Il presagio
di Gianfranco Bertani - 30/10/2006
Avendo l’occasione di introdurre una serie di interventi che hanno come tema centrale il presagio e il suo rapporto con l’arte, mi sembra quasi doveroso fare alcune basilari, generalissime riflessioni sul concetto e l’uso della parola ‘presagio’, premettendo fin d'ora però che esso non è stato obiettivo di alcuna indagine filosofica in ambito contemporaneo, almeno a quanto mi risulta. Saranno quindi queste considerazioni che non vogliono essere assolutamente definitive, ma alcuni spunti di premessa per una tematizzazione filosofica del concetto di presagio.
Innanzitutto è d’obbligo fare riferimento al suo significato originario; è d’obbligo ma sarà forse anche interessante quando lo paragoneremo all’utilizzo che oggi, nel linguaggio comune, ne facciamo.
Il presagio anticamente ha una sua funzione e un suo significato all’interno della sfera propriamente religiosa, o che comunque riguarda il sacro. Specificatamente esso fa parte delle tecniche di divinazione. Il presagio antico è un evento o concorso di fatti - casuale - che, interpretato in base a relazioni occulte suggerite da particolari arti divinatorie o credenze superstiziose, viene ritenuto segno premonitore di futuri avvenimenti fausti oppure infausti.
Il presagio necessita dunque di un’interpretazione, di un’ermeneutica particolare le cui regole non sono di immediata comprensione. Spesso infatti il presagio può essere capito solo da particolari persone, per esempio da un gruppo sacerdotale che verrà consultato per sapere come agire davanti a un particolare tipo di presagio.
Possiamo allora fare già qualche confronto con il presagio, così come noi lo intendiamo oggi. La secolarizzazione moderna del suo significato è forse la prima caratteristica che si presenta a noi. Facciamo un esempio di presagio moderno che useremo anche in seguito: la guerra. A volte si parla di presagio quando, in una situazione - quella contemporanea - tante guerre in tante parti del mondo ci inducono a temere una possibile guerra futura (più o meno remota) dalle dimensioni e dalle conseguenze catastrofiche. In questo tipo di presagio il sacro, almeno all’apparenza, non ha particolare rilievo.
Inoltre si era specificato nella definizione di presagio che quest’ultimo poteva essere premonitore di avvenimenti fausti oppure infausti. Oggi invece si usa a livello quotidiano la parola “presagio” sempre (a parte - sembra - rarissimi casi) nel suo significato più angosciante. A dire il vero, però, bisogna essere obbiettivi anche riguardo al concetto antico e originario di presagio: è cioè corretto dire che vi erano anche presagi di eventi fausti - per es. la nascita di grandi personaggi: la stella cometa stessa è a suo modo un presagio -, ma la stragrande maggioranza sono invece presagi di eventi nefasti. In questo caso dunque presagio antico e presagio moderno si avvicinano, e non per puro caso.
Per quanto riguarda invece l’interpretazione del presagio, anche qui notiamo una differenza significativa. Mentre l’interpretazione del presagio antico passa da un campo semantico a un altro, senza - diremmo noi oggi - una evidente legge causalistica, l’interpretazione del presagio moderno non compie questo salto, risultando ai nostri occhi trasparente nel suo meccanismo di deducibilità. Per esempio: non c’è nessuna connessione necessaria tra il volo degli uccelli e il nostro futuro, eppure il volo basso degli uccelli era uno dei presagi che venivano interpretati anticamente come infausti. In questi casi, come scriveva Rudolf Otto, non si ha “a che fare con la legge naturale [...]. Non [ci] si preoccupa affatto di sapere in quale modo un fenomeno, sia esso un evento, una persona, una cosa, sia giunto all’esistenza, ma solo di sapere quale è il suo significato; vale a dire in quale significato sia un “segno” del sacro”. Invece, riprendendo il nostro esempio di presagio riguardo alla guerra, certamente non è regola matematica che all’apparire intermittente, continuato e numeroso di guerre segua di necessità una guerra mondiale; ma almeno rientra nel campo statistico delle probabilità. Inoltre sia i dati che la conclusione di questa sorta di sillogismo monco sono appartenenti allo stesso mondo semantico: da tante piccole guerre a una grande guerra. Non a caso siamo noi stessi, oggi, interpreti dei nostri presagi; non abbiamo bisogno di sacerdoti specialisti, come un tempo.
