La giustizia dei vincitori
di Alessandro Sansoni - 29/10/2006
In uno scenario internazional sempre più sul piede di guerra, l’attenzione di studiosi e opinionisti dei confronti dello stato di salute delle istituzioni sovranazionali (che dovrebbero regolare i rapporti tra gli Stati) è drasticamente aumentata nel corso degli ultimi anni.
Uno degli ambiti di analisi che desta maggiore interesse è rappresentato dall’evoluzione del diritto internazionale.
Di recente, il dibattito su questo tema è stato rinfocolato nel nostro Paese da un saggio del professor Danilo Zolo, docente di filosofia del diritto presso l’Università di Firenze e coordinatore del centro Jura Gentium, intitolato La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, edito da Laterza.
Dall’analisi di Zolo emerge come la giustizia internazionale nelle sue applicazioni pratiche faccia riferimento al cosiddetto “paradigma di Norimberga” e si caratterizzi appunto come una ulteriore azione punitiva esercitata dai vincitori contro i rappresentanti delle nazioni sconfitte per mezzo di tribunali speciali. L’autore si riferisce in particolar modo al Tribunale internazionale per i crimini commessi nell’ex-Jugoslavia ed al Tribunale speciale iracheno che sta giudicando Saddam Hussein, per quanto quest’ultimo rappresenti un caso anomalo, trattandosi di un tribunale nazionale che però si muove ricalcando nella sostanza le modalità d’azione e gli scopi riconoscibili nel “modello di Norimberga”.
In estrema sintesi, gli elementi che costituirebbero il modello di Norimberga sono tre.
Il primo è rappresentato dall’assenza di autonomia ed imparzialità della corte giudicante. Come nell’illustre precedente, quella esercitata dal tribunale dell’Aja per l’ex-Jugoslavia e dall’Iraqi Special Tribunal è una giustizia tutta politica inflitta dal vincitore in modo unilaterale ed arbitrario, che viola il principio di terzietà cui sarebbe tenuta una corte giudicante.
Il secondo elemento è la violazione dei diritti di habeas corpus ed in generale dei diritti soggettivi degli imputati. A Norimberga fu violato in modo scandaloso il principio di irretroattività della legge penale e gli imputati furono giudicati per crimini non ancora codificati nel momento in cui il tribunale presumeva fossero stati commessi. A ciò occorre aggiungere la lesione del principio di eguaglianza di fronte alla legge penale, come conferma il fatto che gli accusati erano selezionati in base a criteri giuridicamente arbitrari, come il rango ricoperto nelle gerarchie naziste. Inoltre l’assenza di norme generali preesistenti, faceva sì che i diritti della difesa fossero completamente in balia della discrezionalità dei giudici, incluso il divieto di produrre testimonianze che provassero il carattere unilaterale della attività della corte.
L’ultimo elemento è costituito dalla qualità delle pene inflitte, di tipo decisamente espiatorio e retributivo, come dimostra il largo ricorso alla pena di morte nel caso di Norimberga o la gravità delle sanzioni penali somministrate dalla corte dell’Aja. Tale aspetto nutre il valore simbolico di una giustizia internazionale volta innanzitutto alla spettacolarizzazione della pena al fine di renderla esemplarmente intimidatoria, sul modello delle condanne capitali presenti in età pre-moderna dove lo “splendore” del supplizio serviva alla celebrazione collettiva della maestà del re o dell’imperatore.
Insomma, il “modello di Norimberga” fa sì che i Tribunali chiamati a giudicare i responsabili di crimini di guerra o “contro l’umanità” non siano altro che strumenti nelle mani delle nazioni vincitrici finalizzati alla prosecuzione del conflitto attraverso procedure giudiziarie. E ciò, secondo Zolo, tradisce la funzione principale del diritto che è volta alla composizione del conflitto tra le parti.
Ora è opportuno sottolineare come la costruzione dal 1945 in poi di un sistema giudiziario internazionale non sia scevro da una serie di risvolti pratici, che esso tende a legittimare ideologicamente, che determinano l’ordine internazionale.
L’idea di realizzare un tribunale internazionale dotato di una giurisdizione che lo ponesse al di sopra degli ordinamenti giuridici nazionali fu teorizzata nella prima metà del Novecento da Hans Kelsen nel famoso manifesto del “pacifismo giuridico” Peace through Law.
Kelsen era ispirato dall’utopia kantiana secondo cui per eliminare la guerra era necessario costituire una lega mondiale della pace, fondata su di un ordinamento giuridico globale. Su questa linea si muovevano una serie di accordi internazionali seguiti agli orrori della Prima Guerra Mondiale, volti a criminalizzare la guerra come strumento di politica degli Stati (in particolare il cosiddetto Patto Kellogg-Briand sottoscritto nel 1928 a Parigi). Kelsen e i suoi discepoli ritenevano che la “guerra di aggressione” dovesse essere considerata un crimine contro l’umanità e che a rispondere delle violazioni del diritto di guerra dovessero essere chiamati i singoli individui e non gli Stati: una concezione in virtù della quale anche le persone fisiche vengono reputate titolari della qualifica di soggetti giuridici internazionali.
