Forse angeli: un incontro tra l’immaginazione e l’indagine razionale
di Hal Blacker - 03/11/2005
Fonte: innernet.it
Ho incontrato Rupert Sheldrake, pioniere nel campo della biologia, la notte in cui insieme al teologo Matthew Fox, festeggiava la pubblicazione della loro nuova raccolta di dialoghi, The Physics of Angels. Sapevo che Sheldrake non aveva avuto paura di sfidare l’ortodossia entrando in quei regni di pensiero usualmente evitati da altri scienziati. Ex membro del gruppo di ricerca della Royal Society, ex direttore di studi in biochimica e biologia della cellula presso il Clare College, all’università di Cambridge, il suo lavoro meno ortodosso non è facilmente congedabile, nemmeno da parte dei suoi pari più tradizionali. Il suo primo libro autorevole, il controverso A New Science of Life, pubblicato nel 1981, fu nominato dalla eminente testata scientifica Nature “il miglior candidato da bruciare come non se ne vedeva da anni”, ma allo stesso tempo acclamato dall’ugualmente ben rispettato New Scientist come “un’importante indagine scientifica sulla natura della biologia e della fisica”. Da allora in poi, il suo lavoro divenne degno di nota, per l’impegno rivoluzionario nel promuovere una consapevolezza dell’intelligente e vitale qualità di ciò che spesso visioniamo come “natura bruta”, per il tentativo di sanare la separazione cartesiana tra il fisico e il mentale, e per la capacità di attraversare avventurosamente il ben vigilato confine tra il mondo della scienza e quello della spiritualità. Mi chiedevo, anche, quanto uno scienziato possa avventurarsi, prima di aver propriamente abbandonato il legittimo dominio della scienza. Angeli? Sicuramente questa vuol essere una metafora bizzarra per qualcosa di più razionale, più in linea con la modernità, più, insomma, materiale.
Parlare con Sheldrake mi ha mostrato che, in parte, mi sbagliavo. La sua credenza nella possibilità dell’esistenza degli angeli, o d’intelligenze operanti nell’universo che sono superiori alla nostra, non è metaforica. Neanche è immersa nella bramosa fantasia che tanto pervade la spiritualità New Age. Piuttosto, è l’ultima esplorazione di un pensatore visionario che non ha paura di correre l’alto rischio che si manifesta entrando nel territorio dello sconosciuto.
Nella nostra conversazione Rupert Sheldrake si è rivelato non solo uno scienziato innovativo, ma anche un uomo di vasta erudizione in molti altri campi del sapere, la cui indagine scientifica e filosofica è alimentata da un appassionato interesse verso tutti gli aspetti della vita. Mentre alcune delle sue teorie possono sembrare più fantasiose che fattive, in grado di andare oltre la linea tra la scienza e la fantascienza, parlare con lui è stato un viaggio d’espansione della mente, che mi ha, qualche notte dopo, portato a guardar fisso un cielo stellato e a chiedermi, a dispetto di me stesso, se ci fosse qualcuno o qualcosa che a sua volta mi stesse fissando. E, più rilevante per la nostra indagine della relazione tra l’esplorazione scientifica e l’illuminazione, Rupert Sheldrake ha mostrato una qualità che è rara in un uomo della sua intelligenza e vastità di conoscenza - una diffusa umiltà e rispetto per ciò che non è conosciuto e per quello che l’intelletto non giungerà mai ad afferrare.
Hal Blacker: la prima domanda che voglio farti è, perché angeli? Mi sembra una cosa piuttosto strana che uno scienziato ne parli.
Rupert Sheldrake: Sono interessato alla riscoperta di un senso della vita nella natura. Lo sforzo di tutto il mio lavoro è tentare di rompere la visione meccanicistica di una natura inanimata e morta, una visione che forza l’intera comprensione della natura nella metafora della macchina. Questa metafora è molto incentrata sull’uomo. Solo l’uomo produce macchine. Così, considerando la natura in questo modo si proietta un aspetto dell’attività umana nella totalità della natura. È una visione della natura veramente limitata e alienante. Fin dall’inizio, da quando il mio libro A New Science of Life è stato pubblicato, il mio intento è stato quello di trovare una prospettiva più ampia o un paradigma per la scienza, che non sia stretto in un’inanimata e meccanicistica visione delle cose.
