"Stabilità prima di tutto", la neolingua che colpisce l'Iraq
di Pepe Escobar - 03/11/2006
Paradossalmente, vittima della propaganda di guerra sembra essere diventato il ritornello “finire quello che si è iniziato” (stay the course), sostituito, secondo il portavoce della Casa Bianca Tony Snow, da “uno studio in costante movimento”. Ad ogni modo, il vincitore indiscusso, dopo le prossime elezioni di medio termine Usa, sarà “Stabilità prima di tutto”; sostanzialmente, dello stesso “finire quello che si è iniziato” nient'altro che una variante più subdola |
"Finire ciò che abbiamo iniziato significa non andarsene prima di aver terminato il lavoro. Ed è proprio questo ciò che faremo in Iraq: finire il nostro lavoro" – George W. Bush, 11 ottobre 2006 Nel 1401, un altro invasore straniero, il turco-mongolo Tamerlano (“Timur lo zoppo”), distrugge nuovamente Baghdad. Nel 2003, dopo le distruzioni del “colpisci e terrorizza” (shock and awe) sono arrivati gli eserciti cristiani del Presidente Usa George W. Bush. Sin dall'inizio, le analogie con Hulagu e Tamerlano erano parte integrante dell’immaginario collettivo. Col passare del tempo, gli abitanti di Baghdad – sunniti e sciiti – hanno detto: “Imporremo noi stessi e il nostro ritmo sugli occupanti”. È ciò che sta accadendo. Il pantano iracheno non è un videogioco del XXI secolo in cui gli arabi fanno le comparse in un’Armageddon al rallentatore. Si tratta di una storia straziante, con fiumi di sangue e montagne di cadaveri – reali. Sceneggiatori e interpreti di questa storia sono gli Stati Uniti, responsabili dal punto di vista sia morale sia legale della distruzione della leggendaria ex capitale del califfato, nonché della fetta occidentale della nazione araba. È in questo contesto che l’attuale propaganda sull’Iraq negli Usa dovrebbe essere inserita. Il recente cruento mese di Ramadan in Iraq è stato il riflesso del diabolico meccanismo indotto dall’invasione e dall’occupazione – il macabro quotidiano banchetto di morte alimentato dall’odio settario e dalla dissoluzione del contratto sociale. Questa logica di sterminio di una società e della sua cultura è stata incorporata nel processo avviato nel marzo del 2003. Infatti, l'annientamento sistematico del 2-3% dell'intera popolazione irachena, secondo uno studio di The Lancet – per non parlare del milione di rifugiati dal marzo 2003 – segue agli oltre 500.000 bambini vittime, durante gli anni novanta, delle sanzioni delle Nazioni Unite. Da più di 15 anni, all’Iraq tocca essere sistematicamente distrutto, senza sosta. E le cose non possono che peggiorare, poichè secondo l'amministrazione Bush tutte queste vittime e questa distruzione rappresentano, nel "grande quadro", soltanto un dettaglio irrilevante. Come una perversa replica di quanto accadde nelle giungle del Vietnam, il Pentagono ha perso contro la guerriglia che infuria nell’area sunnita. Gli arabi sunniti sono completamente alienati: il 70% è favorevole ad attaccare gli occupanti, senza esclusione di colpi. Non stupisce il fatto che Saddam Hussein goda ancora di una certa popolarità. In ottobre, circa 500 comandanti tribali arabi sunniti ed ex ufficiali della polizia del partito Ba'ath, dell’esercito e dei servizi segreti, si sono recati ad al-Hindiya, 25 chilometri ad ovest di Kirkuk, per giurare solennemente fedeltà a Saddam, considerato "combattente supremo e presidente legittimo". È vero che il regime di Saddam aveva già iniziato a sgretolare il paese dall'interno dopo la Guerra del Golfo del 1991 – una tragedia proseguita con le sanzioni ONU. La conseguente emorragia di spirito civico ha accelerato la ri-tribalizzazione dell'Iraq. Anche se l'affiliazione tribale oggigiorno sembra l’unica via, per la taciturna maggioranza ciò che davvero importa è la sicurezza: a nessuno importa seriamente della divisione percepita in Occidente tra sunniti e sciiti, almeno non della divisione in sé; la maggior parte degli arabi, curdi e turcomanni condividono del resto numerosi interessi sociali, culturali e commerciali. Contrariamente a quanto si possa pensare, la società civile irachena nel suo complesso – con l’eccezione di alcune fazioni – detesta la guerra civile.