In più occasioni Kelsen all’inizio degli anni ’40 si dichiarò a favore di un tribunale internazionale che giudicasse quanti si fossero macchiati di crimini contro l’umanità nel corso della guerra tra le potenze dell’Asse e gli Alleati, salvo poi inorridire di fronte all’azione giudiziaria dei Tribunali di Norimberga e Tokio. Nel suo saggio Will the Judgment in the Nuremberg Trial Costitute a Precedent in International Law? egli affermò: «Se i principi applicati nella sentenza di Norimberga dovessero diventare un precedente, allora al termine della prossima guerra i governi degli Stati vittoriosi processeranno i membri dei governi degli Stati sconfitti per aver commesso crimini definiti tali unilateralmente e con forza retroattiva dai vincitori. C’è da sperare che questo non avvenga».
Cos’era accaduto? Kelsen avrebbe voluto che il tribunale internazionale fosse chiamato a giudicare tutti i crimini commessi da entrambe le parti. L’ingenuità spesso rinfacciata al “positivismo giuridico” kelseniano dal “realismo giuridico” di Carl Schmitt, stava appunto nel sottovalutare il fatto che una norma codificata per essere effettivamente applicata abbisogna di una forza in grado di farla rispettare. Nel caso specifico tale forza esisteva, ma detenuta da una delle parti in causa, quella vincitrice, che la esercitava a suo piacimento in nome dell’umanità.
Secondo Zolo è ciò che accade tuttora, secondo modalità assolutamente arbitrarie ed unilatelari, non esistendo più dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica una superpotenza in grado di bilanciare quella americana.
In effetti, come fa rilevare Michael Mendel, professore di Diritto Penale Internazionale alla York University di Toronto, nel suo libro Come l’America la fa franca con la giustizia internazionale (Ega, 2005), quella del 2003 in Iraq è stata la terza guerra illegale condotta dagli Usa negli ultimi anni, dopo quelle del Kosovo e dell’Afghanistan. Esse, non avendo avuto alcuna legittimazione a monte da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, vanno classificate a tutti gli effetti come “guerre d’aggressione”, espressamente bandite dall’attuale diritto internazionale. Nessun tribunale internazionale si sognerebbe però di incriminare Clinton o Bush per crimini contro l’umanità.
Al contrario il principio dell’”ingerenza umanitaria” o della “lotta al terrorismo” vengono utilizzate per dare legittimità a queste operazioni, che vengono presentate come vere e proprie operazioni di polizia internazionale volte a salvaguardare l’ordine mondiale.
Occorre rilevare, animati da un sano realismo, che l’atteggiamento degli Usa è pienamente coerente rispetto al quadro ideologico in base al quale vengono fondate e presentate all’opinione pubblica le relazioni internazionali oggigiorno.
Con la buona pace delle utopie kantiane e kelseniane e degli isterismi del pacifismo militante, pensare ad un mondo in cui la guerra sia bandita e i diritti dell’uomo così come sono stati codificati dalla dichiarazione del 1948 siano rispettati, significa istituire un governo mondiale in grado di far rispettare tutto questo arrogandosi il monopolio della violenza, così come avvenuto su scala inferiore nell’ambito dei singoli stati nazionali all’inizio dell’era moderna, i quali appunto all’interno dei loro confini sono gli unici titolari legali dell’esercizio della forza attraverso i propri apparati polizieschi.
In una fase di crisi e ridefinizione dell’ordinamento giuridico internazionale è plausibile, realisticamente parlando, che il soggetto nei fatti dotato della potenza necessaria a creare il governo unico del pianeta, si sottragga alle regole che valgono per gli altri, come effettivamente avvenuto allorché gli Stati Uniti hanno rifiutato di sottoscrivere il trattato approvato a Roma nel 1998 che sanciva l’istituzione di una Corte penale internazionale, pretendendo tuttavia di imporle.
Quando si presenta un’emergenza umanitaria, qualcuno dovrà pure essere chiamato a risolverla e le Nazioni Unite risultano con tutta evidenza incapaci di svolgere questo ruolo.
Ora il punto è un altro. Siamo proprio sicuri che la creazione di un governo unico mondiale, programmaticamente finalizzato all’eliminazione della guerra tra i popoli e fondato sulla dottrina dei Diritti dell’uomo così come li ha concepiti la moderna cultura filosofica occidentale sia la soluzione in grado di garantire un ordine accettabile al nostro pianeta?
Lo stato attuale delle cose ci spinge a rispondere di no. Come segnalato da Marco Revelli nel suo saggio La politica perduta, il caos sta velocemente prendendo il sopravvento e la politica sembra non essere più in grado di svolgere la funzione alla quale essa è chiamata: garantire la sicurezza degli individui e stabilire delle regole su cui fondare la coesione sociale e la convivenza civile e tra i popoli.
Guerre asimmetriche, armi di distruzione di massa, terrorismo, stragi di civili inermi ed innocenti determinano uno scenario internazionale sempre più violento ed ingovernabile. È la weltbuergerkrieg (la guerra civile mondiale) paventata da Carl Schmitt, scatenata dai popoli che si sentono sopraffatti e a cui l’Occidente oppone una violenza altrettanto unilaterale, anche attraverso procedure apparentemente giuridiche.
Insomma, più che la condanna moralistica contro l’ipocrisia della “giustizia dei vincitori” che determina un sistema iniquo e prevaricatorio in cui pure Zolo indugia, è l’inefficacia nel governare le dinamiche globali che deve portare a rimettere in discussione i fondamenti su cui si regge l’attuale (dis)ordine internazionale.