Un approccio a questa “prospettiva più ampia” è l’idea dell’intero universo come organismo vivente. La teoria del Big Bang descrive l’origine dell’universo come una piccola, indifferenziata, primordiale unità. L’universo poi si espande e cresce, e nuove forme e strutture vi appaiono. Questo è un organismo che si evolve, più che una macchina. La vecchia idea della terra come morta è stata fugata da Gaia, l’idea di una terra viva. La vecchia idea di un universo non creativo è stata sostituita da quella dell’evoluzione creativa; prima nel regno delle cose viventi, con Darwin, e ora vediamo che l’intero cosmo è in evoluzione creativa. Così, se tutto l’universo è vivo, se è un grande organismo, allora ogni cosa che lo compone è più comprensibile come organismo che come macchina.
Quindi la prossima questione che sorge è: se l’universo è vivo, se i sistemi solari sono vivi, se lo sono le galassie, se i pianeti sono vivi, sono anche coscienti? O sono vivi ma non coscienti, nello stesso modo, per esempio, che un verme o un batterio possano essere vivi ma non coscienti? E la vita che può esistere nell’universo è più cosciente di noi? Oppure dobbiamo supporre che è molto meno cosciente di noi? Siamo veramente gli esseri più intelligenti dell’universo? Ora, la comune risposta della scienza è, sì. Io penso che questa sia un’asserzione molto improbabile. Così, se arriviamo all’idea di molte forme di coscienza, se la galassia ha una vita e una coscienza, allora potrebbe essere una coscienza ben più grande della nostra in estensione, più grande nelle sue implicazioni e nel potere, e più grande nella diffusione delle sue attività. Questa, dal punto di vista della scienza, è un’idea ridicola, perché la scienza ha cacciato la coscienza da ogni cosa, a parte il cervello.
Ma nella tradizione cristiana, in quella ebraica e in tutte le tradizioni, si ritrova l’idea di tanti esseri con un livello di coscienza più alto del nostro. Nella tradizione occidentale sono chiamati angeli. Così nel mio libro con Matthew Fox, The Physics of Angels, era nostra intenzione esplorare quello che la tradizione occidentale ha da dirci sugli angeli, e vedere che rilevanza può avere nell’ambito di una nuova cosmologia.
Il mio interesse è in una nuova visione della scienza dove l’universo è vivo, e un’esplorazione di ciò che significa prevedere altre forme di coscienza oltre a questa umana. Se si pensa ad una coscienza divina che abbraccia tutte le cose, e poi, qui, alla coscienza umana, la visione tradizionale presume molti, molti altri livelli e specie di coscienza tra le due. Non si balza dalla coscienza divina a questa umana, con niente in mezzo se non materia bruta.
Hal Blacker: Quanto parli di coscienza intendi consapevolezza di sé?
Rupert Sheldrake: Ritengo che la consapevolezza di sé si espliciti attraverso la mutua consapevolezza. Non credo che sorga in una dimensione solipsistica di contemplazione dell’ombelico. “Coscienza” significa letteralmente con shire, conoscere con o conoscere insieme. Penso che la ragione per cui siamo consci è perché siamo interconsci in relazione ad altre persone.
La coscienza è condivisa, e non credo che un singolo essere umano, senza il linguaggio e senza entrare in relazione con altre persone o cose, sarebbe cosciente. Penso che la coscienza debba essere compresa in relazione con, non come una sorta di cosa isolata.
Così suppongo che se una galassia è cosciente, la sua coscienza, allora, dovrebbe dipendere dall’interrelazione con le stelle e i sistema solari, e anche, probabilmente, dalla sua relazione con altre galassie. Dovrebbe esserci una specie d’intersoggettività di galassie, una comunione o comunità di galassie.
Hal Blacker: Quando parli delle galassie o del sole come cosciente, quanto letteralmente lo intendi?