L'opinione pubblica mondiale deve dare l’allarme rosso. Il reale – non virtuale – futuro dell'Iraq sarà deciso in dicembre. L'intera questione ruota attorno ad una nuova legge sul petrolio, che in realtà è un programma “debt-for-oil” ideato e imposto dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). Questo è il senso dell’invasione statunitense: un tasso di redditività del capitale investito sulle centinaia di migliaia di dollari spesi dai contribuenti statunitensi. Non si tratta di una guerra politica, bensì di una guerra di apertura al mercato libero – completo accesso Usa all'epicentro delle guerre energetiche e ideale posizione geostrategica per "addomesticare", nel prossimo futuro, sia la Russia che la Cina. Pochissimi osservatori hanno illustrato in dettaglio la posta in gioco. Nei media mainstream statunitensi il silenzio regna sovrano. Non c'è da stupirsi: il colosso dell'Ambasciata Usa nella Zona Verde ha sempre fatto sì che gli Stati Uniti potessero controllare – tramite personale iracheno ben remunerato – il ministero del petrolio, nonché tutti i principali quadri dirigenziali nei ministeri chiave iracheni. La bozza della legge sugli idrocarburi è stata rivista dal FMI, da Bodman e dai dirigenti delle grandi compagnie petrolifere. Non è stata e non sarà esaminata dalla società civile irachena, bensì dal parlamento iracheno – suscettibile di corruzione da quattro soldi. Qualunque cosa accada nelle elezioni statunitensi di medio termine il prossimo mese, lo scenario del nuovo anno è il seguente: l'Iraq assoggettato al FMI; le multinazionali del petrolio che firmano accordi di condivisione della produzione petrolifera (PSA - Production Sharing Agreements1) ultra-redditizi; ritiri "parziali" delle truppe; spietate azioni di guerriglia; ulteriori distruzioni; porte spalancate alla divisione settaria. E c’è di più: la disperazione melodrammatica insita in frasi del tipo “Dislocare e Contenere”, o “Stabilità prima di tutto” – propaganda coniata dall’Iraq Study Group, organizzazione neocon presieduta dal consigliere della famiglia Bush James Baker. Paradossalmente, vittima della propaganda di guerra sembra essere diventato il ritornello “finire quello che si è iniziato” – sostituito, secondo il portavoce della Casa Bianca Tony Snow, da “uno studio in costante movimento”. Ad ogni modo, il vincitore indiscusso dopo le elezioni di medio termine sarà “Stabilità prima di tutto”, sostanzialmente una variante più subdola del “finire quello che si è iniziato”. Come possono gli americani – e l’opinione pubblica mondiale – essere coinvolti in un serio e costruttivo dibattito quando la tragedia irachena viene ridotta ad una frase, per giunta indisponente? Questa turbine di incoerenze, questo “studio in costante movimento”: ecco il grande equivoco che la fa da padrona nell’intellettualoide dibattito sulla politica irachena. Sta all’antica e fiera Baghdad rovinare la festa. Baghdad è sopravvissuta ed ha sconfitto Hulagu. Baghdad è sopravvissuta ed ha sconfitto Tamerlano. Baghdad può sopravvivere e sconfiggere anche George W. Bush. 1. In base a questi accordi, la proprietà dei campi petroliferi resterebbe al Governo iracheno mentre i diritti di sfruttamento andrebbero alle grandi compagnie petrolifere occidentali (NdT)
Pepe Escobar, giornalista brasiliano, si occupa di questioni del Medio Oriente e dell’Asia meridionale. È stato in Afghanistan e ha intervistato il leader militare dell’Alleanza del Nord, Ahmad Shah Masoud, un paio di settimane prima che venisse assassinato. Due settimane prima dell’11 settembre 2001, era nelle aree tribali del Pakistan, ed è stato uno dei primi giornalisti a raggiungere Kabul dopo la ritirata dei talebani. Pepe Escobar è tra gli autori dell'antologia Tutto in vendita – Ogni cosa ha un prezzo. Anche noi.
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