalmente, la sua personalità e viene come risucchiato (senza volerlo e senza neppure saperlo) nell’indifferenziato: in una sorta di moderno caos. Nell’indifferenziato è facile preda di una delle tante tensioni – i nuovi dei della città – che in guisa di archetipo s’impadroniscono di lui, togliendogli il senno e atrofizzandogli la coscienza. «L’uomo invasato da un archetipo» sostiene Jung «diventa una semplice figura collettiva, una specie di maschera, dietro la quale l’uomo non si può più sviluppare e progressivamente intristisce»[15]. Ed infatti, per l’uomo della modernità la realtà tende per quanto riguarda la stessa natura a coincidere con le leggi statistico-matematiche, mentre per ciò che attiene a lui stesso coincide con i tratti astratti della società. Tratti che sono perfettamente congruenti all’idea che la società ha di se stessa ed in cui si riconosce. Così, l’uomo inizia ad assumere l’impronta – la maschera che gli porge la società e che viene modellata dall’educazione, dal conformismo e dalle convenzioni. Su di essa prendono forma come in un gigantesco gioco di ricalco – le figure o meglio i ruoli sociali cui i cittadini (i membri della società) devono attenersi per poter esistere, per costruire l’illusione di un senso, per percepirsi, illusoriamente, partecipi di una totalità irrimediabilmente perduta. Tali ricalchi non riproducono tipi eterni, ma modalità funzionali a modelli comportamentali accreditati dalle istituzioni famigliari, scolastiche, statuali, sociali e religiose. Le maschere della società sono sempre “istituzionali”. Esse aderiscono, strettamente, ad ogni personalità e non possono essere mai tolte, se non a rischio di precipitare nell’indistinto sociale: un indistinto non meno inquietante per l’uomo dell’antico caos primordiale.
È questo il paradigma e il perenne rischio dell’uomo moderno, la cui vita si dispiega in una società che gli appare a prima vista come il luogo ideale in cui ottenere il soddisfacimento dei propri desideri e dei propri bisogni. In realtà, per lo più lo immette in spersonalizzanti habitat urbani, grigi e desolati oppure in quartieri stereotipici dove conduce una vita non meno grigia, desolata e ripetitiva. In questo contesto, la sua individualità, il suo sviluppo morale e sociale vengono presentati come l’effetto di rapporti liberi ed interscambiabili, nonché della reciproca funzionalità dei singoli individui che partecipano alla società[16]. Ma queste apparentemente spontanee intersoggettività, interscambiabilità e funzionalità sono, invece, il frutto di una volontà esclusivamente razionale e di un legame che – come ricorda Max Weber ha come base una stipulazione. Ossia, un contratto che obbliga i contraenti – gli uomini che vivono nella società moderna – a mettere in comune segmenti di esistenza, augurandosi che questa condivisione si attui di fatto[17]. Del tutto estranea alla collettività e alla tensione sacrale su cui si costruiva quella antica, la società moderna fonda la propria coerenza e la propria coesione sull’assioma, esclusivo, della ragionevolezza umana e si adopera affinché – in nome della centralità del mercato – siano soddisfatte le pulsioni egoistiche: provenienti dai singoli individui che la compongono. La sua stessa riproduzione biologica è, di conseguenza, dipendente dal soddisfacimento del desiderio e del bisogno indotto: entrambi generati – al pari di altri – dalle leggi della domanda e dell’offerta. Ne viene che il bonum comune si esaurisce nel loro appagamento, che – auspice la ragione – attua l’inattuabile: ossia l’integrazione dell’universalismo dei comportamenti con l’interesse individuale. Superfluo è segnalare il rischio e la dannosità implicita in un siffatto modo di essere, di pensare e di comportarsi. Significa costruire il principio cardine della società nonché l’antropologia dell’uomo – o meglio la sua ontologia – sull’interesse concreto, materiale e monetario. Cosa questa che l’uomo non può accettare, se non negando se stesso. Da ciò deriva la necessità di mascherarsi: la necessità di una maschera protettiva che celi l’inganno sociale e l’autoinganno personale. Tramite questa maschera, l’uomo eleva a sistema il più sfrenato solipsismo: un solipsismo che impedisce e nega ogni vero rapporto umano.
