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Le origini culturali del problema ecologico

di Guido Dalla Casa - 03/11/2005

Fonte: estovest.net

1. Premesse.
   Normalmente i problemi di natura ecologica vengono trattati come distinti e separati gli uni dagli altri: ad esempio si parla del problema dell’energia, di quello dell’acqua, dell’effetto serra, dell’inquinamento dell’aria, della deforestazione, e così via.
  Non potrebbe essere diversamente, dato che questo tipo di frazionamento è il modo normale di procedere della nostra cultura. Inoltre si cerca di solito di suggerire qualche “rimedio” ai singoli problemi, cioè di proporre soluzioni, anche per l’opportunità di dare un taglio pratico alle singole trattazioni dei problemi relativi all’ecologia.
In realtà, ciò significa semplicemente che si propongono soluzioni a breve o medio termine, di solito senza porre la questione se per caso il problema ecologico non sia un problema unico, insolubile a lungo termine, a meno che non si accetti di mettere in discussione uno dei fondamenti della nostra attuale civiltà, cioè l’idea che sia indispensabile perseguire la crescita continua dei beni materiali, presi come indice del benessere, o della “felicità” umana.
   Se si esaminano a fondo le soluzioni normalmente proposte alle singole questioni, ci si accorge che consistono spesso nello spostare gli inconvenienti da un ambiente all’altro, di solito con diminuzione anche notevole delle conseguenze negative, il che rende comunque utili e accettabili alcune soluzioni. Tuttavia quasi mai si sentono proposte che costituiscano -anche solo in linea teorica- una soluzione del problema ecologico, cioè la realizzazione di processi che lascino inalterato, o in condizioni stazionarie, il mondo naturale, di cui facciamo parte integrante a tutti gli effetti.
   Se si esamina il problema ecologico nella sua globalità e con gli ordini di grandezza che lo rendono evidente, ci si accorge che nasce dal fatto che una cultura umana -la civiltà industriale, che è l’espressione attuale della cultura occidentale- ha iniziato a funzionare con processi di tipo aperto, cioè a prelevare qualcosa di fisso dall’esterno (le risorse) e a riversarvi ancora qualcosa di fisso (i rifiuti); ha cessato cioè di funzionare come il resto della Natura e come gran parte delle altre culture umane. Ciò corrisponde in certa misura all’avere creato il concetto di “ambiente” dell’uomo, autoproclamandosi “al centro” di qualcosa. Come se non bastasse, tale modello ha iniziato a funzionare in modo da considerare non solo auspicabile, ma addirittura necessaria, una crescita indefinita di processi di quel tipo.
   Infatti la Natura ha un tipo di funzionamento che si può definire dinamico ma stazionario, almeno se non si considerano tempi lunghissimi. In altre parole, la civiltà industriale ha dimenticato di far parte di un Organismo molto più vasto.
   In un fiume non corre mai la stessa acqua, e quindi si tratta di un fenomeno dinamico: tuttavia, se la sua portata resta fluttuante attorno a valori medi stabili, è un fenomeno stazionario. La civiltà industriale è un processo non-stazionario; vuole essere come un fiume la cui portata cresce per sempre.
   È facile rendersi conto che il problema ecologico esisterà sempre, e porterà prima o poi alla cessazione del fenomeno civiltà industriale come sopra definito, fintanto che non ci si riporterà in condizioni stazionarie.
  In altre parole, la crescita economica continua è un fenomeno impossibile sulla Terra.

2 - Ottimismo e pessimismo.
   Le considerazioni esposte nelle premesse sono in generale considerate come esempio di pessimismo, ma solo perché si ritiene ovvio che l’intera umanità aspiri allo sviluppo economico, cioè in sostanza all’incremento senza fine dei beni materiali, che darebbero un maggiore benessere, cioè aumenterebbero la “felicità” umana.
   Ciò deriva dal considerare “naturali” i valori della civiltà occidentale attuale.
Ma non è possibile fare considerazioni che non risentano dei “pregiudizi” della cultura in cui viviamo che costituiscono quella griglia, quella lente deformante attraverso la quale siamo costretti a fare ogni considerazione. In questo senso la cultura in cui si vive è quel sottofondo di idee, viste come evidenti, che è stato chiamato “l’elefante invisibile”. È appena il caso di ricordare che in questo caso il termine pregiudizi non ha alcuna connotazione negativa.
   Se però cambiassero le premesse culturali da cui si è sviluppato il desiderio dei consumi, non ci sarebbe più alcun bisogno della spirale produrre-vendere-consumare, e il problema ecologico cesserebbe di esistere. Ciò significa che dovrebbe modificarsi il modo di vivere, come conseguenza di una profonda modifica del modo di pensare.
   Allora non ha più senso parlare di pessimismo, perché si può vivere anche con una scala di valori molto diversa dall’attuale, senza inseguire quella spirale dell’eterno desiderio che costituisce l’alimento della civiltà industriale sempre-crescente. Cinquemila culture umane vivevano con scale di valori del tutto diverse, e -in analogia con la diversità biologica- potevano convivere in simbiosi con il resto del Pianeta.

