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Gli otto simboli di buon auspicio del buddhismo tibetano

di Paolo Roberti - 03/11/2006

 

 

 

 

 

Siddharta Gautama, principe nepalese figlio del re degli Sakya, vissuto nel VI secolo a.C., fu chiamato il Buddha ossia il Risvegliato, l’Illuminato dopo aver raggiunto l’Illuminazione Suprema, aver conquistato per sempre la pace suprema del Nirvana ed essersi con ciò liberato dal ciclo delle rinascite.

Siddharta Gautama non fu un Dio sceso fra gli uomini per riscattarli e redimerli, fu un uomo che con le sue proprie forze, compì un’ascesi che lo condusse fino al divino. Da questo punto di vista il Buddhismo è più una filosofia che una religione non affermando l’esistenza di un Dio trascendente che ha creato una volta per tutte questo universo e noi stessi, ma postulando che l’universo in cui viviamo è eterno anche se attraversa periodi ciclici nei quali non appare sempre nella stessa forma e che ricordano la teoria dell’universo pulsante della più recente scienza cosmologica.

A differenza però degli ordinari sistemi filosofici e in armonia con tutte le grandi religioni cui si affratella, il Buddhismo propugna una dottrina che prevede la possibilità dell’Illuminazione totale la quale comporta l’ottenimento della Pace Suprema e la Liberazione dall’obbligo del ciclo delle rinascite. Insegnando la propria Dottrina (Dharma) (1) il Buddha ha indicato agli uomini, monaci o laici che siano, la Via e il modo per giungere laddove lui stesso è giunto.

 

 

IL DOPPIO SCETTRO o VISVAVAJRA

 

 

Vajra in sanscrito significa sia folgore che diamante. Con ciò si vuole indicare l’essenza purissima, luminosa, indistruttibile, prima e ultima di tutte le cose.

Il vajra deriva storicamente dallo scettro-saetta di Indra, la più alta divinità dei Veda, dio del tuono e del firmamento.

Nel Buddhismo Tantrico o Vajrayana (Veicolo o Sentiero del Diamante) il Vajra, in tibetano rDo-rje (Signore delle Pietre) simboleggia l’indistruttibilità, l’eternità e la purezza adamantina e immacolata della Dottrina, la forza del Metodo della Dottrina, la luminosa essenza della vera realtà di tutto ciò che esiste.

Il rDo-rje è il simbolo maschile della Via verso l’Illuminazione, indissolubilmente legato al simbolo femminile che è la campana rituale (in sanscrito ghanta, in tibetano drilbu) che sta a significare la Conoscenza, la Pura Gnosi, la Saggezza Trascendente, la Perfezione della Saggezza (in sanscrito Prajna Paramita), l’Energia-sostanza della manifestazione, la Verità Assoluta (2).

Nel mondo che noi vediamo e tocchiamo ma anche nel mondo più sottile delle energie e delle forze che muovono la materia non vi è, secondo il Buddhismo, nulla di stabile, di perenne, di eternamente duraturo.

 Tutto scorre, si trasforma, muta da uno stato ad un altro incessantemente, da qui il termine samsara che vuol dire il mutamento dello stato fenomenico di contro al nirvana. Questo lento o velocissimo cambiare costantemente delle cose non vale solo per la materia e per le energie che la plasmano ma vale anche per i fenomeni psichici (pensieri, sentimenti, atti di volontà) al centro dei quali sta come un re, giusto o tiranno, il nostro Io, la nostra stessa coscienza di essere, la quale pure non è affatto stabile e sempre identica a se stessa. E’ invece una realtà dinamica in perenne trasformazione, vuoi nell’arco di una stessa vita, vuoi nell’arco di molteplici vite o rinascite nelle quali ciascuno di noi eredita un patrimonio mentale del quale fa però l’uso che vuole.

Ciò fa sì che anche se c’è una reale continuità mentale fra una rinascita e l’altra, non vi sia una identità personale definita e stabilita una volta per tutte ma una personalità in continua evoluzione che può diventare buona, luminosa, divina da cattiva, tenebrosa e demoniaca che era o viceversa.