3. La maschera e la letteratura
Questo è il modo in cui per mezzo della maschera si fissa il carattere precipuo della modernità (e anche della post-modernità). É un carattere sfuggente, difficilmente percepibile con i consueti mezzi dell’analisi, ma che viene messo a fuoco, particolarmente, dalla letteratura: forse perché la letteratura è essa stessa un intreccio di maschere. Così, ogni tipo di letteratura a far tempo dalla seconda metà del XIX secolo si rivela un affascinante campo d’indagine per comprendere, con chiarezza ed apertamente, ciò che invece la società vuol, mimeticamente, celare: con una straordinaria opera di mascheramento. Nell’età della secolarizzazione[18] dove domina incontrastato il formalismo borghese e sovrana regna l’apparenza la letteratura svela quei disagi che la società tenta, caparbiamente, di velare: di mascherare. Mette in mostra ogni impercettibile discrasia ed ogni inquietante problematica che – al pari di qualsiasi limite (vuoi macroscopico, vuoi microscopico) – il sistema sociale nega accuratamente, occultandolo sotto le spesse coltri del perbenismo, dell’ipocrisia e dell’ideologia.
Significativo in proposito è il romanzo di Knut Hamsun – Fame – dove lo sfortunato protagonista prende su di sé la tremenda maschera del diseredato, dell’abbandonato e del solitario, senza che nessuno si periti di consolarlo o di sfamarlo: senza che nessuno provi per lui alcuna parvenza di bontà e di umanità. «Silenzio.» scrive Hamsun «Non un’anima intorno a me, non un lume, non un suono. Avevo dentro un tumulto orrendo, gemevo e piangevo digrignando i denti ogni volta che vomitavo quei brandelli di carne che forse avrebbero potuto saziarmi»[19]. Siamo abissalmente lontani dal passato – il mondo cristiano-medioevale, ad esempio – in cui numerosi sono i racconti devoti e meravigliosi in cui, sotto maschera umana, si mimetizza il divino nell’immagine di Cristo o degli angeli suoi messaggeri[20]: tutte rappresentazioni simboliche di una ontologia totale[21].
Di questa ontologia totale come, per altro, del divino nella società moderna non è rimasta traccia alcuna. In luogo di entrambi, primeggiano il conformismo e la sua diabolica e regressiva ombra. Il nulla. Dietro la maschera si nasconde, perciò, il nulla[22]: un nulla che spesso si rivela in tutta la sua potenza demoniaca. È ciò che si delinea, ad esempio, nel notissimo racconto di Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde dove il protagonista incarna, nella sua drammatica duplicità, la schizofrenia di un mondo che nega ogni istinto, diventandone preda. Nel brutale, violento e primitivo mister Hyde, la rispettabilità anglossassone e vittoriana rivela il suo volto reale dietro la maschera dotta, urbana, compassata e borghese comme il faut del brillante doctor Jekyll. È il volto di una politica aggressiva ed imperialista che sfoga, nelle terre oltremare, la sua arroganza sadica e sanguinaria. È il volto senza scrupoli di una economia crudele e di uno sfruttamento selvaggio: entrambi negatori di ogni umanità in nome del danaro, del mercato e delle leggi sociali. Tratteggia il volto di una classe dirigente debosciata e malata che esalta la virtù pubbliche, ma coltiva inconfessabili vizi privati. È il volto, infine, di una cultura razionalista e positivista che sublima nell’aridità della scienza tutto ciò che il sentimento non è in grado di esprimere.