Rupert Sheldrake: Lo intendo letteralmente, ma è difficile arrivare a conoscere altre forme di coscienza oltre la propria, e anche quest’ultima è un mistero. Non so come definire la tua coscienza, meno ancora quella di un cane, di un gatto o di un uccello. Perfino per quegli organismi che si sa essere vivi e probabilmente consapevoli, è arduo sondare la vita interiore della loro coscienza. Ma dal momento che parli una lingua comune alla mia, arrivo ad immaginare che molto dipenda dalla lingua stessa, come succede per me. Il sole, probabilmente, non parla la nostra lingua e non ha affatto un linguaggio di natura umana. E per noi è molto difficile immaginare come può essere una coscienza che non è formulabile con il linguaggio umano. Penso che la coscienza del sole sia così al di là di ciò di cui siamo normalmente consapevoli a proposito di noi stessi, che è estremamente difficile creare un’immagine di che cosa potrebbe essere.
Penso che dovremmo pensare alla coscienza del sole non solo come impressa nel sole ma come qualcosa che si estende oltre il sistema solare, così come la nostra coscienza non è confinata dentro le nostre teste ma si espande a tutto il mondo percepibile intorno a noi e ci connette con tutto ciò con cui entriamo in relazione. Così vorrei immaginare la coscienza solare che abbraccia tutto il sistema solare, e anche la sua relazione con le altre stelle e l’intera galassia, dato che il sole non è un’unità isolata, come non lo è il sistema solare. È parte di un organismo più grande, è come una cellula all’interno del corpo di una galassia.
Hal Blacker: Il professore Huston Smith, che ha scritto parecchio sulla scienza e la religione, è scettico sull’utilizzo della scienza nell’area della spiritualità. Dato che la scienza è così dipendente dal metodo sperimentale, dubita che possa dimostrare l’esistenza o la non esistenza di coscienze superiori alla nostra, poiché se tali esseri superiori esistessero, non saremmo, comunque, in grado di costringerli a sottomettersi ai nostri esperimenti scientifici. Pensi che l’esistenza di esseri con una coscienza più alta o superiore alla nostra possa essere provata scientificamente?
Rupert Sheldrake: Non sono d’accordo con Huston Smith che il solo modo di studiare le cose scientificamente sia costringendole a sottomettersi ai nostri esperimenti, perché, se ciò fosse vero, l’intera astronomia non esisterebbe. Penso che, in qualche modo, l’enfasi sul metodo sperimentale nella scienza è fuoriluogo nella sua visione, perché la scienza paradigmatica, la scienza da cui è nata la rivoluzione scientifica, è l’astronomia, e l’astronomia non è una scienza sperimentale nel senso d’alterazione delle variabili, di controllo delle condizioni, e così via. Non possiamo fare esperimenti sulle galassie. Non possiamo tirare una galassia per vedere da che parte si estende, o fare l’elettroshock al sistema solare per vedere se sobbalza in un modo particolare. L’astronomia è una scienza basata sull’osservazione, non sperimentale.
Rispetto alla coscienza delle stelle e dei corpi celesti, penso che siamo nella stessa posizione dell’astronomia. Non possiamo fare esperimenti sul sole o sulla galassia, o su altre galassie. Possiamo solo osservarle, e imparare da ciò che osserviamo. Ma se c’è una coscienza del sole, dovrebbe essere un po’ più facile, perché potrebbe essere qualcosa con cui possiamo interagire. Dovremmo essere in grado d’interagire con essa attraverso la nostra coscienza piuttosto che con degli strumenti fisici.
Dall’elettroencefalogramma, dall’elettrocardiogramma e da cose del genere, potrei imparare molto di ciò che accade nel tuo corpo, tuttavia non potrei sapere che cosa accade nella tua coscienza. Il solo modo di scoprirlo sarebbe incontrarti, stare insieme, parlarti, entrare in empatia, o quale che sia. Quindi, la stessa cosa si dovrebbe applicare alla coscienza del sole o delle galassie o degli esseri celesti. Se cominciamo a comunicare con loro, lo faremo attraverso e secondo i significati della nostra stessa coscienza. Questo ovviamente non è previsto dalla metodologia attuale delle scienze fisiche. Questo non significa che sarà, per sempre, al di là d’ogni indagine.
