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Matteo Ricci

di Paolo Possenti - 10/11/2006


 
 
  27 ottobre 2006 - Dal sito www.effedieffe.com
 
PREMESSA REDAZIONALE: IL MAESTRO SPIRITUALE DI MATTEO RICCI FU PADRE ALESSANDRO VALIGNANI, GESUITA ED EVANGELIZZATORE DELLA CINA, NATO NEL 1539 IN ABRUZZO E PER LA PRECISIONE A CHIETI. IL SEME DELLA FEDE CRISTIANA IN ESTREMO ORIENTE E' STATO DUNQUE TRAPIANTATO DALL’ITALIA, DALLA GENEROSA TERRA D'ABRUZZO, E QUESTO DEVE RENDERE TUTTI I CRISTIANI ITALIANI, E QUELLI ABRUZZESI IN PARTICOLARE, MOLTO ORGOGLIOSI E SOPRATUTTO SOLIDALI CON LE SOFFERENZE DEI FRATELLI CRISTANI CINESI ANCORA OGGI SOTTOPOSTI A PRIVAZIONE DELLA LIBERTA' RELIGIOSA DA PARTE DEL GOVERNO COMUNISTA AD ECONOMIA CAPITALISTA DELLA CINA ODIERNA. QUELLA CINA CON CUI L'OCCIDENTE AMERICANOCENTRICO, CHE SI SCIACQUA LA BOCCA UN GIORNO SI E L'ALTRO PURE CON I DIRITTI UMANI E CON LA DEMOCRAZIA DA ESPORTARE, CONTINUA A FARE AFFARI SENZA SCRUPOLI DI SORTA. "PECUNIA NON OLET": E' QUESTA L'UNICA MORALE (DA BOTTEGAIO) DELL'OCCIDENTE POST-CRISTIANO, LA PATRIA DEGLI "ATEI DEVOTI", COME GIULIANO FERRARA, MARCELLO PERA E LA FU ORIANIA FALLACI, CHE DI CRISTO SI RICORDANO SOLO, STRUMENTALMENTE, PER LO SCONTRO DI CIVILTA', RENDENDOLO COSI' ODIOSO AI POPOLI NON OCCIDENTALI. LA LEZIONE MISSIONARIA DI ALESSANDRO VALIGNANI E DI MATTEO RICCI, VERI CRISTIANI,NELL'AMORE DI CRISTO, E' STATA BEN DIVERSA. E' A LORO ED A QUELLI COME LORO, AD ESEMPIO MADRE TERESA DI CALCUTTA, CHE I CRISTIANI DEVONO OGGI GUARDARE, NON AI TEOCONS, NEOCONS ED "ATEI CRISTIANI" VARI.


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Matteo Ricci audace viaggiatore e scienziato, fondatore delle missioni cattoliche in Cina, e primo sinologo, nacque a Macerata il 6 Ottobre 1552.
E' certo uno dei più grandi personaggi della storia europea nella conoscenza del mondo.
Mandato a Roma, diciassettenne, allo studio delle leggi, un triennio dopo (15 agosto 1571) entrava nel noviziato dei Gesuiti a sant' Andrea al Quirinale, donde l'anno appresso passava nel collegio romano restandovi sino al 18 maggio 1577, quando partiva per le Indie Orientali.
Raggiunta Goa (13 settembre 1578) lì prima, poi in Cocino, vi insegnò lettere ai residenti portoghesi e ad alcune eminenti famiglie locali.
Conobbe forse qui i primi cinesi ed apprese notizie della civiltà che doveva occupare l'attività di tutta la sua vita.
Qui celebrò la prima Messa (26 luglio 1580) e di li a poco fece ritorno a Goa per continuarvi, fino al 1582, il corso di teologia interrotto a Roma.
Governava allora, in qualità di visitatore, le missioni gesuitiche sparse tra l'India e il Giappone l'italiano Alessandro Valignani, tenace nel proposito di riprendere la predicazione del Vangelo in Cina già iniziatavi nel Medioevo dai frati minori, poi interrotta durante due secoli e invano ritentata al principio della seconda metà del secolo XVI da san Francesco Saverio, dai suoi confratelli e da altri religiosi.
A tal fine, notate le grandi qualità del giovane Matteo Ricci, nelle feste di Pasqua del 1582 il Valignani lo inviava da Goa a Macao, sede di una colonia portoghese.
Il Valignani sperava che alle porte dell'impenetrabile Cina il Ricci, insieme con il suo confratello Michele Ruggeri (1542-1607), che l'aveva preceduto nel luglio del 1579, studiasse di proposito la lingua e le istituzioni cinesi, attendendo il momento opportuno per entrare nel regno e fissarvi dimora.
Il 10 settembre 1583, i due mettevano piede in Sciaohchin, la moderna Chao-ch'ing, nel Kwang-tung, allora capitale delle due province del Kwang-tung, e del Kwang-si e sede del viceré di entrambe.
Ottenuto da costui il permesso di edificare nella città una casa e una chiesa, che intitolò alla Vergine Maria, il Ricci dava inizio alla sua missione.
Quale incremento avesse l'opera del missionario, come venisse da lui ordinata e condotta innanzi, ci è stato tramandato dal Ricci stesso, oltre che nelle sue lettere edite e inedite, nei suoi Commentatori della Cina, pubblicati nel testo originale italiano del 1911, ma conosciuti sino dal 1615 in una libera traduzione latina del gesuita belga Nicolò Trigaut.