 Questo eterno cambiare e trasformarsi delle cose, che comporta inevitabilmente un continuo alternarsi di esperienze felici e dolorose del corpo e della mente non è però un meccanismo ineluttabile senza via di scampo. Se ne può uscire, si può fare cessare, interrompere, risalendo a ciò che era in origine, un’origine senza tempo, passando dalla mente comune, alla natura ultima della mente, alla sua essenziale natura o modo di essere che è rappresentato dal visvavajra o doppio scettro.

La cosmologia buddhista tibetana ci insegna che all’inizio di ogni nuova manifestazione ciclica dell’universo, quando non esiste nulla, poiché l’universo precedente è stato riassorbito nel vuoto, la prima manifestazione in assoluto è il visvavajra.

Dal nulla si automanifesta questo puro stato di coscienza che è eterno, perfetto, chiaro, luminoso, assolutamente indistruttibile e inalterabile. Pace perfetta, autocosciente e autorisplendente che è anche la natura ultima della mente, della nostra stessa mente: questo è lo stato che raggiunse il Buddha, questa è la nostra vera natura e la vera natura di ogni essere senziente.

Il visvavajra o doppio vajra ha quattro punte che irradiano da un unico centro per indicare che da uno stato assolutamente perfetto e puro come il diamante si espandono in tutte le direzioni dello spazio, cioè verso tutti gli esseri senzienti, nel passato, presente e futuro la sua luce e la sua invincibile potenza come folgori.

A questo stato primordiale, a questa essenza adamantina, sempre presente dentro di noi, nascosto dall’agitarsi della nostra mente, dalle gioie e dai dolori, dall’attaccamento e dalla repulsione, dalle paure e dalle speranze, noi possiamo risalire seguendo la Dottrina del Buddha che è rappresentata dalla Ruota del Dharma.

  LA RUOTA DELLA DOTTRINA  o  DHARMACAKRA   

Fig. 3 - Acquerello su carta di autore ignoto (particolare). Fine dinastia Ming (XVI-XVII sec.)

Raggiunto che ebbe Siddharta Gautama lo stato perfetto di Buddha, rappresentato come abbiamo visto dal visvavajra, egli decise che non era giusto tenere per sé il frutto della pratica e il metodo che aveva seguito per acquisire questo stato.

Iniziò quindi a predicare la sua dottrina cioè, come viene detto, fece girare la Ruota del Dharma, o Ruota della Dottrina o della Legge

  Lo fece per la prima volta (3) a Sarnath, non lontano da Benares, l’odierna Varanasi, dove nel Parco delle Gazzelle (che per questo motivo vengono spesso rappresentate sotto la Ruota) enunciò le Quattro Nobili Verità (in sanscrito arya-satya): la Verità della sofferenza, la Verità dell’origine della sofferenza, la Verità della cessazione della sofferenza, la Verità che conduce alla cessazione della sofferenza e l’Ottuplice Sentiero (in sanscrito astangika-marga)  come mezzo per porre fine alla sofferenza e conseguire l’Illuminazione costituito da: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto comportamento, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione.

 

Poiché non si trovano in una condizione stabile e definita, tutti gli esseri senzienti, esseri umani, animali o esseri disincarnati che siano, sono incessantemente esposti alla sofferenza, dalla nascita alla morte.

La causa di tutte queste sofferenze è data dall’attaccamento che noi proviamo verso tutte le cose, per i nostri stati d’animo, principalmente paure e desideri. Quindi per il Buddhismo la sofferenza è condizione ontologica di tutti gli esseri senzienti immersi nel ciclo delle rinascite.

Esiste però la possibilità di porre fine a ogni sofferenza, compresa quella della morte, sconfiggendo i tre veleni principali che sono l’ignoranza, l’ira e l’attaccamento.

L’ignoranza si sconfigge scoprendo quale è la nostra reale natura, cioè quale è la reale natura della mente; l’ira capendo che tutti gli esseri senzienti, essendo carne della nostra carne e avendo una loro stessa reale natura proprio come noi, non vanno prevaricati ma aiutati a scoprirla; infine l’attaccamento si sconfigge comprendendo che non è desiderando questa o quella cosa od emozione che si trova la liberazione dalla sofferenza bensì praticando quanto indicato dall’Ottuplice Sentiero.