Curiosamente proprio nel momento in cui la cultura positiva e progressiva rivendica a sé di aver strappata all’uomo la maschera (del devoto, del credente, del pio, del sottomesso e così via) impostagli dalle passate epoche buie – ne assume un'altra non meno cupa, non meno repressiva e sicuramente altrettanto inquietante e crudele. Quasi che l’uomo, comunque, non possa stare senza una maschera. Quasi che la sua ontologia sia perennemente in bilico tra una ineliminabile maschera che è, di fatto, la sua seconda pelle ed un desiderio assoluto di togliere la maschera: di mostrare come realmente è. A qualsiasi costo. È il dramma della maschera individuale propria di una epoca che porta al massimo grado l’esasperazione del soggetto e che continua a nascondersi: in un gioco mimetico di specchi. Un gioco di specchi in cui, ancora una volta, emerge l’immagine di chi rifiuta la realtà ed assume – a tal fine – una maschera che se gli impedisce di essere visto gli impedisce anche di vedere. È il drammatico quadro in cui è situato il protagonista della novella di Tolstòj Ivan Il’jć che avendo sempre vissuto come voleva la società, si trova ad essere espropriato sia della vita che della morte[23]. Si trova ad essere chiuso in un tremendo “collo di bottiglia” da cui si affranca solo quando strappa dentro di sé la maschera che costituisce la sua “seconda pelle”: «In quel punto Ivan Il’jć si sentiva precipitare giù e vedeva la luce e gli si rivelava che la sua vita non era stata quel che doveva essere, ma che ancora tutto si poteva riparare»[24].
D’altronde, se non si strappa a qualsiasi costo la maschera, essa diventa la cifra di un drammatico autismo che rifiuta di rispecchiarsi nell’altro. In questo caso, diventa la maschera di un soggetto, di un uomo, che è sempre, patologicamente, identico a se stesso. Ma chi è sempre identico a se stesso o è una divinità o è un cadavere: anche se, artatamente, sembra vitale. Come insegna Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, in cui per un diabolico e scellerato patto invecchia il ritratto e non il protagonista: Dorian. Ma il macabro e spaventoso ritratto di Dorian non è che il calco al negativo della sua maschera. Maschera che assume su di sé come un capro espiatorio le nefandezze del protagonista conteso, amato e vezzeggiato da una società non meno ipocrita, malsana e diabolica di lui. Quasi a completamento iconografico del capolavoro di Wilde viene subito alla memoria il celebre, coevo, quadro di Louis Welden Hawkins intitolato La maschera, che presenta incorniciato da un frivolo ventaglio liberty un volto pallido ed immobile in una inquietante fissità[25]. È la fissità che ha dinnanzi a sé la morte, come nel celebre quadro di Xavier Mellery – L’immortalité[26] o come nel tremendo Autoritratto[27] di Aubrey Beardsley (amico e sodale di Wilde)che si percepisce in una sorta di rigor mortis. La maschera, insomma, si rivela come il volto raccapricciante della Gorgone: immagine cara alla sensibilità simbolica di una società che si avviava sfatta e irridente verso la massificazione e la mascheratura coatta.
Ma esiste una altra e non meno tranchant suggestione letteraria in cui, profeticamente, si staglia la maschera che gli uomini occidentali dovranno, forzosamente, assumere: collettiva questa volta nel suo essere il pendant dell’individuo. È quella che si delinea nell’ossessivo racconto di E. A. Poe – L’uomo della folla – che porta in esergo una inquietante frase di La Bruyère: «Ce grand malheur, de ne puvoir être seul»[28]. Nel racconto di Poe prendono forma le “moderne maschere collettive” che individuano segmenti di folla e che la rappresentano in toto: come, ad esempio, la maschera impiegatizia. «La classe degli impiegati» scrive Poe «era facilmente riconoscibile, e qui distinsi due grandi categorie. Da una parte i giovani impiegati di imprese ambigue – giovanotti con gli abiti attillati, gli stivali lucidi, i capelli impomatati e il labbro insolente… Impossibile confondere la classe degli impiegati di più alto livello…Li si riconosceva dalla giacca e dai pantaloni neri o marroni, di taglio comodo, dalla cravatta bianca e il panciotto, dalle solide scarpe a pianta larga, dalle calze spesse o dalle ghette»[29]. Accanto alla “maschera” ora menzionata se ne dispiegano una serie – da quella dei giocatori d’azzardo a quella dei mendicanti – sino a culminare nella rappresentazione oscura e misteriosa dell’uomo della folla: la maschera dell’uomo moderno, dell’uomo della società. Questi si presenta simile ad un demone e, al pari dei demoni, si inabissa nei luoghi peggiori per ritornare simile al leggendario ebreo errante nei luoghi da cui era partito il suo vagare. «Il vecchio» perché di un vecchio si trattava «è l’emblema, il genio del crimine più perverso. Rifiuta di restare solo. È l’uomo della folla. Seguirlo sarebbe inutile - null’altro apprenderei sul suo conto né sulle sue azioni»[30].