Il presagio a ogni modo, oggi come allora, ricorda a noi stessi la nostra precarietà: se è causa di un’angoscia psicologica o anche sociale, esso stesso ha come sua origine un’angoscia più profonda, esistenziale. Perché nell’antichità esistevano i presagi? Perché si è creduto che il minimo evento casuale potesse essere interpretato come presagio? Angelo Brelich, storico delle religioni di origine ungherese, scrive che era un modo per dare ordine e controllare le contingenze. Nel presagio c’è la trasformazione di un fatto in un segno: qui il presagio si avvicina molto al simbolo. Potremmo dire che il presagio è un simbolo che agisce nel tempo. Se, come lo definisce il Lalande nel suo dizionario di filosofia, “il simbolo è qualunque segno concreto che evochi qualcosa di assente o che è impossibile percepire”, allora il presagio lo inseriremo pacificamente all’interno della categoria dei simboli: esso è infatti - come abbiamo appena detto - anch’esso un segno; è un segno che evoca; e ciò che evoca non è ancora accaduto eppure ha già una sua particolare forma di esistenza, la chiameremo un’esistenza in potenza, per usare un linguaggio aristotelico in senso traslato: “impossibile [da] percepire” come dice Lalande. Il contingente perde la sua insignificanza quando viene fatto rientrare in un sistema simbolico nel quale ogni elemento è collegato e ha un sua funzione e necessità all’interno dell’economia della totalità: e questa è un’esperienza tipicamente vissuta dall’uomo appartenente a quelle ideologie religiose antiche cui fa parte, tra gli altri, anche lo strumento divinatorio del presagio.
Ma oggi difficilmente un uomo vive all’interno di un sistema di questo tipo. A parte le credenze superstiziose, non si tenta più di leggere presagi in eventi casuali, contingenti, che riteniamo slegati dalle nostre necessità, preoccupazioni e scelte. Come si era già detto, sacro e presagio si sono slegati nell’epoca moderna e contemporanea. Rimane comunque quella sorta di “impersonalità” che ha fatto sempre parte delle diverse caratteristiche del presagio. Il presagio si presenta come qualcosa di anonimo, è circondato da un alone di terrore e timore, tipiche reazioni dell’incontro tra l’uomo e il sacro. Davanti al presagio ci sentiamo atterriti, i nostri poteri decisionali li interpretiamo come ridotti ai minimi termini: ci sentiamo parte di un sistema che ci sovrasta e che ha le sue regole. Vi saranno dei motivi razionali per cui qualcosa andrà bene o andrà male, ma nel momento nel quale si parla di presagio, questi motivi passano in second’ordine, e il tutto si presenta più come cieca necessità, che provoca angoscia perché non ci viene indicata in modo preciso e circostanziato la causa del presagio stesso e nemmeno la conseguenza: non a caso si parla di presagio e non di previsione. L’arte sottolinea questo carattere nel modo forse più efficace: al viso, allo sguardo che vive e sente il presagio non riusciamo a dare nome. Sentiamo però che lì il presagio agisce: il suo messaggio possiamo solo intravederlo: ci parla di una situazione che per una serie di regole che noi non conosciamo, e se conosciamo non comprendiamo, e se comprendiamo non possiamo mutare, qualcosa di terrificante accadrà, cosa di preciso è impossibile saperlo, non ci è dato, il quando neppure, forse nel nostro futuro remoto, ma anche tra poco, molto poco. Questa anonimia e questo appena suggerire aggiunge al terrore l’angoscia.
Angoscia di cosa? Il presagio ci indica che le cose possono andare male. Il presagio ci ricorda che l’esistenza è possibilità, e come abbiamo appena specificato, esso si riferisce a qualcosa di indeterminato. E così anche l’angoscia: essa non si riferisce a nulla di preciso: è il puro sentimento della possibilità. Siamo integralmente sulla via tracciata da Kiekegaard, il primo a tematizzare filosoficamente il concetto di angoscia. Il presagio ci parla, o almeno indica il futuro, e l’uomo vive proteso nel futuro, in quanto la possibilità è la dimensione del futuro. Futuro, pericolo, presagio, angoscia: sono temi strettamente uniti tra loro; Freud considerava l’angoscia come la reazione dell’Io al pericolo o meglio all’essenza stessa del pericolo, e la interpretava come una situazione di impotenza. Abbiamo già accennato al fatto che il presagio induce un certo senso di impotenza davanti a ciò che ci appare come messaggio fugace.