La Ruota della Dottrina o Ruota della Legge (in sanscrito dharmacakra, in tibetano chos-kyi-’khor-lo) è il simbolo che racchiude mirabilmente tutto quanto sopra esposto, come ora vedremo.

Nell’India pre-buddhista la Ruota ebbe almeno due significati che qui vogliamo menzionare, quello di arma e quello di simbolo del Sole e per estensione tutti i livelli simbolici ad esso connesso.

Il simbolismo della ruota come arma nel Buddhismo assume il significato di condizione protettiva come parte e strumento delle pratiche rituali tantriche che si avvalgono di un mandala (4)

La ruota è costituita dal mozzo, i raggi e il cerchio: il mozzo sta a significare il motore immobile, l’essenza primordiale della mente; i raggi rappresentano l’Ottuplice Sentiero della pratica per il conseguimento di essa; il cerchio significa il mondo fenomenico e il suo eterno perpetuarsi sino a quando sarà sconfitta l’ignoranza che è la radice della sofferenza.

La ruota rappresenta quindi l’ineluttabilità della legge di causa ed effetto che è alla base della catena delle rinascite e nel contempo la Dottrina che conduce alla liberazione dalla sofferenza.

Un’altra spiegazione del simbolismo del dharmacakra fa riferimento ai tre livelli della pratica buddhista: il mozzo sta per la pratica della disciplina grazie a cui la mente è sostenuta e resa stabile; i raggi stanno per la pratica della saggezza nella comprensione della vacuità di tutti i fenomeni, privi come sono di natura inerente,  per cui addestrando la mente nella saggezza della vacuità l’ignoranza è sradicata; il cerchio sta per l’addestramento della meditazione che sostiene ogni pratica della Dottrina. Spesso sul mozzo è posto il simbolo dei Tre Gioielli (in sanscrito triratna, in tibetano dkon-mchog-gsum) che sono il Buddha, il Dharma e il Sangha che è la comunità dei monaci e dei laici. 

Nel suo insieme il dharmacakra rappresenta  l’insegnamento del Buddha e ci ricorda che il Dharma tutto abbraccia e completa in sé, non ha inizio né fine, ed è nel contempo in movimento e immobile, al di là di tempo e spazio.

Il dharmacakra nel Buddhismo Vajrayana è uno degli Otto Simboli di Buon Auspicio (in sanscrito astamangala, in tibetano bkra-shis rtags-brgyad), chiamati anche Otto Preziosi Simboli.

Gli Otto Simboli di Buon Auspicio costituiscono uno dei più antichi e conosciuti gruppi di simboli della cultura tibetana; essi sono presenti già a partire dai testi canonici del Buddhismo Indiano, cioè nei testi redatti in pali e in sanscrito (5).

 

I seguenti sono gli altri Simboli di Buon Auspicio:

- il Parasole

- i Pesci d’Oro

- il Vaso del Tesoro

- il Loto

- la Conchiglia

- il Glorioso Nodo Senza Fine o Nodo dell’Amore Infinito

- lo Stendardo della Vittoria

 



 

 

IL PARASOLE
 

 

Il Parasole (in sanscrito chattra, in tibetano gdugs) è simbolo della dignità regale e quindi in senso traslato di chi detiene il potere spirituale.

Derivato dall’arte indiana, il parasole ha diverse varianti nell’iconografia tibetana, può essere molto elaborato, giallo, bianco o multicolore, di seta, grande abbastanza da riparare almeno quattro o cinque persone; può essere altresì composto da più parasoli uno sovrapposto all’altro, a più piani, arricchito di stringhe e drappi di seta multicolore con frange, il tutto sorretto da una struttura di legno.

Il parasole simboleggia l’intera attività del Dharma nel proteggere tutti gli esseri senzienti dalla malattia, da ogni ostacolo e forza avversa, dall’ignoranza, dalla sofferenza di questa vita, dalla  rinascita nei regni inferiori  affinché si giunga alla completa estinzione della sofferenza.