 


Fermo nell'idea suggeritagli dal Valignani che per riuscire nella predicazione del Vangelo convenisse raggiungere Pechino e convertire lo stesso imperatore, o almeno renderselo favorevole, dai confini più meridionali del Regno di Mezzo andò avanzando dal mezzogiorno a settentrione.
Fondata pertanto nel 1583 la prima stazione in Schiaochin, dopo sei anni ne aperse una seconda in Ch'ao-chou (1589), indi una terza e una quarta in Nan-chang (1595) e a Nanchino (1599), finché nel 1601 riuscì a stabilirsi in Pechino, prima in una casa a pigione (1601), poi in una acquistata per la missione.
In tutte queste residenze disposte da mezzogiorno a settentrione, coadiuvato da otto confratelli italiani, da quasi altrettanti portoghesi, da uno spagnolo e da otto cinesi, il Ricci si diede a svelare ai cinesi, specialmente a letterati e a grandi mandarini, la civiltà d'Occidente, da essi ignorata, con l'intento di attirarli alla legge di Cristo.
Ma la maniera di conseguire lo scopo non fu sempre la stessa né si modellò su quella tenuta da altri missionari.
Entrando in Schiaochin il Ricci ed il Ruggeri, per meglio accattivarsi l'animo dei Cinesi, avevano preso il nome ed indossavano l'abito dei bonzi, ministri degli idoli.
Ma i bonzi in Cina erano spregiati dai letterati e dai mandarini; conseguentemente i due missionari occidentali si vedevano esposti allo stesso disprezzo da parte dei cinesi colti, e tenuti lontani dalla dimestichezza con i letterati.
Per superare tale sfavorevole condizione il Ricci, dopo dodici anni di penosa esperienza, rimediò smettendo l'abito e il nome di bonzo per prendere quelli di letterato.
Nel 1595, uscendo dalla provincia del Kwang-tung, incominciò a dirsi teologo e dottore occidentale, vestendo da letterato, lasciando crescere la barba (ciò che non facevano i bonzi), non uscendo di casa se non al modo dei mandarini «in sedia levata in omeri di uomini» con la scorta dei due o tre servitori «vestiti di lungo».
Questo cambiamento, fatto dal Ricci col sostegno del Valignani, e poscia approvato in Roma dal generale Claudio Acquaviva e da Clemente Vili, poco avrebbe giovato se egli non avesse cercato in ogni modo «di farsi dna» cioè cinese, come egli scrisse, assimilandosi, per quanto gli era permesso dalla sua fede e dalla sua professione religiosa, alla cultura e, allo stato mentale dei letterati cinesi, e impadronendosi della loro difficile lingua.