3 - Un esempio: il problema dell’energia.
   Il problema energetico viene normalmente impostato come la ricerca del modo meno dannoso per produrre l’energia necessaria a coprire il fabbisogno mondiale dei prossimi anni, assumendo detto fabbisogno come una variabile indipendente, una necessità da soddisfare ad ogni costo. Ciò equivale a dire che il modo di vivere di tutto il mondo sarà quello della civiltà industriale, considerata a priori come desiderabile.
   Bastano poche considerazioni quantitative per accorgersi che, se impostato in questo modo, il problema diventa comunque insolubile nel giro di alcuni decenni: anche se fosse risolvibile, la produzione di simili quantità di energia porterebbe tali catastrofiche conseguenze sul Pianeta da causare poi comunque l’arresto del processo.
   Se si escludono le cosiddette fonti rinnovabili, qualunque modo di produrre energia accumula rifiuti da qualche parte. Ma anche le fonti rinnovabili non costituiscono un ciclo veramente chiuso, a meno che non si riciclino anche tutti i componenti usati per costruire gli impianti. Bisogna ricordare inoltre che un riciclaggio completo è impossibile, esistendo una specie di entropia della materia.
   Resta comunque in piedi un’altra questione: dove va a finire tutta questa energia? Ad alimentare altri consumi, costruzione di altri impianti, scomparsa di risorse e accumulo di rifiuti. Strade, macchine, città, al posto di paludi, foreste e praterie. Se saltasse fuori la famosa fusione nucleare, cosa potrebbe più arrestare questo processo?
   È la crescita dei consumi la causa dei problemi: senza toccare questo tabù, si può solo guadagnare tempo, che è comunque un risultato di grande utilità, perché può consentire di arrivare ai tempi lunghi necessari per il cambiamento dei fondamenti culturali sopra accennato.
   Solo come esempio, facciamo un piccolo esercizio: supponiamo che la produzione industriale e i consumi di energia aumentino con legge esponenziale con un tempo di raddoppio di venti anni.
   Facciamo poi l’ipotesi di ottenere un risultato eccezionale, cioè di diminuire il consumo di energia per unità di prodotto del 50%: ciò significa consumare la metà di oggi per ottenere la stessa produzione industriale. In tal caso per venti anni il consumo energetico resta lo stesso, e poi riprende a salire con un nuovo rapporto rispetto al prodotto industriale, ma con lo stesso andamento di prima. Abbiamo soltanto guadagnato venti anni per ritrovarci con gli stessi problemi. La vera causa dei guai è il tabù della crescita. Si noti che non abbiamo preso in considerazione il fatto che anche tutte le industrie che fabbricano i componenti relativi al mercato dell’energia hanno fatto i loro bravi piani di espansione e forse si troverebbero in difficoltà in quei vent’anni, in cui dovrebbero chiudere.
   I vari protocolli di Kyoto, di Rio o di altri convegni internazionali, pur animati dalle migliori intenzioni, non potranno mai essere rispettati. Se diminuiscono le emissioni di anidride carbonica, crescerà qualche altro inquinamento o qualche altro guaio se non vogliamo toccare la crescita! Siccome nessun governo parlerà mai in tal senso, quegli impegni non potranno essere rispettati anche se vengono presi in buona fede. È infatti evidente che un governo che non inneggia allo ”sviluppo economico” non resta in carica neanche un’ora.
   Il problema energetico non consiste nella ricerca delle fonti più opportune per soddisfare i fabbisogni imposti dal modello ma è uno dei segni dell’impossibilità di persistenza nel tempo del modello industriale sempre-crescente.