 

I PESCI D’ORO

 

Questo simbolo consiste di due pesci d’oro (in sanscrito suvarnamatsya, in tibetano gser-nya) che solitamente sono raffigurati verticalmente e paralleli, o leggermente incrociati con le teste in basso rivolte una verso l’altra. Originariamente in India i pesci rappresentarono i fiumi sacri Gange e Yamuna. Simbolo del Signore del mondo, i pesci d’oro si ritrovano non solo nella tradizione Buddhista ma anche nella religione Jaina; in Tibet essi si trovano solo raffigurati assieme agli altri Simboli di Buon Auspicio.

I Pesci d’Oro simboleggiano l’auspicio di tutti gli esseri senzienti in uno stato di assenza di paura, salvati dal pericolo di cadere nell’oceano della sofferenza e liberi nell’avere acquisito la consapevolezza della natura ultima, così come i pesci nuotano nell’acqua per loro natura liberi.

 

 

IL VASO DEL TESORO
 

Nell’iconografia tibetana il vaso del tesoro (in sanscrito kalasa, in tibetano gter-chen-po’i bum-pa) si riconosce per avere in cima un gioiello. L’uso del vaso risale ai primi giorni del Buddhismo ed è legato agli auspici di esaudimento di desideri materiali. In realtà “il tesoro” si riferisce al “nettare dell’immortalità” che è custodito nel vaso: eternità della Dottrina, il nettare della Conoscenza, dell’acquisizione di poteri spirituali.

Nel Tantrismo Tibetano si usano differenti tipi di vaso a seconda delle diverse pratiche rituali.

 

 



IL LOTO

 



Il loto (in sanscrito padma, in tibetano padma) non cresce in Tibet. Questo dato è oltremodo interessante perché significa che nella cultura e nella religione tibetane il loto è un’acquisizione puramente simbolica che ha unito i popoli al di là e al di qua dell’Himalaya nel rappresentare la più alta visione di Purezza e di Bellezza: lo stelo del loto si erge infatti dalla melma degli stagni e dei laghi per fare sbocciare il fiore, incontaminato e incontaminabile, immacolato e perfetto, sopra la superficie dell’acqua. Il loto è l’unica pianta acquatica che grazie alla forza del suo stelo fa sbocciare il fiore con un numero di petali sempre regolare da otto a dodici, tutti uguali fra loro.

Nella loro simmetria i petali hanno sempre rappresentato il simbolo dell’armonia del cosmo; in questo senso si utilizza il loto nel tracciare mandala e yantra (6).

Straordinari sono i significati simbolici del loto: la melma rappresenta la sofferenza, quanto di oscuro e plumbeo vi è nel mondo, tutto quanto trattiene il nostro essere dall’acquisire quella “chiara visione” che grazie alla pratica incessante (lo stelo) ci permetterà di elevarci sopra tutte le contaminazioni del mondo fenomenico per farlo sbocciare, radioso e immacolato, alla luce della propria consapevolezza. Il loto rappresenta la purezza di corpo, parola e mente, la vera essenza del nostro essere che è rimasta fondamentalmente immacolata malgrado il fango del mondo, essa si realizza solo alla luce della nostra consapevolezza.

Il loto rappresenta la natura di Buddha e nell’iconografia il fiore di loto è il trono di Buddha e di tutti gli esseri realizzati; è anche uno dei principali simboli di Avalokitesvara (in tibetano sPyan-ras-gzig, pron. Cenresi) il Bodhisattva dell’Amore Compassionevole di cui il Dalai Lama è l’incarnazione.

Il loto a otto petali è l’equivalente della ruota del Dharma che ha otto raggi.

Nel Tantrismo i centri dell’energia vitale sono rappresentati come dei fiori di loto a più petali.

Il loto è associato a un aspetto specifico dell’insegnamento o della saggezza , schiuso o in bocciolo, bianco, rosa, rosso e azzurro: il Dalai Lama ha anche il titolo di Signore del Loto Bianco, il loto rosa è simbolo di Siddharta Gautama, il Buddha storico, mentre rosso rappresenta la compassione ed è perciò strettamente associato alla natura dei Bodhisattva, invece il loto azzurro, raffigurato in boccio, è un emblema distintivo di Manjusri, Bodhisattva della Conoscenza Trascendente.