Certo, anche le epoche passate conoscevano la folla. Anzi, la folla poteva farsi protagonista e assumere anche per un giorno il potere civile e religioso. Era il giorno in cui tutti si mascheravano, dando luogo alle feste dei folli al carnevale[31] in cui tutto veniva messo in discussione e lo stesso equilibrio cosmico veniva meno. Sono i particolari momenti in cui tramite una maschera gli animali diventano uomini e gli uomini diventano animali, oppure in cui si invertono i ruoli consueti dell’esistere. È il giorno in cui i bambini e gli adulti, la folla insomma, indossano maschere che li fanno sovrani o vescovi[32] e in cui i folli[33] coloro che incarnano la potenza pulsionale dell’inconscio libera da freni e limitazioni – si sostituiscono “all’umanità normale”: a coloro che portano sempre una maschera. In una siffatta inversione di ruoli si annulla il sistema di controllo della coscienza e della ragione e l’Io privo di vincoli e restrizioni lascia libero sfogo, tramite la maschera, ai desideri, alle pulsioni, agli istinti repressi e nascosti dalla quotidianità mascherata. È scontato che tale ritorno – periodico ed, insieme, episodico – a questa condizione originaria di libertà e spontaneità rappresenti uno sfogo ed una protesta nei confronti del controllo esercitato dalla comunità prima e della società dopo. Controllo che sarà sempre più nel corso dell’evoluzione storica una pesante anche se necessaria limitazione alla libera espressività. Perciò, il ritorno simbolico alla libertà originaria tramite la mascheratura carnevalesca o altra analoga «tende a restaurare l’istante iniziale, la pienezza di un presente che non contiene nessuna traccia di “storia”»[34]. Tende a riaffermare quanto meno idealmente un’assoluta e incontrollabile libertà: in cui non ci sono maschere. In cui l’uomo si augura di poter essere, nuovamente, interscambiabile con il tutto: in piena, incoscia ed erotica sintonia con il cosmo.
Ora la folla di Poe nulla ha a che vedere con l’antica folla carnascialesca e neppure è assimilabile, in qualche modo, ai folli. Rimanda, piuttosto, alla tipologia collettiva dell’uomo moderno disperato, angosciato, nevrotico e depresso, ma soprattutto oppresso dalla sua maschera. Si aggiunge ai “tipi” lombrosiani dell’uomo di genio e dell’uomo delinquente: anch’essi maschere sociali in cui l’età progressista e positivista occulta la sua esaltazione e la sua paura: il dottor Jekyll e Mister Hyde. Per questo, l’uomo della folla non ha giocosità ed allegria e neppure vive di una felice libertà. É solo, disperato e deraciné. In un certo senso, è solo contro tutti e si erge come il protagonista del racconto di Stevenson contro l’intera società e, rifiutando se stesso, si confonde con quel tutto (la folla) di cui può prendere l’aspetto perché non è che il nulla. Si può affermare che l’immagine dell’uomo della folla segna, simbolicamente, l’inizio della società di massa: quella società che nel mentre sancisce il definitivo stacco dell’uomo dalla comunità e dalle sue maschere archetipiche gliene fornisce un’altra anonima, assolutamente tipica.
