Un fantasma americano a Stoccolma
«Ero senza un soldo ma con prove inconfutabili sulla persecuzione che mi aveva colpito. Ho chiesto asilo politico. Ma sono americano, e gli Usa sono considerati un paese sicuro, cioè un paese che, per definizione, non può produrre profughi. Così è iniziato un lungo viaggio nella clandestinità. Ho vissuto come dentro un tunnel buio. Uscirne è stato come ritrovare la vita» «Negli Usa ero un uomo d'affari politicamente attivo. Vivevo in Connecticut e guadagnavo un milione di dollari.
Lo sparo ruppe la quiete di un tranquillo pomeriggio in Connecticut e, nello stesso momento, un segmento del finestrino posteriore della mia auto esplose verso l'interno. La pallottola mi sfiorò l'orecchio destro. Questo episodio, insieme ad altri analoghi, segnava l'inizio di un viaggio di nove anni che è giunto ora al termine.
Era il 19 luglio 1998 quando il più grande quotidiano del mattino svedese, il Dagens Nyheter, titolò: «Rifugiato Usa ha bisogno della nostra protezione». Il sommario recitava: «Chiese e organizzazioni in subbuglio: la Svezia sta esponendo Ritt Goldstein alla vendetta della polizia americana». Nell'articolo si leggeva che il mio unico «crimine» era stato l'aver fondato un movimento contro la brutalità della polizia, e che per ritorsione ero stato fatto oggetto di violenza e aggressioni con armi da fuoco. I più importanti giornali, dall'Italia alla Finlandia, si erano occupati del mio caso. Fuga dall'America
Negli ultimi nove anni ho vissuto un'esistenza clandestina in Svezia per sottrarmi ai rischi cui mi avrebbe esposto una deportazione negli Usa. Ciò ha significato nove anni vissuti da fuggitivo, un giorno dopo l'altro. Ma il 2 ottobre l'ufficio immigrazione svedese ha preso atto di quelle che sono state sintetizzate come le «speciali circostanze» che mi hanno visto protagonista, concedendomi la residenza permanente in Svezia. Prima che qualcuno mi sparasse, un pezzo dello sterzo della mia macchina è stato deliberatamente disattivato, facendomi perdere il controllo della vettura. Quella è stata un'altra esperienza di «quasi morte». Ancora prima, un anonimo telefonista mi aveva detto semplicemente: «Sei un uomo morto», poi aveva riagganciato.
In quel periodo stavo conducendo una battaglia non violenta per costringere la polizia a rendere conto dei suoi comportamenti. Un tempo scrivevo leggi, non articoli. Ma molti funzionari di polizia erano ostili ai miei sforzi: fui ripetutamente minacciato e aggredito.
Dopo aver subito gravi molestie per anni, nel luglio del 1997 sono fuggito in Svezia e ho chiesto asilo politico. Dovevo scegliere tra l'esilio e la morte. Negli Usa ero stato un uomo d'affari politicamente attivo, con un utile netto di circa un milione di dollari. Avevo presieduto un'audizione nel parlamento del Connecticut sul problema dell'impunità della polizia, e il mio lavoro era salutata con favore dai media. Ma la mia casa e i miei uffici furono resi inabitabili per una ritorsione contro l'audizione, e le minacce di morte uccisero la vita che un tempo avevo condotto, e per poco non uccisero anche me.
Vivevo in Connecticut, passavo lì la maggior parte del mio tempo, ma la portata del mio lavoro si estendeva a livello nazionale. Ero vicino a un' audizione del Congresso sul problema dell'impunità della polizia quando fui costretto a fuggire. Nei mesi precedenti la mia fuga disperata, a volte fui aggredito più di venti volte al giorno con armi chimiche della polizia come il Mace e lo spray al peperoncino. In alcune occasioni, i miei aggressori si allontanarono ridendo.
Fuggii in numerosi stati degli Stati Uniti, ma fui trovato e aggredito. Un detective privato scoprì che la mia macchina emetteva segnali elettronici grazie ai quali potevo essere rintracciato e seguito. Arrivai in Svezia quasi senza un soldo, ma con una quantità infinità di prove che documentavano la mia situazione. Tecnicamente, la persecuzione di cui ero vittima mi qualificava come profugo. Ma sono americano, e gli Usa sono considerati un «paese sicuro», cioè un paese che, per definizione, non può produrre profughi.
Come un portavoce dell'ufficio immigrazione svedese disse alla Reuters nel 1998, le mie domande iniziali per avere la residenza in Svezia furono respinte perché la persecuzione che subivo era commessa «da singoli poliziotti e non era autorizzata dalle autorità di polizia». La sezione svedese di Amnesty International scrisse che questa motivazione per il rifiuto oppostomi dall'ufficio immigrazione violava la legge svedese. In seguito, una sessione plenaria del Parlamento europeo approvò un rapporto in cui si affermava: «Casi recenti hanno dimostrato che singole persone meritevoli di asilo possono vederselo negato perché provengono da un paese d'origine sicuro. Al cittadino statunitense Ritt Goldstein è stato negato il diritto d'asilo in Svezia con la motivazione che gli Usa sono un paese sicuro, nonostante il fatto che egli ha subito una persecuzione in quel paese».
Anche nella loro attuale decisione di concedermi la residenza permanente, le autorità svedesi reiterano la loro convinzione che agli Usa non manchino né la volontà, né le risorse per proteggere i propri cittadini. Perciò sarebbe un «paese sicuro».
