Il futuro del Kosovo e Metohija, tra indipendenza e integrazione eurasiatica
di Stefano Vernole - 30/10/2006
Prefazione
“Nessuno può imporci una soluzione definitiva sul futuro del Kosmet”.
Con queste legittime ma dure parole, pronunciate dal capo del governo serbo Vojislav Kostunica davanti al mediatore delle Nazioni Unite Marthi Athissari lo scorso 10 ottobre 2006, si è concluso con un nulla di fatto l’ultimo tentativo di accordo tra Serbi ed Albanesi relativamente al futuro status del Kosovo e Metohija.
Le sue dichiarazioni seguono peraltro la decisione del Parlamento di Belgrado di adottare una nuova Costituzione, sulla quale il Presidente della Serbia dovrà giurare di “impegnare tutte le sue forze per mantenere l’integrità e la sovranità del territorio della Serbia compreso il Kosovo e Metohija come sua parte integrante …”.
Le ultime settimane hanno registrato lo sforzo congiunto della maggioranza e dell’ opposizione nazionalista – unitamente alla Chiesa ortodossa - per invogliare i Serbi a recarsi alle urne, facendo superare loro la disillusione politica seguita alla caduta dell’era di Slobodan Milosevic.
Con il referendum del 28 e 29 ottobre, approvato con il 95% dal 53,4% degli aventi diritto (quindi dal 51,6% del corpo elettorale) questo testo legislativo è ora stato approvato anche dalla maggioranza del popolo serbo e proprio in Kosovo la percentuale dei votanti ha raggiunto le sue punte più alte, nonostante il boicottaggio albanese e il mancato riconoscimento della Comunità Internazionale che non ha predisposto i seggi per far votare anche nella regione autonoma.
Non a caso, i maggiori festeggiamenti si sono avuti a Kosovska Mitrovica, simbolo della divisione tra le due etnie.
Ma qual è l’attuale situazione di questa terra, egualmente contesa da Serbi ed Albanesi? Quali sono le sue prospettive istituzionali e le eventuali ricadute di una sua indipendenza sul futuro dell’intera regione balcanica?
1.1 Cenni storico-geografici
Si può far risalire al VI-VII secolo d.c. l’arrivo degli Slavi del Sud nei Balcani, dove tra il IX e il X secolo danno vita alla creazione di piccoli staterelli, Raska e Duklja innanzitutto (quest’ultimo prenderà poi il nome di Zeta, l’attuale Montenegro).
Tra il 1170 e il 1196, Stefano Nemanja, fondatore dell’omonima dinastia dei Nemanjci, regna sulla Raska (la futura Serbia) e la unisce alla Zeta.
La regione del Kosovo e Metohija, al sud della Raska o Serbia, si estende oggi su una superficie di 10.887 Kmq e secondo i dati del 1998, gli ultimi ufficiali prima della guerra del 1999 contraddistinta da vari esodi e ritorni, la sua popolazione era di 1.378.980 abitanti, dei quali 917.000 di etnia albanese e 461.000 di altre etnie, cioè Serbi, Montenegrini, Macedoni, Gorani, Zingari, Turchi, Egizi, Croati, Valachi, Ruteni ed altri.
La posizione geografica conferisce al Kosmet l’importanza fondamentale di appartenere alla parte centrale dei Balcani, al crocevia delle strade principali che, confluendo da più direzioni scendono verso il mare.
Su questo tragitto, il più breve, quello cha passa da Prizren, la cd. “Via della Zeta” – attraverso la valle del Drim – in direzione di Scutari, si svolge la maggior parte dei traffici fra l’interno della penisola balcanica e il litorale adriatico.
Dopo l’ampio piano verde ondulato del Kosovo, proseguendo a nord lungo la riva sinistra della Bistrica, improvvisamente i monti sembrano chiudersi e due alti pioppi segnano il confine aldilà del quale ci si addentra verso la strada che conduce in Montenegro: comincia qui la parte più sacra della Metohija.
Dal punto di vista geopolitico, è sufficiente menzionare la relazione del generale Friedrich Beck, presentata allo Stato Maggiore delle forze austroungariche nel dicembre 1895, nella quale viene sottolineata l’importanza del Kosovo e Metohija quale zona chiave per il controllo strategico dell’intero spazio balcanico.