La reazione che noi, come gli antichi, abbiamo davanti al presagio ci ricorda che con la divinazione (e oggi rimane nel presagio un certo carattere pseudo-divinatorio) ci si preoccupava soltanto in seconda linea di prevedere l’avvenire, piuttosto si voleva sapere che avverrà quel che si desidera (come già tempo addietro aveva sottolineato Levy-Bruhl, Thurnwald, Van der Leeuw e, più recentemente, Raymond Bloch).
Razionalità e irrazionalità (anche se la contrapposizione di questi due termini mi sembra un retaggio di un clima positivistico ormai superato) si mescolano nel presagio. Al momento di tremore e terrore si sostituisce, superandolo, il tentativo di gestirlo. Nell’isola di Talaut (in Indonesia) prima del parto di una donna, si sacrificano galline e maiali, per interpretare i presagi nelle loro interiora; se i segni sono favorevoli, bene; se sono di cattivo augurio, si ricomincia il sacrificio affinché gli spiriti cambino umore, cioè per ottenere una migliore occasione. Anche gli omina non erano efficaci per sé, era necessario che venissero accettati: accipio omen. Rifiutandoli, si cercava di metterli in ridicolo, di dichiararli nulli: omen exsecrari, omen abominari. Nella notte precedente il suo assassinio, Ipparco fece un brutto sogno. Lo respinse, cercando inutilmente di rompere la concatenazione fra presagio e avvenimento. Quando un gatto ci passa davanti - in un contesto di credenze superstiziose - si rompe l’incantesimo e si respinge l’omen tornando indietro.
Cosa ci inducono a pensare questi pochi esempi? Qualcuno ha fatto questa distinzione: in una concezione teistica il presagio è interpretato come messaggio, tramite tra il piano degli déi e quello degli uomini; in una concezione non teistica invece il presagio è esso stesso causa dell’evento futuro; nel primo caso dunque si tratterebbe di ingraziarsi gli dèi, nel secondo invece di modificare la rete delle concatenazioni del cosmo. Questo legame così diretto tra ideologia religiosa e tipologia di presagi è certamente errato; tuttavia è vero che vi erano presagi che possiamo chiamare segnali di un volere o di una necessità o di una fatalità (più o meno divine), e presagi-causa. In ogni modo si richiede una reazione dell’uomo al presagio stesso. L’uomo non può vivere in uno stato ininterrotto di panico, di apertura al totalmente altro; il mistico è l’eccezione. La Rivelazione deve avere una fine perché vi sia una teologia, un discorso teoretico sull’amore è posteriore alle pienezze sentimentali, la lettura del romanzo va conclusa per la scrittura del saggio letterario. Il presagio va controllato; solo la morte del presagio permette l’azione, e l’azione stessa uccide il presagio. Solo uscendo dal terrore del pensiero della guerra, possiamo fare tutto il dovuto per scongiurarla; e solo così potremo allontanare il suo presagio.
Il presagio quindi introduce all’azione morale (certo, questo non vuol dire che il presagio sia a fondamento della morale). Se siamo in un epoca e in una geografia di pensiero che predilige il momento dell’azione a quello della contemplazione, il presagio ha in essa la sua morte almeno parziale. Si risponde al presagio con l'etica, con la morale: un nuovo ordine di problemi viene accennato (viene in mente quel che diceva Eraclito al proposito dell'oracolo di Delfi: non dice né cela, accenna), appunto viene accennato dal presagio, problemi che troveranno la loro soluzione nella scelta di un certo modus vivendi et operandi. Ma tutto risulta essere solo transitorio, anche i vecchi presagi con le loro soluzioni. Si vive nella temporalità, nella storicità, e questo è il prezzo che si paga: una continua nostalgia del paradiso, ricordava Mircea Eliade. Come scriveva Michele Federico Sciacca in un suo libro memorabile sulla condizione umana, “l’uomo fin dal ventre della madre ha scritto sulla schiena: “fragile””. Il presagio gli ricorda la sua fragilità, la sua precarietà: la risposta moderna al presagio è un atto morale, sempre e comunque. E può diventare, sono sempre parole di Sciacca, un “atto d’infedeltà metafisica” qualora l’uomo desideri per sé l’autosufficienza trasformando la sua saggezza nella farsa di se stessa: autosufficienza infatti che implica stabilità, coincidenza tra essenza ed esistenza; e il teologo ci ricorda qual è quell'unico essere la cui essenza implica l'esistenza. Il presagio rimanda alla nostra fragilità e alla nostra precarietà, evidenziando quella caratteristica prima che è a fondamento di queste: quella di essere dipendenti. Forse questo è il significato più vero del presagio.