Nell'attuale contesto politico, molti ritengono che un cittadino americano possa fuggire in Europa solo attraverso la regolare procedura di immigrazione del paese prescelto. In altre parole: «niente profughi dagli Usa». I nove anni che ho appena trascorso clandestinamente dovrebbero servire a confermare questo. Vita clandestina L'anno dopo il mio arrivo in esilio Amnesty International e Human Rights Watch pubblicarono dei rapporti in cui si denunciava il fatto che non esiste una chance ragionevole di poter ricevere un risarcimento per la brutalità della polizia Usa. Il rapporto di Human Rights Watch, «Shielded from Justice», afferma esplicitamente che gli episodi di violenza avvengono con una «virtuale impunità».
Nel settembre del 1997, l'ufficio immigrazione svedese ordinò la mia espulsione dal paese, costringendomi alla clandestinità per sottrarmi alle violenze da cui ero appena scappato. Per tanti anni, semplicemente, non sono esistito ufficialmente.
Ho finito per sentirmi un fantasma che si aggirava tra i vivi. Ero visibile, potevo persino essere toccato, ma non esistevo, e non avevo un futuro se non una morte prematura. Ma qualcuno ha ritenuto che la mia vita meritasse di essere salvata.
Dopo il mio arrivo, nel corso degli anni, il mio caso è stato sollevato da una quantità di figure politiche, religiose, e della società civile, sia in Svezia che all'estero. Recentemente ero informato che il mio sostegno politico interno era senza precedenti. Ma l'uragano dell'11 settembre ha spazzato via la questione dei diritti umani, trascinando via con sé il mio destino. L'avvocato che mi ha assistito per tanti anni, Sten De Geer, mi è stato accanto sebbene in alcuni momenti la nostra speranza che potessi ricevere la residenza - quella residenza che ora mi è stata concessa - era svanita. Dalla primavera del 2004 all'estate del 2005, dubito che sia passato un solo giorno senza che pensassi al suicidio. Esistevo con un nome falso, spesso non potevo soddisfare le più elementari esigenze di vita. La casa, le cure mediche, un telefono, un lavoro, persino ricevere la posta - tutto diventa pressoché impossibile se non si esiste ufficialmente. Ma, in un modo o nell'altro, sono riuscito a sopravvivere. Vivevo a Stoccolma e cercavo di costruire una rete di relazioni che mi permettesse di trovare persone disposte ad aiutarmi. Ma le "difficoltà" che spesso si incontrano vivendo in queste condizioni potrebbero riempire un libro. Ritorno alla luce Più di un anno fa, la difficoltà di trovare un alloggio mi ha costretto a trasferire tutti i miei averi sette volte in un mese. Ho rinunciato al giornalismo e mi sono trasferito in una cittadina tranquilla in campagna. E allora è arrivata la speranza.
Da quando avevo lasciato Stoccolma, era in corso una campagna per ottenere una «amnistia» generalizzata per tutti i profughi clandestini. Questa battaglia era guidata dalla chiesa svedese nella persona di uno dei suoi vescovi più importanti, Claes-Bertil Ytterberg, che mi ha sempre sostenuto. L'amnistia è stata poi approvata in una forma limitata, pensata per le famiglie con figli. Le mie circostanze non vi rientravano, ma ci sembrò che la cosa migliore da fare per regolarizzare la mia vita fosse presentare comunque una nuova domanda.
Su forte sollecitazione del mio avvocato, lo feci. Speravo anche in una soluzione positiva, mentre mi preparavo al peggio. Dopo così tanti anni passati a nascondermi, era quasi impossibile per me pensare di poter rientrare in possesso della mia vita. Le delusioni erano state troppe. Molti miei sostenitori nel partito dei Verdi e nel Partito della sinistra - due dei tre partiti della coalizione recentemente al governo in Svezia - hanno fatto tutto ciò che era in loro potere affinché «l'impossibile» accadesse. E da Bruxelles la baronessa inglese e parlamentare europea Sarah Ludford, relatrice nel 2001 di un rapporto di una commissione del parlamento europeo che chiedeva all'ufficio immigrazione svedese di «ripensarci», chiese ancora una volta che si trovasse una soluzione. Il 6 ottobre, uno dei miei coinquilini mi ha riferito che il mio avvocato mi aveva cercato. In passato questo aveva significato cattive notizie, e ho pensato subito che fosse sorto un nuovo problema. Quel giorno non sono riuscito a parlarci. Il giorno successivo ho chiamato un amico nei Verdi svedesi. Lui mi ha chiesto se avevo parlato con l'avvocato; gli ho risposto di no. Mi ha detto che era importantissimo. Aspettandomi una cattiva notizia, ho insistito perché mi spiegasse il motivo: mi ha detto che avevo ottenuto il permesso di risiedere in Svezia. Gli ho chiesto di ripetere quanto mi aveva appena detto, e lui l'ha fatto. Con la voce che mi tremava, gli ho chiesto se stava scherzando. Lui mi ha assicurato di no. L'ho ringraziato come meglio ho potuto e ho chiamato Sten De Geer. Avevo gli occhi umidi e non riuscivo quasi a parlare. Qualche attimo dopo De Geer mi ha confermato la notizia.
Il momento è stato davvero emozionante per tutti e due. Lui aveva lavorato al mio caso per sette anni, e quasi sempre gratis. Non riuscivamo a trovare le parole. In seguito lui ha detto che, se c'è una morale da trovare in ciò che è successo, questa è: «non mollare mai». Non più un fantasma, ora sono «tornato alla vita».
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