 

LA  CONCHIGLIA


 

La conchiglia con spirale destrorsa (in sanscrito daksinavartasankha, in tibetano dung gyas-‘khyl ), bianca, ovale, termina a punta, gradevolmente grande, non essendo un manufatto, è uno dei più antichi oggetti rituali.

E’ presente come attributo o simbolo di divinità nella cultura brahmanica e induista, come simbolo di femminilità o come vaso o recipiente per il culto ovvero come strumento.

Nel Buddhismo Tibetano è chiamata anche tromba della vittoria ed è particolarmente considerata per il suono potente; come oggetto rituale è usata sia come strumento che come recipiente che come offerta dei sensi. Conchiglie sono usate anche come ornamento per decorare troni, reliquiari, statue.

La conchiglia simboleggia il profondo, omnipervadente, vittorioso suono dell’insegnamento del Dharma che raggiunge le differenti nature, predisposizioni e aspirazioni spirituali di ogni essere nei Tre Tempi della manifestazione e che risveglia dal baratro dell’ignoranza e della sofferenza e richiama a conseguire la liberazione dal samsara.
 

 

IL GLORIOSO NODO SENZA FINE o NODO DELL’AMORE INFINITO

 

 

Il Nodo-senza-fine (in sanscrito srivatsa, in tibetano dpal be’u) è composto da linee chiuse intersecantisi ad angolo retto. E’ spesso associato al srivasta hindu. In origine sembra essere stato un simbolo delle divinità naga (in tibetano klu) divinità che governano i regni sotterranei, le acque, le rocce, i fiumi, i laghi, la pioggia, la fertilità e l’integrità della terra; alcuni di essi sono protettori del Dharma ma possono reagire negativamente contro chi non rispetta i luoghi che abitano; nell’iconografia e nella letteratura tibetana sono descritti come esseri per metà umani e per metà serpenti.

Il Nodo-senza-fine è associato al nandyavarta una variante dello swastika, simbolo primordiale del divenire senza fine. Nella tradizione tibetana il nodo-senza-fine è simbolo anche del modo incessante della manifestazione, l’intersecarsi delle linee ci ricorda come i fenomeni sono interconnessi e dipendenti da cause e condizioni.

Il nodo-senza-fine rappresenta l’unione della Saggezza e del Metodo (tibetano thab-shes zung-‘brel), tantricamente l’unione della energia femminile e di quella maschile, la loro armonica inseparabilità, rappresentando l’amore infinito, la vita infinita, la realizzazione della loro unione.

Dato che il nodo non ha inizio né fine simboleggia l’infinita saggezza e conoscenza del Buddha e l’eternità del Dottrina, del Dharma, nel divenire incessante e perennemente mutevole della manifestazione.

Il nodo-senza-fine è usato non solo in connessione con i Simboli di Buon Auspicio ma anche da solo come il più alto segno di buon auspicio, per esempio posto assieme a un dono o in uno scritto significa la connessione tra chi dona e chi riceve, stabilendo legami per favorevoli circostanze per il futuro, ricordando che ogni effetto positivo e favorevole per noi in futuro ha le sue radici, le sue cause dalle nostre azioni nel presente.
 

 

LO STENDARDO DELLA VITTORIA

 

I concetti di “segno di vittoria”, “stendardo” e “bandiera” corrispondono a vari oggetti nella cultura tibetana che sono in relazione fra loro o per il nome o per la forma.

Lo Stendardo della Vittoria (in sanscrito dhvaja, in tibetano rgyal-mtshan o dkyil-gdugs-ser-po nell’accezione monastica), come il parasole, è fatto di legno, stoffa e seta o riprodotto in metallo.

I vari oggetti correlati al concetto di vittoria si differenziano, per esempio, dall’avere o meno in cima all’asta delle figure di animali simbolici, oppure se la bandiera è curva oppure diritta ecc.

Classicamente lo Stendardo della Vittoria è di forma cilindrica, di struttura lignea, composto da tre livelli con più veli di seta e adornato da nastri dei cinque colori (blu, verde, bianco, rosso e giallo), solitamente è posto al centro del soffitto della sala delle assemblee del monastero.