Attualmente, non a caso, sorge a Urosevac (Kosovo meridionale e base principale dell’UCK) al confine con la Macedonia, la più grande base militare statunitense in Europa, Camp Bondsteel, essenziale per vigilare sul percorso degli oleodotti petroliferi e dei corridoi energetici.
Il cuore del territorio, in senso storico, coincide invece con Kosovo Polje (nome slavo che significa “Campo dei Merli”), che a causa degli eventi fatali di cui fu teatro acquistò presto un posto e un’importanza particolari nella memoria dei suoi abitanti.
In particolare, il leggendario scontro tra le forze serbe raccolte intorno al principe Lazar e l’esercito turco, guidato dal sultano Murad I, che nella battaglia del 15 giugno 1389 costò la vita ad entrambi.
Nel contesto della storia artistica della Serbia medievale, le chiese del Kosovo e Metohija (circa 1.300), per numero e caratteristiche, costituiscono la parte più importante del patrimonio risalente all’epoca dell’irresistibile ascesa di quello Stato, durante la prima metà del XIV secolo.
Nelle sue città vengono ospitate le residenze dei sovrani, mentre i capi spirituali stabiliscono la loro cattedra a Pec, inizialmente possedimento distaccato dell’Arcivescovato; l’esempio degli alti dignitari ecclesiastici indusse i monarchi serbi a costruire sul territorio del Kosmet – nel quale avevano del resto trasferito il nucleo amministrativo - edifici monumentali dove avrebbero dormito il riposo eterno.
In Kosovo nascono eminenti famiglie feudali, i Susic, i Brankovic, i Lazarevic, che vi conservano i possedimenti ereditati dai propri avi anche in periodi posteriori allo splendore dello Stato serbo medievale.
Gli ampi territori occidentali di questa regione prendono appunto il nome dal termine greco ta metocia, da cui Metohija, “podere della Chiesa”; qui sorge la maggior parte delle chiese e dei monasteri contenenti affreschi e dipinti di valore e importanza universali.
Anche dopo la tragedia di Kosovo Polje, dove perì la quasi totalità dell’ aristocrazia serba, gli archivi ufficiali turchi del XVI secolo registrarono in Kosmet una netta maggioranza di cristiani rispetto ai musulmani (Turchi e Albanesi convertiti), all’interno della quale i Serbi rappresentavano il 97% del totale.
Solo dopo che gli Austriaci ebbero portato le loro armate fino a Belgrado, suscitando un’estesa rivolta popolare antiottomana e le conseguenti violentissime rappresaglie dei Turchi, sostenuti dagli Albanesi, il patriarca Arsenio decise di condurre decine di migliaia di Serbi dal Kosovo verso la loro attuale capitale oltre la Sava e il Danubio, nella regione che avrebbe preso il nome di Vojvodina.
Si tratta della Velika Seoba, la “Grande Migrazione” del 1690, che replicata da quella verso la Sirmia del 1737, alterò in maniera decisiva la composizione etnica del Kosmet.
Nei primi decenni del ‘700 gli Albanesi, che abitavano le zone circostanti del Kosovo, montanari dell’Albania del nord est e clan di fede islamica cominciarono a scendere massicciamente dalle montagne nelle aree coltivate di questa pianura, dove – col beneplacito dei Turchi – occuparono i vuoti lasciati dai Serbi.
La svolta numerica, dovuta anche alla forte prolificità albanese, arriva alla fine del 1800; nel 1899, la percentuale dei Serbi rimasti era del 43,7%, quella degli schipetari del 47,8%.
Il legame con il Kosmet rimase però indissolubile nel cuore dei Serbi e trovò spazio nella loro poesia e letteratura epica.
Dopo l’indipendenza ottenuta nel 1882, la Serbia grazie alle guerre balcaniche del 1912 riprese anche il Kosovo e Metohija, che fu temporaneamente spartito tra le forze dell’Asse dal 1941 al 1945 durante l’invasione della “prima” Jugoslavia.
Quando nacque il regime della “seconda” Jugoslavia alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Tito varò una nuova Costituzione il 21 febbraio 1974, in base alla quale gli Albanesi del Kosovo vennero elevati al rango di nazionalità.
Le percentuali relative alla presenza delle due etnie, nel frattempo, erano continuate ad allargarsi; 64% di Albanesi e 28% di Serbi nel 1953, 67% e 28% nel 1961.