 


Già nel 1583-84 in unione col padre Ruggeri e con alcuni maestri locali aveva composto e pubblicato la versione del Pater, dell'Ave e del Decalogo; nella seconda metà nel 1584 fu pure di grande aiuto al baccelliere del Fukien, il futuro Paolo, nel ritoccare il manoscritto cinese del catechismo latino del Ruggeri, finito di stampare tra il 25 e il 29 novembre di quello stesso anno col titolo di Vera esposizione del Signor del Cielo.
Circa lo stesso tempo completava la versione cinese del Credo e nel 1589 annotava in cinese la sua edizione del mappamondo.
Ma nel 1593, ricevuto ordine dal Valignani di darsi allo studio della lingua letteraria cinese, si fece discepolo di un valente maestro, sotto il quale si addentrò ancor più nell'arduo studio dello stile cinese, tanto da meritare dai posteri il titolo di primo sinologo.
Impadronitosi quindi della lingua letteraria, dal 1595 (anno della sua prima opera in cinese, «Trattato sull'Amicizia» o Chiao leu Lùen (Chiao yu lun) incominciò a comporre libri di scienze e di religione.
Le sue opere, accolte con singolare favore e ammirazione dai dotti, trattavano di cartografia, di matematiche, di filosofia morale, di teologia, di apologetica.
Tra esse vanno ricordate il «Mappamondo» o Coeniu Ttsienttu, (K'kun yu wan kuo ch'uan t'u) che ebbe numerose edizioni dal 1585 in poi; i primi sei libri di Euclide o Chiho Iuenpen (Chi ho yuan pèn; 1607), i «Dieci Paradossi» o Chigen Sce Pien (Chi jèn shih p'ien; 1608) e specialmente il suo «Catechismo» o Ttienciu Sce I (T'ien Chu shih I del 1604), destinato a portare la conoscenza del vero Dio non solo in Cina, ma anche in Giappone e nei paesi limitrofi al Regno di Mezzo.
A questa operosità letteraria del Ricci va certamente attribuita la seconda introduzione e l'incremento del cristianesimo in Cina alla fine del Cinquecento e all'inizio del Seicento.
I cattolici cinesi erano solo tre nel 1584; 19 o 20 nel 1585; 40 nel 1586; 80 nel 1589; passavano di poco i 100 nel 1596; arrivarono a circa 500 nel 1603; laddove sorpassarono i 1000 nel 1605 e i 2000 nel 1608; dovettero probabilmente ascendere
ai 2500 nel 1610, quando il Ricci morì.

 


Più ancora del numero era importante la qualità di questi primi neofiti, molti dei quali appartenenti alla classe più colta e nobile del Paese.
II Vangelo era penetrato nella famiglia dell'imperatore Wan-li, protettore del Ricci, con la conversione (dicembre 1604) di un parente dell'imperatore, seguito l'anno appresso dal figlio, da un suo cugino e da due suoi fratelli, indi a poco da sua moglie, da sua madre, e da sei altre dame di corte.
Si è preteso che Ricci per assicurare un rapido successo alla predicazione del Vangelo facesse uso di un quasi compromesso tra la fede cristiana e il confucianesimo.
Le fonti autentiche mostrano invece quanto tale opinione sia destituita d'ogni fondamento.
Essa potè trarre origine così dal metodo tutto pieno di simpatia, di mitezza e di carità cristiana, come da ciò che il Ricci, valente apologeta, prima di proporre la verità rivelata soleva, col raziocinio, indurre i letterati, in gran parte atei, ad ammettere verità accessibili anche all'umano intelletto.
Convinti che essi fossero dell'esistenza di Dio, della spiritualità ed immortalità dell'anima, d'una divina provvidenza governatrice del mondo, passava ad esporre loro tutta la dottrina cattolica, non esclusa la passione e la morte del Salvatore.
Ma da questo, tuttavia, all'affermare che il Ricci per fare proseliti alterasse il genuino contenuto della fede cristiana, quasi venerando Confucio, ce ne corse parecchio.
Egli ritenne che non fossero contrarie in particolare alla fede cattolica cristiana la devozione cinese verso i defunti.
Il Ricci infatti molto prima delle decisioni della competente autorità ecclesiastica, credette prudente di non proibire assolutamente ai suoi neofiti certe pratiche verso Confucio e i loro antenati.
Lettere e Commentari del Ricci contengono una copiosa messe di notizie geografiche e rappresentano anzi, nell'insieme, la prima opera apparsa in Occidente che possa considerarsi un'organica, esatta e compiuta descrizione geografica della Cina.
Per quanto il contenuto sia nei due scritti sostanzialmente lo stesso, i Commentari riassumono e condensano tutto quanto ci danno le Lettere, che racchiudono qua e là pagine di grande interesse per la conoscenza del territorio cinese, dei suoi abitanti e soprattutto della loro vita e delle loro costumanze.
La parte maggiore dei Commentari riguarda la storia, ma il libro I costituisce una vera e propria monografia della vita e della civiltà cinese nel secolo XVI, che, per gli elementi e il modo della trattazione, assume carattere prevalentemente geografico.