4. La maschera virtuale della massa
Nella “tipicità” del suo “essere folla”, l’uomo non possiede più la evidente certezza di cosa in realtà egli stesso sia e se e in che modo gli sia possibile partecipare alla totalità: che è, poi, la sua trascrizione in un’altra maschera. Il che gli provoca il venir meno della sicurezza in un Dio che sia il suo doppio speculare, in un Dio che sia a lui vicino, mascherato da uomo. Ma allontanandosi sempre più la possibilità di un Dio che si maschera da uomo, si allontana contemporaneamente la possibilità di un uomo che possa coincidere con il divino, ossia con la totalità. L’uomo si trova, perciò, in una situazione sgradevolmente critica: quella per cui – grazie alla razionalità è in grado di pensarsi come una autonoma totalità, senza però esserla. O meglio si pensa come un Io astratto e razionale privo, però, dell’aspetto concreto, materiale, ctonio: che è parte costitutiva ed irrinunciabile del suo essere. Si presenta, allora, con una maschera che lo priva di una effettiva, reale e completa identità: quella che lo fa estraneo ad ogni totalità. O meglio lo situa all’interno di quella pseudo totalità imprecisata ed imprecisabile che è la massa e da cui spera una identità che lo faccia sentire vitale: che gli assegni un barlume di esistenza. Questa totalità senza nome cercata, spasmodicamente e, insieme, inconsciamente temuta coincide con la medesima società iper-razionalizzata e iper-tecnologica. È da questo moderno idolo che l’uomo implora una maschera affinché una volta indossata lo confermi in ciò che non è più sicuro di essere.
Ne viene che l’uomo se da un lato si sente prigioniero di un “corto circuito” razionale, dall’altro necessita, sempre più, di qualcosa che gli fornisca una identità concreta: una vera identità umana, una parvenza di totalità. Di qui l’esigenza di una nuova maschera che gliela attribuisca, che gli offra una identità compatibile con quel bisogno di interezza che gli è proprio e da cui non può prescindere. Nel contempo, prova un moto di disgusto e ribellione che si concretizza in un rifiuto totale della pseudo totalità che gli viene dalla folla: dalla massa e dalla razionalità. Ma curiosamente il suo rifiuto riproduce ciò che rifiuta: in un perverso avvitamento senza fine. Anche in questo caso per comprenderne la portata la letteratura ci offre un valido aiuto. A far tempo dagli primi anni del XX secolo nascono, numerosi, gli eroi di massa che rifiutano la società, che desiderano distruggerla ma, nel contempo, ne sono vittime. Prende corpo la figura di Fantomas, il genio del male, “figlio” del genio creativo di Souvestre e Allaine che assume tutti i volti della massa, ma continua disperatamente ad aggirarsi, come l’uomo di Poe, in mezzo alla folla: per delinquere. Ma per Fantomas delinquere equivale ad ergersi contro la società, ma senza alternativa se non quella di assumere su di sé tutto il negativo della società. Fantomas è il prototipo di una lunga serie di uomini mascherati – solitari e più o meno criminali – che da Arsenio Lupin all’uomo mascherato, da Diabolik a Fantax, da Asso di Picche, a Misterix,da Zorro, a Superman, da Criminal al Santo e a molti altri ancora, vivono una vita effimera e mascherata. Anche quando si dedicano al bene come Nembo Kid, come l’Uomo Ragno[35] sino ai grandi protagonisti dell’effimero cinematografico quali il mitico Indiana Jones o l’invincibile James Bond.
Ora, quanto finora delineato trionfa nella società contemporanea: quella che è sta definita come la post-modernità. In essa, l’uomo sperimenta al massimo grado, individualmente e socialmente – il vuoto o meglio scopra se stesso come un incolmabile vuoto. É un vuoto che spesso assume caratteristiche abissali. Non sapendo più chi è, che cosa rappresenta, dove va e da dove viene, l’uomo si percepisce come una foglia mossa dal vento di un misterioso e insondabile destino. Con tutte le insicurezze che ne derivano e le patologie che ne conseguono: dagli esiti facilmente immaginabili. Jung li ha descritti efficacemente quando afferma: «Quanto più si è sviluppata la conoscenza scientifica, tanto più il mondo si è disumanizzato. L’uomo si sente isolato nel cosmo, poiché non è più inserito nella natura e ha perduto la sua “identità inconscia” emotiva con i fenomeni naturali…. Nessuna voce giunge più all’uomo da pietre, piante o animali, né l’uomo si rivolge a essi sicuro di venir ascoltato. Il suo contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico sprigionava»[36].