Gli anni che vanno dal 1974 al 1989 videro un’ulteriore forte emigrazione dei Serbi che vivevano in questa regione verso le altre repubbliche jugoslave o all’estero; essi si sentivano ormai cittadini di serie B rispetto agli Albanesi che avevano l’ultima parola su tutto (giustizia, università, commercio, industria …) e cominciavano a costruire un proprio sistema statale parallelo a quello jugoslavo.
Sarà il presidente Slobodan Milosevic, nel 1989, a riformare questo regime di autonomia, eliminando alcuni degli articoli più difficili da sostenere nell’architettura della rinnovata Federazione jugoslava, in particolare la norma relativa al diritto di veto che l’Assemblea del Kosovo e Metohija poteva porre sulle decisioni legislative del Parlamento serbo quando invece l’analoga opzione era negata a quella di Belgrado.
1.2 La distruzione della Jugoslavia.
In circa 10 anni le forze atlantiste hanno portato a termine la distruzione della Jugoslavia che non serviva più quale baluardo geopolitico contro l’espansionismo della Germania in Europa, divenuta paradossalmente dal 1989 al 1999 l’alleato principale di Washington nel nostro continente.
L’ostilità recondita degli Stati Uniti nei confronti della Serbia è riassumibile in tre motivi fondamentali.
A) Il desiderio del Pentagono di espandere la NATO ad Est si scontrava con l’ostacolo rappresentato da un esercito, quello jugoslavo, ben armato ed addestrato, in gran parte controllato da ufficiali serbo-montenegrini che non nutrivano alcuna simpatia nei confronti dell’Alleanza Atlantica.
B) Il governo di Slobodan Milosevic, soprattutto durante la sua alleanza con il Partito Radicale, aveva dimostrato una certa ostilità al programma di privatizzazioni e ristrutturazioni aziendali “suggerite” dal Fondo Monetario Internazionale e dagli altri organi mondialisti; esso si poneva poi l’obiettivo di entrare nell’Unione Europea senza prima aderire alla NATO, al contrario di quanto avevano fatto Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca.
C) La predisposizione storica dei Serbi a non essere controllati, il loro naturale desiderio di libertà che li porta a rifiutare meccanismi di condizionamento totalitari che spesso altri popoli accettano passivamente.
Anche se i contatti tra la Cia, i servizi segreti tedeschi e l’UCK, risalgono al 1990, solo nel 1998 si diede fuoco alle polveri e iniziarono violente azioni di provocazione volte a suscitare la reazione della polizia di Belgrado.
Il tradizionale sentimento di dignità nazionale spinse Milosevic a rifiutare l’ultimatum di Rambouillet, che implicava la totale occupazione della Serbia ad opera delle truppe dell’Alleanza Atlantica, per giunta a spese dell’esecutivo jugoslavo.
Nonostante 78 giorni di bombardamenti e una coalizione bellica composta da ben 18 paesi, la guerra scatenata nel marzo 1999 fu tutt’altro che un successo per la NATO, la quale riuscì ad entrare in Kosovo e Metohija solo dopo il ritiro dell’Armata comandata dal generale Nebojsa Pavkovic.
La Risoluzione 1244 delle Nazioni Unite confermava la sovranità serba sul Kosmet e permetteva, in teoria, a un limitato numero di soldati jugoslavi il rientro nella regione contesa.
Entrambi i punti sono però stati praticamente disattesi.
Sotto gli occhi di un immobile contingente militare occidentale, dispiegatosi perdipiù con l’autorizzazione dell’ONU, circa 250.000 Serbi e altre minoranze non albanesi venivano costretti ad abbandonare il Kosovo e Metohija per sfuggire alle persecuzioni dell’ex UCK, che già avevano provocato circa 3.000 vittime tra morti e dispersi.
Oltre 150 chiese e siti religiosi ortodossi venivano distrutti durante i disordini, per poi conoscere una breve ma tragica replica nel marzo 2004, quando altri 36 luoghi sacri e 730 case appartenenti ai Serbi e alle altre minoranze subivano i roghi della pulizia etnica operata dagli Albanesi.
Oggi solo 120.000 Serbi rimangono in Kosovo e Metohija, la metà dei quali concentrata nella città di Kosovska Mitrovica, simbolicamente divisa in due dal ponte sul fiume Ibar e presidiata dal contingente militare francese.
