Democrazia in terapia intensiva
di Lorenzo Merlo - 28/08/2019
Fonte: Il giornale del Ribelle
Non saprei da dove avviare la questione. Provo con una domanda. Chiedo, “È democrazia il popolo da un lato e il parlamento/governo dall’altro?” Domanda elementare la cui risposta è chiara ed univoca a chiunque. Fatto salvo a chi, invece dei principi democraticamente ovvi, preferisce la dialettica politica fino all’eventuale contratto col nemico. Se unire forze prive di consenso sia cosa costituzionalmente prevista non sposta l’importanza della questione. Effettivamente le due posizioni – tra chi inorridisce a immaginare un governo estraneo al consenso popolare e chi no – sebbene inconciliabili nei loro principi, sono entrambe disponibili agli uomini. A quale verità vogliamo appartenere? All’ambito popolare che non ha più nulla da spartire con quello dei loro rappresentanti? Sembra un’imbecillità chiederselo, ma non lo è. Sono decenni che si osserva il crescendo della distanza tra le due parti. Ma è soprattutto la conseguenza implicita – anzi maledettamente esplicita – che dovrebbe iniziare ad essere presa popolarmente in esame: la democrazia è certamente stata concepita, ma è mai nata? La sua promessa quanto è stata mantenuta? Quanto ha fallito? O è abortita? In ogni caso, la teniamo attaccata al polmone artificiale. Ci si prodiga ad allungarne l’agonia. Questioni affettive? Paura di perderla? Nella speranza si riprenda? Eppure da un punto di vista funzionale, non c’è più niente da fare. Stato vegetativo si direbbe personificandola. La nuce che conteneva non diventerà realtà. Comprensibilmente ci si esalta nei momenti in cui sussulta. Ma a questo punto sembrano più diversivi pilotati, assi che escono dalla manica del grande joker piuttosto che salute effettivamente riconquistata.
Allora torniamo alla domanda tanto elementare quanto fondamentale. È democrazia il popolo da un lato e il parlamento/governo dall’altro? Anche se ha una risposta per molti univoca, è obbligata. Va posta, per riflettere, per svegliare, per creare il necessario che la scongiuri, per prendere coscienza che il lavoro è lungo e smettere di pretendere e accontentarsi di risultati immediati. Noi del popolo dobbiamo porcela e avviare processi privato-politici utili alla salute della moribonda democrazia. Dobbiamo porcela e darci da fare per evitare di essere collusi con il suo funerale. Al quale si accoderanno uomini scesi da ogni lato del parlamento.
“Per il bene dell’Italia”. È la risposta di coloro che ritengono che la democrazia sussista anche separata dal consenso popolare, assoggettabile a mediazione. Una prospettiva elastica fino ai lontani confini dell’ossimoro. Mi riferisco naturalmente al principio democratico, non a quanto esiste nel dibattito parlamentare. E proprio in quest’ultimo sono rintracciabili i virus del do ut des, malattia degenerativa della mercificazione e compravendita dello spirito che ha costretto la democrazia al reparto Terapia Intensiva. Niente compromessi allora? Parlamento inutile? No. Rinunciare alla propria modalità di esecuzione di un progetto politico, accomodarla dopo aver ascoltato altre parti fa parte della dialettica. Rinnegare le promesse e gli impegni, svendere la propria idea politica, privilegiare l’interesse personale, imbrogliare il prossimo è altra cosa. È mercificazione di sé. È incompatibile con l’idea di democrazia che media e istituzioni seguitano a venderci. “Per il bene dell’Italia”, passo-passo si è arrivati a stringere accordi con élite che non ci riguardano; a dimenticare a chi si era stretto la mano. Ai tempi, un gesto che valeva come la ceralacca, oggi, il tempo che trova. Chi s’è visto, s’è visto. O, meglio, business is business. Una formuletta magica onnipotente adatta a tutti i tavoli di lavoro, a mitigare tutti i mali, salvo non siano etici. In sostanza siamo immersi nel genere – sì, come per i tipi di programma tv – democratico-mediatico. Del resto, nella società dello spettacolo sempre più citata in questi ultimi anni, è più opportuno riferirsi ai generi che non a progetti politici di lunga prospettiva. Dalle sue trincee di raso, chi dispone della comunicazione combatte una guerra che non perderà mai.
Ma anche noi partecipiamo al degrado. Chi vuole più aspettare? Dopo aver vissuto la Milano da bere, dopo aver visto il trionfo dell’edonismo individualista. Una spaccatura profonda della tradizione culturale italiana e molto milanese che aveva coperto di gloria sonante e in tempi brevi, schiere di giocatori in borsa e rampanti consulenti finanziari. Che questi avessero sostanzialmente derubato il loro prossimo, era cosa da soprassedere, la legalità glielo permetteva. Loro incassavano, gli altri piangevano. Meglio più furbi che più buoni. Era la nuova era, il nuovo equilibrio. Dove, anche a cercarla, non c’era più parsimonia, frugalità, senso della vita. Il piacere immediato aveva sostituito quello della pagnotta guadagnata. I media, di quello parlavano, mica dei poveracci. Con gli strilli dedicati ai nuovi ricchi vendevano. Nessuno di loro aveva letto fino in fondo la leggenda del re Mida. C’era solo da aspettare. La realtà gliela avrebbe servita. Da lì, da quel punto, passaggio chiave di una via verso la giustizia sociale, la direzione della democrazia ha cambiato rotta. “Novanta a dritta” è stato l’ordine silente e convincente arrivato dalle eminenze ai capitani. Solo così avrebbero raggiunto il porto giusto. Al diavolo le alte vette della purezza. Ad attendere l’equipaggio festante c’erano gli oligarchi dell’ammiragliato. I capi della grande flotta che solca tutti i mari del mondo erano in banchina ad attenderli. In pochi semplici esami i nostri uomini hanno superato le richieste della commissione. Manco a dirlo i commissari erano tedeschi, francesi, americani, generali e qualche anonimo, che ha preferito rimanere nell’ombra. Democraticamente la democrazia ha così camuffato – o cancellato? – se stessa. Sì, perché se si tolgono gli elettori dalla scena resta un giochetto per pochi oligarchi. Maestri del vincere facile. Le scelte dei nostri prodi vassalli li avevano portati a giurare fedeltà a corone superiori con le quali il doppio gioco non è neppure pensabili. Così, per mantenere la nuova, edulcorata ma posticcia libertà, si attengono al giuramento che le hanno dovuto prestare. Quell’altro, compiuto con i loro elettori, che vuoi farci, complicava troppo le cose. Girala di qui e girala di là, chi vuole ancora credere nella democrazia almeno faccia mente locale e si chieda se è in corso – per essere gentili – una sua parabola discendente. Se non siamo arrivati fin qui sospinti avanti, come l’asino, dalla carota democratica. Quelli che invece ne hanno già visto l’arco ormai spento oltre l’orizzonte della giustizia sociale, del bene comune, della lungimiranza, dell’identità culturale con cui allevare i nostri figli, di un progetto condiviso per il quale rimboccarsi le maniche e strapparsi di dosso i lamenti dei bottegai – come successe per il boom economico – speriamo rimangano calmi e caccino via idee violente e dinamitarde.