In questa società, l’uomo è sovrastato dalla tecnologia: che pensa sua alleata ma che, al contrario, è il triste surrogato di una totalità altrimenti inesistente. È un surrogato di totalità che domina e opprime l’uomo, trasformandolo in un robot, dipendente da bisogni indotti, in un contesto che si esprime tramiti rapporti matematici, tramite indagini statistiche, tramite indici di gradimento. Si tratta di una realtà dove ogni manifestazione – dalla più semplice alla più complessa, incluso lo stesso essere umano – è sempre più ascrivibile ad un universo virtuale. È un universo in cui l’uomo esiste solo conformandosi la pubblicità docet ad immagini che assume come la sua realtà, come la sua unica maschera: dai cibi inventati, dalle transazioni economiche che non hanno un corrispettivo, dal trapianto di organi che diventano gli organi del trapiantato, dalle sensazioni che non rispondono ad una realtà e così via in un fantastico catalogo: degno della fantasia di un mago rinascimentale. Sono spesso aberranti mostruosità in cui una umanità globalizzata riconosce le proprie divinità. E non il caso di continuare oltre su un catalogo oramai sin troppo, tristemente, noto. La maschera diventa un ghigno diabolico: il sorriso della massa.
A fronte di tutto ciò, l’uomo non indossa più una maschera: è diventato egli stesso una maschera. Si è fuso con la maschera a tal punto di non sapere più se è un uomo o una maschera: se vive nella finzione o nella realtà. Vanno in questa direzione i libri profetici di Philip K. Dick[37], solo per fare un esempio. O la ricca produzione filmica da Blad Runner, a Matrix, a Existenz, a Nirvana e a molti altri ancora in cui i protagonisti sempre al limite tra la realtà e la virtualità sono certamente le maschere tristi di una umanità che non conosce più il limite tra la verità e la finzione: tra la realtà e la virtualità. Ed in questa direzione va l’attuale tendenza a trasformare tramite la pubblicità e i mass media tutto in virtualità. Basta pensare alla rete che diventa sempre più un prolungamento delle facoltà conoscitive ed elaborative di ciascuno. A tal punto da identificarsi con la conoscenza e la elaborazione. Così facendo, chi vi vive ha, sempre più, la percezione di essere immerso in una coltre di nebbia: una nebbia che è l’unico tramite per accostarsi al mondo, una nebbia che tutto traveste e mimetizza, una nebbia che si confonde con il suo essere. La si potrebbe definire come una maschera globale che occulta la vista, anche se i più ritengono di non averne bisogno e neppure di indossarla. E così puntualmente accade. La società conferisce a tutti una maschera che rende reali o meglio iper-reali. É una maschera la cui imposizione coatta è voluta dagli stessi soggetti cui è imposta.
D’altronde – e non si scopre nessun segreto – basta riflettere soltanto sulla pubblicità veicolata dai media per scoprire, con raccapriccio, quali sono i suoi messaggi, su quali le maschere si costruisce e si ritma la nostra esistenza. Sull’onda della pubblicità dei vari prodotti di consumo, si delinea la maschera che dovrà indossare il bambino, il padre, la madre, l’amante, il marito, l’innamorato, il ricco, il povero, lo studente, il docente, il professionista, la casalinga, l’agricoltore, il benefattore o il criminale: in un variegato ventaglio che nulla lascia alla fantasia. Dove tutto è virtualità. D’altraparte, nelle maschere della moderna società, la forma è tutt’uno con la sostanza e forma e sostanza concorrono a costruire la maschera della società. È quella che disegna un uomo perfetto, sempre felice, sempre a suo agio, sempre realizzato, sempre contento, eternamente uguale a se stesso, senza autonoma sentimentale, senza sbavature di sorta: che sia neonato, bambino, adulto o anziano: che agisca positivamente o negativamente, che sia felice o infelice non ha alcuna importanza. È una maschera che cela una profonda insoddisfazione, livore, aggressività, dolore. Tuttavia, chi per un qualsiasi motivo non l’indossa è espunto dal novero dalla comunità degli esseri sociali, televisivi, informatici e virtuali: perde la caratteristica di essere la fotocopia, del Grande Fratello, profeticamente descritto da Orwel: in tempi non sospetti[38].