Le altre enclavi serbe, specie quelle del Sud a Strpce, Brezenovica, Vitina, Gracanica, Gnjilane … vivono una situazione di costante assedio da parte di una maggioranza albanese che reclama a gran voce l’indipendenza di questa regione dal governo di Belgrado.
Ma se la Risoluzione 1244 è stata disattesa e ha impedito alle truppe serbe di rientrare e proteggere la propria minoranza, non miglior sorte è toccata all’altro punto – fondamentale - che Milosevic era riuscito a strappare durante la mediazione decisiva condotta dall’allora premier russo Viktor Chernomyrdin.
Gradatamente la sovranità di Belgrado sul Kosovo e Metohija è stata erosa dall’amministrazione provvisoria della cd. Comunità Internazionale, che ha così realizzato una situazione di stallo che scontenta entrambe le parti.
Se il processo d’indipendenza sembra ormai avviato, in virtù anche delle pressioni della potente lobby albanese a Washington, la mafia schipetara di Pristina (affiancata dai boss provenienti in massa da Tirana) cerca continuamente di guadagnare potere rispetto alle strutture politiche delle Nazioni Unite.
Il Kosovo e Metohija è in procinto di trasformarsi nel primo Stato di narcotrafficanti del mondo, proprio sul fianco sud dell’Europa, approfittando del malfunzionamento delle forze di polizia (KPS) e del sistema giudiziario locale.
La droga proviene dall’Afghanistan, passa in Asia centrale e in Turchia attraverso la mafia turca e cecena, viene trasformata in una dozzina di laboratori in Macedonia e soprattutto in Kosovo, dove ogni giorno si producono 15 tonnellate di stupefacenti, delle quali la maggior parte è poi avviata sulle strade del Vecchio Continente attraverso l’Albania, la Bulgaria e la Serbia.
Questa mafia si occupa anche del traffico di fanciulle e minori: a Pristina, la capitale, si contano 122 importanti bordelli e 290 sono sparsi in tutta la provincia.
Ma nel Kosovo e Metohija sono anche altre le ricchezze che si vogliono depredare.
Trascurando gli affari personali di Madeleine Albright, Wesley Clark e William Walker con la telefonia mobile e i pneumatici, fanno gola soprattutto le miniere di Trepca vicino a Zvecan (ricche di zinco, argento, oro e cadmio), adocchiate da George Soros e contese da Francesi e Britannici.
La centrale termica di Obilic (non lontana da Pristina) che fornisce elettricità a tutto il Kosmet, il complesso produttivo della birra di Pec, il comparto alberghiero del Grand Hotel di Pristina e di Brezenovica, la Ferronickeli … rappresentano società pubbliche in via di privatizzazione, processo economico dal quale però il governo di Belgrado viene tenuto a debita distanza.
Gli ultimi dati ufficiali mostrano un tasso di disoccupazione altissimo (oltre il 43%), la libertà di movimento e di accesso al lavoro per le minoranze non è garantita, mentre viene negato qualsiasi diritto previdenziale maturato dai pochi Serbi rimasti in questa terra, magari dopo oltre vent’anni di vita sociale d’impresa.
Se gli Standards for Kosovo voluti dall’UNMIK nel dicembre 2003, secondo i quali il Kosovo deve essere una società multietnica, basata sulla democrazia, la tolleranza, la libertà di movimento ed un accesso alla giustizia uguale per tutti indipendentemente dalla propria confessione religiosa, sono le condizioni minime per la definizione del suo status finale, allora bisogna concludere che il Kosmet non è certo pronto per l’indipendenza.
3.1 Kosovo e Metohija: indipendenza o integrazione eurasiatica?
Tutti gli indicatori politici ed economici - beneplacito della Comunità Internazionale, debolezza dell’attuale esecutivo di Belgrado, assoluta preponderanza numerica albanese – farebbero allora sentenziare che il Kosovo e Metohija si stia per avviare verso l’indipendenza dalla Serbia, alfine di consolidare l’attuale amministrazione congiunta tra la NATO e la mafia schipetara.
Sarebbe il naturale epilogo del progetto geopolitico candidamente ammesso dal generale britannico Michael Jackson, che già il 12 aprile 1999 aveva previsto: “Resteremo sicuramente a lungo anche per tutelare la sicurezza dei corridoi energetici che passeranno attraverso questo paese”.
Egli si riferiva al Corridoio n. 8, cioè all’asse est-ovest che dovrà convogliare con le pipelines le risorse energetiche dell’Asia centrale dai terminali del Mar Nero al Mar Adriatico, saldando l’Europa all’Asia.