Il grande stendardo è come una bandiera arrotolata che simboleggia la vittoria di corpo, parola e mente di ognuno di noi nella pratica del Dharma, attesta la potenza e la vittoria della Dottrina contro ogni ostacolo e ogni forza negativa, la vittoria della conoscenza sull’ignoranza e la paura, il conseguimento in corpo, parola e mente della felicità ultima.

 

 

NOTE

(1) La parola Dharma (sanscr.) ha la sua radice nel verbo dhr- che vuole dire sostenere, reggere.

E’ il concetto centrale del Buddhismo nelle sue diverse accezioni tra cui quelle di:

- Legge cosmica, Grande Ordine, che è alla base del mondo, in particolare la legge di causa ed effetto che condiziona

la rinascita.

- Dottrina che esprime la Verità Universale come è stata insegnata e trasmessa da Buddha Sakyamuni, il Buddha storico.

- manifestazione della realtà fenomenica.

 

(2) Dall’unione mistica ed estatica delle due polarità maschile e femminile si realizza nel Tantrismo il superamento di ogni dualismo della realtà fenomenica, la comprensione assoluta, la pura essenza.

Questa comprensione non va intesa in modo meramente concettuale bensì esperita attualmente, vissuta nella realizzazione dell’Illuminazione attraverso la pratica esterna, interna e segreta della Dottrina.

 

(3) La Ruota della Dottrina è stata messa in movimento altre due volte: quando Buddha Sakyamuni trasmise l’insegnamento della Vacuità (in sanscrito sunyata) e dell’Amore Compassionevole (in sanscrito karuna) e come sviluppare il pensiero che conduce al Risveglio (in sanscrito bodhicitta) attraverso l’unione del Metodo (in sanscrito upaya) con la Saggezza Trascendente (in sanscrito prajna) che costituiscono le basi del Buddhismo Mahayana o Grande Sentiero ovvero Grande Veicolo (della Dottrina).

Si fa risalire l’origine del Mahayana quando, sul Picco dell’Avvoltoio presso Rajagrha, l’Illuminato trasmise l’insegnamento della Prajnaparamita o Perfezione della Saggezza.

La Ruota del Dharma fu messa in movimento per la terza volta quando, a Dhanyakataka presso Amaravati nell’India meridionale, fu trasmesso il Vajrayana o Veicolo del Diamante o Via del Tantra che costituisce l’esoterismo buddhista.

 

(4) Mandala: sanscr. lett. “cerchio” (in tibetano dkyil-’khor). I mandala sono rappresentazioni bi e tridimensionali monocrome e policrome, disegnate, costruite con sabbie colorate o mucchietti di riso, dipinte ovvero realizzate anche con metalli preziosi. I mandala rappresentano lo spazio micro e macrocosmico nel quale il praticante agisce ritualmente per conseguire un determinato stato di coscienza.

Nel Vajrayana sono mandala sia il mondo esterno, sia il corpo che la propria coscienza,

La struttura di base del mandala è tradizionalmente immutabile ed è costituita da un palazzo quadrato, con un centro e quattro porte corrispondenti ai quattro punti cardinali, il margine esterno è solitamente formato da fiamme o petali di loto nei cinque colori di base, verde, rosso, giallo, bianco e blu.

Lo stupa di Borobudur, costruito nel IX sec. nell’isola di Java, è il più grande mandala costruito dall’uomo. 

 

(5) Aryamangalakutanamamahayanasutra, p.531a, 7.

 

(6) In sanscrito lett. “rinforzo, strumento, supporto”, nell’Induismo è la rappresentazione puramente lineare, geometrica, delle manifestazioni cosmiche, delle potenze divine; è l’equivalente grafico del mantra unitamente al quale è usato nella pratica rituale. Gli elementi essenziali dello yantra sono triangoli, punti, i cerchi e le corone di loto, il quadrato, i caratteri dell’alfabeto devanagari con cui è scritto il sanscrito, lingua sacra.

Lo yantra è un diagramma mistico che richiama nel praticante aspetti e forze del divino grazie alla loro visualizzazione ed evocazione.