Inoltre, tale maschera non connota soltanto coloro che stimano di essere vivi. Connota pure coloro che sono morti: è la “maschera del caro estinto”. Lo rivela al limite dell’orrore la manipolazione nordamericana delle salme che conferma, in morte, la maschera del vivente: in modo da far pensare che la morte mascherata sia la continuazione della vita, il suo calco stereotipico[39]. «Nell’America odierna» scrive Ariés «le tecniche chimiche di conservazione servono a far dimenticare il morto e a creare l’illusione della vita»[40]. Insomma in nome di questa illusione, la società impone a tutti vivi o morti che siano una maschera, secondo una pianificazione sociale virtualmente stabilita secondo standard per tutti identici. Insomma, dagli stadi alle discoteche, dai compleanni ai fast food alle feste, grottesche, di San Valentino, della sepolture ai matrimoni, sino alle performance sessuali,tutto avviene in un unico, globale gioco di maschere. Chi non vi partecipa è ostracizzato assumendo la maschera di vittima sacrificale del gioco.
5. Conclusioni
Ma esiste una ulteriore, grave e non meno subdola insidia. È quella per cui mimetizzata da questa incombente maschera sociale si cela una pericolosa temibile tendenza regressiva verso una incontrollabile dimensione inconscia. Essa è rappresentata da quella totalità espunta dalla società e, artatamente, sostituita dalle maschere individuali e collettive, a tutti imposte: senza scampo. Totalità che si delinea come alternativa alla spersonalizzazione del presente. Venirne a contatto, equivale però a cancellare ogni, seppur tenue, presenza del conscio, attivando quella dell’inconscio in cui può manifestarsi – in tutta la sua tremenda potenza omogeneizzante e schiacciante – la forza archetipica. Ne deriva il rischio che l’enorme messa in opera di apparati simbolici[41] utilizzati per la costruzione delle maschere individuali e collettive – faccia riemergere la totalità, rimossa, dell’inconscio. Essa può, lentamente, farsi strada nella psiche individuale e collettiva, causando una vera e propria inflazione archetipica: «una espansione della personalità che oltrepassa i limiti individuali, un rigonfiamento, per dirla in breve»[42]. Tale “espansione”, è in grado di provocare, nell’uomo, repentine mutazioni nella personalità: mutazioni che, a loro volta, possono indurre meccanismi disgregativi nella personalità[43]. Se ciò si verificasse, gli uomini diverrebbero prigionieri di incontrollate forze archetipiche che, a loro volta, imporrebbero maschere indipendenti dall’uomo e avulse dalla sua storia, dalla sua cultura e della società in cui vive[44]. Gli archetipi, in questo caso, imporrebbero la loro identità: del tutto estranea alle differenze polari di bene e male, di positivo e negativo, cui gli uomini sono sottomessi. Ne verrebbero del tutto casualmente atteggiamenti razionali o crudeli e passionali oppure razionalmente crudeli o crudelmente razionali: senza alcun discrimine tra loro. Darebbero luogo a personalità in cui si alternerebbero bontà d’animo e generosità verso i simili e gli amici a efferata crudeltà verso i diversi, i nemici e gli estranei. Possibilità questa che sta assumendo inquietanti tratti realistici: come si evince dalla recrudescenza dei conflitti interetnici, razziali e religiosi: ovunque e a tutti i livelli. Se ciò avverrà su lar