Abbinato al taglio della navigazione sul Danubio che la NATO aveva ottenuto bombardando i ponti in Vojvodina, il Corridoio n. 8 sbarra la strada Vienna-Budapest-Belgrado-Salonicco e spezza lo stretto legame tra la Grecia e la Serbia ortodosse, aprendo un ponte terrestre alla Turchia in direzione dell’Italia.
La recente indipendenza del Montenegro, che permetterà alla flotta statunitense di ancorare nelle Bocche di Cattaro e nel porto di Bar, completa questo dispositivo in chiave antirussa.
Che il Cremlino abbia colto in pieno l’importanza della partita è testimoniato dalle dichiarazioni del presidente Vladimir Putin, riportate dall’agenzia “Beta” il 09/10/2006: “La Russia non concederà il suo appoggio alla totale indipendenza della regione, una posizione che continuerà a sostenere anche all’interno del Gruppo di Contatto e presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, auspicando che se necessario le trattative tra le due parti continuino anche nel 2007”.
L’esecutivo di Mosca avrebbe in tal senso raggiunto un accordo con il governo di Kostunica, stante anche il suo interesse per l’acquisto della Nis Petroleum e la sua intenzione di costruire un gasdotto da 800 milioni di euro che dovrebbe collegare Russia e Serbia, allo scopo di evitare i problemi energetici verificatisi durante la crisi dello scorso inverno per colpa dell’Ucraina.
Lo smantellamento della Jugoslavia non è stato d'altronde che la prova preliminare del progetto di Zbigniew Brzezinski volto a smontare la Russia in tre parti e ridurla all’antico ducato di Moscovia senza la Siberia.
L’organizzazione “Otpor”, finanziata dagli angloamericani durante il golpe contro Milosevic, ha fatto seguaci proprio nella Georgia di Michael Saakashvili con “Kmara”, in Ucraina con “Pora”, in Bielorussia con “Zubr”, in Kirghizia con “Kelkel” e nella stessa Mosca con “Oborona”.
Ma anche per l’Unione Europea l’indipendenza del Kosmet rischia di rivelarsi un pessimo affare.
Un’eventuale proclamazione da parte albanese, provocherebbe l’immediata risposta da parte dei Serbi del nord, che intraprenderebbero la secessione delle città da loro controllate a partire da Kosovska Mitrovica; essi potrebbero poi trovare sostegno da parte del nuovo governo di Belgrado, visto che le elezioni politiche previste per il dicembre 2006 garantiscono una forte affermazione del Partito Radicale.
A ruota seguirebbe un’analoga dichiarazione dei Serbi di Bosnia, che già hanno raccolto decine di migliaia di firme per staccarsi dalla federazione croato-musulmana di Sarajevo; tumulti e incidenti scoppierebbero nel sud della Serbia ad opera degli Albanesi che agiscono armati nella valle di Presevo, a Bujanovac e Medvedevo.
Questi ultimi si ricollegherebbero alle bande che da anni cercano di destabilizzare la Macedonia, il Montenegro, il Sangiaccato e la Chameria, regione nel nord-ovest della Grecia.
I Balcani sarebbero nuovamente in fiamme e l’intera Europa conoscerebbe una brusca frenata al suo percorso d’integrazione strategica; le stesse relazioni con la Russia ne risulterebbero probabilmente danneggiate.
Fermo restando che un’eventuale spartizione del Kosovo e Metohija sembra oggi rifiutata sia a Pristina che a Belgrado, un’alternativa realistica sarebbe quella di assicurare a questa regione uno statuto speciale, che garantisca sia i desideri autonomistici degli Albanesi sia la tutela delle minoranze e dell’immenso patrimonio artistico-religioso che la caratterizza.
Un’opzione diversa a una decisa presa di posizione dell’Europa, che forse per la prima volta nella sua storia si è assunta con la missione in Libano responsabilità da grande potenza, significa lasciare precipitare il Vecchio Continente in una spirale di odi e guerre etniche che ne pregiudicherebbero la futura costruzione eurasiatica.
Nella speranza, per usare le parole del commissario per l’allargamento alla Unione Europea, Olli Rehn, che “Il Kosovo non sarà il 51nesimo Stato degli USA, piuttosto un futuro Stato dell’Unione Europea”.