 

Con lo studio della lingua cinese e la frequente consuetudine con i letterati locali, il Ricci riuscì a radunare una somma di materiali che supera, anche come copia, quella di tutti i suoi predecessori europei.
Percorse direttamente buona parte della Cina dal Chih-li al Kwang-tung, conobbe e visitò quasi tutte le principali città del suo tempo e delle rimanenti ebbe notizia da più fonti e di queste potè controllare in più occasioni l'attendibilità.
Durante la sua lunga permanenza nella capitale ebbe probabilmente modo di consultare anche i documenti ufficiali che i cinesi custodivano più gelosamente e certo una grande quantità di libri che ad altri, anche dopo di lui, sfuggirono o non furono se non imperfettamente noti.
Egli potè così, primo fra gli occidentali, collocare la Cina al suo vero posto con misurazioni astronomiche dirette o con stime rigorose su fonti degne di fede, nel che egli anticipa l'opera condotta a termine, mezzo secolo dopo, dal suo confratello Martini.
Fu il primo a dare della civiltà e della vita cinese un quadro complessivamente fedele, senza gli elementi favolosi e sovrumani che la fantasia popolare vi aveva ricamato, anzi cercando di cogliervi acutamente la ragione delle cose e le relazioni reciproche dei diversi fattori.
Né minore importanza ha l'opera propriamente cartografica svolta dal Ricci buona parte della quale, anche se non tutto, è giunto fino a noi.
Rimane però quanto basta a farci comprendere come il grande missionario potesse riuscire, con tal mezzo, a procurarsi fama e favore presso i dotti della Cina.
Il grande mappamondo (misura in complesso m. 3,75x 1,80) in sei fogli pubblicato a Pechino, a Londra e a Roma, e che è stato più volte riprodotto, rappresenta un lavoro in gran parte originale, composto da un autore che si mostra bene al corrente dei progressi compiuti dalla cartografia europea e che in pari tempo rinnova dalle fondamenta la rappresentazione dell'Asia orientale.
Per questo infatti il Ricci, non solo mette a profilo il materiale cinese avuto a disposizione, ma ne corregge e ne amalgama criticamente i dati, riuscendo ad una elaborazione che rimane insuperata fino almeno alla costruzione dell'Atlas Sinensis del Martini (1655) e che esercitò larga influenza sulle carte venute alla luce durante tutto il secolo XVII.

 


Ma l'opera e la vita di Matteo Ricci assumono un significato che va ben al di là della sua opera di scienziato viaggiatore e religioso, per assumere il significato universale di una ricerca di convergenza fra la grande civiltà cinese e quella del mondo occidentale, nel momento della massima espansione di questo.
La Cina scopre di non essere sola ed irraggiungibile sul pianeta terra e la sua scienza stupisce incredula sul Mappamondo del Ricci.
Presentando le nuove conoscenze ricci ha l'umiltà di riconoscere i grandi valori di quella civiltà.
In primo luogo i suoi «valori naturali» basati sulla famiglia e su un'etica, codificata dalla antica famiglia di Confucio.
Anche la devozione verso i defunti non sembra al Ricci contrastare con la teologia cattolica che riconosce ed onora le anime dei defunti fino in certi casi a santificarle.
Se l'Europa e le nazioni che la rappresentarono in Oriente avessero proseguito nella strada tracciata prima da Marco Polo e poi da Matteo Ricci, quella cioè di comprendere col massimo rispetto la grande civiltà della Cina e la naturale saggezza del suo popolo, non si sarebbe forse arrivati ai quei tragici scontri che estraniarono ed opposero l'Oriente all'Occidente.
Ancor oggi in questo quadro Matteo Ricci è forse più ammirato in Cina che in Europa; una lezione di civiltà questa volta per tutti.