In un interessante elzeviro ( i lettori non si spaventino), sulla “Terza” del Corriere della Sera il giurista Natalino Irti, pone un problema non solo giuridico ma sociologico, che malgrado possa apparire a prima vista astratto, è invece di grande attualità politica.
Partendo da un libro di Hermann U. Kantorowicz, La lotta per la scienza del diritto, filosofo del diritto polacco, pubblicato giusto un secolo fa, Irti pone una questione fondamentale: il diritto (le leggi che regolano le nostre vite) può essere rinnovato dall’ interno (in via legislativa, ma anche politica, si pensi alle “leggi eccezionali”)? Oppure dall’esterno (dai giudici, come prolungamento di un sentire sociale in perpetuo movimento e rinnovamento)?
Kantorowicz si affidava ai giudici, Irti mostra invece di apprezzare (certo, moderatamente, da relativista...) le presenti istituzioni dello stato di diritto liberale, e dunque lo stesso principio della “soggezione di giudici indipendenti alla legge”.
Ma, ad esempio, nelle situazioni di transizione sociologica e politica quale principio applicare? Si prenda come esempio - e qui veniamo all’oggi - il processo a Saddam Hussein. Il giudice che ha condannato a morte l’ex rais, applica le leggi dello stato di diritto liberale o riflette un sentire sociale che ne impone la condanna a morte? Nel primo caso si può seriamente ritenere che oggi esista in Iraq uno stato di diritto? E nel secondo caso, siamo certi che il popolo iracheno, (o comunque la sua maggioranza) voglia la morte di Saddam.
Come giustamente fa notare Irti, in definitiva, l’interazione tra i due diritti si traduce sempre in uno scontro di volontà. Da una parte la volontà del legislatore dall’altra la volontà dei giudici. Due forze di origine sociologica (ma che in realtà innervano la politica), che poco o nulla hanno a che fare con le raffinate costruzioni giuridiche dello stato di diritto liberale, teso a privilegiare la forma delle leggi ai loro contenuti sociali...
Ma allora perché non accettare realisticamente il fatto che il diritto sia sempre espressione della “volontà” del più forte in un dato momento storico ( e non è detto che questa volontà sia sempre rivolta al male…)? E che infine lo stesso criterio si possa applicare anche alle istituzioni giuridiche liberali ?
Quanto all'Iraq, tutti sanno perfettamente chi oggi sia il più forte. O no?
Partendo da un libro di Hermann U. Kantorowicz, La lotta per la scienza del diritto, filosofo del diritto polacco, pubblicato giusto un secolo fa, Irti pone una questione fondamentale: il diritto (le leggi che regolano le nostre vite) può essere rinnovato dall’ interno (in via legislativa, ma anche politica, si pensi alle “leggi eccezionali”)? Oppure dall’esterno (dai giudici, come prolungamento di un sentire sociale in perpetuo movimento e rinnovamento)?
Kantorowicz si affidava ai giudici, Irti mostra invece di apprezzare (certo, moderatamente, da relativista...) le presenti istituzioni dello stato di diritto liberale, e dunque lo stesso principio della “soggezione di giudici indipendenti alla legge”.
Ma, ad esempio, nelle situazioni di transizione sociologica e politica quale principio applicare? Si prenda come esempio - e qui veniamo all’oggi - il processo a Saddam Hussein. Il giudice che ha condannato a morte l’ex rais, applica le leggi dello stato di diritto liberale o riflette un sentire sociale che ne impone la condanna a morte? Nel primo caso si può seriamente ritenere che oggi esista in Iraq uno stato di diritto? E nel secondo caso, siamo certi che il popolo iracheno, (o comunque la sua maggioranza) voglia la morte di Saddam.
Come giustamente fa notare Irti, in definitiva, l’interazione tra i due diritti si traduce sempre in uno scontro di volontà. Da una parte la volontà del legislatore dall’altra la volontà dei giudici. Due forze di origine sociologica (ma che in realtà innervano la politica), che poco o nulla hanno a che fare con le raffinate costruzioni giuridiche dello stato di diritto liberale, teso a privilegiare la forma delle leggi ai loro contenuti sociali...
Ma allora perché non accettare realisticamente il fatto che il diritto sia sempre espressione della “volontà” del più forte in un dato momento storico ( e non è detto che questa volontà sia sempre rivolta al male…)? E che infine lo stesso criterio si possa applicare anche alle istituzioni giuridiche liberali ?
Quanto all'Iraq, tutti sanno perfettamente chi oggi sia il più forte. O no?