   Quello dell’energia è solo un esempio: è evidente che le stesse considerazioni si possono fare per i fabbisogni di acqua, per l’accumulo dei rifiuti, per la distruzione delle foreste, e così via. Si noti che abbiamo evitato considerazioni morali.

4 - Origini della crisi ecologica.
   Fino a qualche secolo fa esistevano sulla Terra circa cinquemila culture umane; quasi tutte mantenevano condizioni dinamiche e stazionarie nei confronti della Terra stessa.
   Ben poche avevano ai primi posti della loro scala di valori l’incremento indefinito dei beni materiali; in presenza di un valore di questo tipo non è possibile mantenersi in equilibrio dinamico con l’ecosistema terrestre. Per inciso, anche l’aumento del tempo libero e la diminuzione del lavoro fisico sono fenomeni illusori propagandati da questa civiltà perché si confronta solo con il suo stesso passato: ora che il lavoro fisico è notevolmente diminuito, siamo costretti a “divertirci” a pagamento nelle palestre. Si tratta di un modo per aumentare i consumi, giustificato solo da motivi psicologici.
   In molte culture vernacolari o tradizionali non si dedicavano più di tre o quattro ore al giorno ad attività inerenti alla sopravvivenza materiale. È forse superfluo ricordare che le culture chiamate vernacolari o tradizionali sono di norma etichettate come primitive.
   L’origine della civiltà tecnologica è da ricercarsi nella forma di pensiero che si è diffusa nelle masse di cultura occidentale alcuni secoli orsono: non è nata da scoperte di tipo tecnico, che ne sono state la conseguenza. È da un sottofondo filosofico che nasce un modo di vivere. In Cina molte scoperte c’erano già, ma la civiltà industriale sempre-crescente non poteva svilupparsi in un mondo ispirato al Taoismo, dove l’universale è visto come azione di forze complementari e non opposte, dove non esiste il polo giusto e quello sbagliato. Volere la crescita senza la diminuzione sarebbe stato considerato come volere le montagne senza le valli.
   È stata la diffusione in Occidente delle idee di pensatori come Cartesio, Bacone, Locke ed altri che ha fatto nascere la civiltà industriale: erano necessarie le idee del mondo-macchina e del dominio esclusivo dell’uomo sulla natura, considerata inerte e al servizio della nostra specie, per arrivare senza alcun problema ad uno sfruttamento illimitato. Per il filosofo francese solo la mente umana è res cogitans; tutto il mondo, vivente e non vivente, è res extensa, perciò si può manipolare a piacimento senza problemi, tanto non vale niente. E Bacone, nell’affermare che lo scopo dell’uomo è quello di dominare la natura piegandola ai suoi voleri, dimenticava semplicemente che noi siamo Natura.

   L’obiezione principale che viene di solito avanzata alle idee che criticano lo sviluppo, è che “anche i Paesi del Terzo Mondo vogliono arrivare al nostro livello”; ma non dimentichiamo che questa affermazione ha senso solo dando come scontate le concezioni e la scala di valori dell’Occidente: già l’idea di nazione e il concetto di “Terzo Mondo” sono quasi-esclusivi della nostra cultura. Per il fatto che ci sono Paesi e governi vuole già dire che siamo nell’ambito della cultura occidentale, cioè di quel modello che ha iniziato ad invadere completamente il Pianeta attorno al sedicesimo secolo, concludendo l’opera ai giorni nostri. Anche l’idea che si voglia “arrivare al nostro livello” sottintende già tutti pregiudizi di un modo di pensare, perché il concetto di un livello cui arrivare comporta la necessità dell’accettazione di una data scala di valori, considerata quella “buona”. Ma nessuna scala di valori può essere assoluta.
   Più che preoccuparci di aumentare i consumi, dovremmo renderci conto che sei miliardi di umani in condizioni stazionarie non possono stare sulla Terra, almeno a tempo indefinito.
   Anche l’idea che si debba essere in una continua competizione, che sarebbe una specie di “molla del progresso”, non è una caratteristica generale dell’umanità.

Concludo con una citazione (J. Servier, L’uomo e l’Invisibile, Rusconi, 1973):
Nessun moralista ha mai posto il problema della responsabilità dell’Occidente in questa creazione di bisogni artificiali, che mascheriamo sotto il nome di “civiltà” o di “tenore di vita”, che ha l’unico scopo di far lavorare le nostre fabbriche.

        

(pubblicato su DirigentIndustria, rivista mensile dell’ALDAI, settembre 2000)