Hal Blacker: Suggerisci, quindi, di portare la coscienza nello studio di ciò che, normalmente, consideriamo la materia inanimata e i sistemi inanimati?
Rupert Sheldrake: Penso che dobbiamo portare la coscienza dentro il nostro studio della coscienza, e ovviamente, se si presuppone che il sole e le galassie siano inanimate, l’argomento non viene sollevato. Ma se esploriamo la possibilità che siano consce allora sorge la possibilità di un’effettiva comunicazione cosciente con loro. Ora, come questo debba succedere non lo so. Io stesso non ho iniziato quest’esplorazione, ma se l’avessi fatto, penso che la prima cosa sarebbe stata guardare a ciò che è stato detto e pensato nelle tradizioni, sulla relazione degli umani con le stelle. Nella storia delle religioni e nella mitologia, c’è una notevole quantità di materiale a conferma dell’idea che gli esseri umani e la coscienza umana siano collegati alle stelle.
Hal Blacker: Cosa pensi della visione dei neo-darwinisti, come Richard Dawkins and Stephen Jay Gould, i quali credono che l’evoluzione non abbia uno scopo o un progetto e sia il risultato del puro caso e della selezione naturale?
Rupert Sheldrake: Penso che il loro sia un atto di fede. Non è scientificamente dimostrabile che è senza progetto alcuno, è solo il loro enunciato di partenza. Vogliono credere che è senza uno scopo e un progetto, e quindi lo affermano. Sono dei materialisti, e come tali, nella loro visione dell’universo, nella loro filosofia, non c’è posto nell’evoluzione per uno scopo e un progetto. Possono dedurre che non c’è uno scopo e un progetto, senza alcun dato o prova d’evidenza, perché ciò segue la premessa sulla quale si fonda il loro intero mondo filosofico. Penso che siano vincolati nel loro modo di guardare il mondo, che non si rifà all’osservazione ma al dogma materialista. Credo che niente nella scienza possa affermare che l’evoluzione non ha uno scopo o un progetto. Forse non esiste nemmeno la possibilità di provare scientificamente che ne ha uno. Quello che vediamo è una varietà d’organismi incredibilmente ben adattati al loro ambiente. Nell’evoluzione osserviamo un incredibile processo creativo. La loro filosofia afferma che si tratta solo del caso e della selezione naturale. Invece altri filosofi evoluzionisti dicono: “Va bene, la selezione naturale gioca la sua parte; elimina gli organismi disadattati. Ma, nell’evoluzione, il processo creativo rimane un mistero”.
La creatività non è puro caso. È puro caso se si parte dal dogma materialista che debba essere puro caso. Alfred Russel Wallace, che, insieme a Charles Darwin, scoprì il principio della selezione naturale e fondò la teoria dell’evoluzione, concluse con l’idea che l’evoluzione, nel mondo naturale, è guidata da spiriti intelligenti, che la parte creativa dell’evoluzione è accompagnata da un’immanente intelligenza creativa, o da molti tipi d’intelligenza. E questo risulta altrettanto compatibile con i fatti dell’evoluzione quanto i dogma neo-darwiniani. Comunque, anche se l’evoluzione è guidata da spiriti intelligenti o da un’intelligenza immanente in natura, ciò non significa necessariamente che questa intelligenza sta lavorando in accordo con un piano di supervisione – o che l’evoluzione culturale negli esseri umani è guidata da un’intelligenza immanente. Ogni innovazione, qualsiasi gingillo inventato, ogni nuovo slogan pubblicitario, ogni nuovo brano musicale o opera artistica prodotta è guidata da un’intelligenza creativa. Questo non significa, però, che sappiamo dove stiamo andando. Non palesa che queste intelligenze creative stanno lavorando in accordo a qualche piano maestro per il destino dell’umanità. Perlopiù stanno lavorando in accordo con obbiettivi ben più a breve temine.
Per me, rimane una questione aperta il fatto che l’intelligenza a sostegno della creatività nella vita, lavori in accordo con qualche scopo prefissato ai fini dell’evoluzione. Non ho tale impressione. Se guardi alla diversità della vita – svariati milioni di specie di coleotteri su questo pianeta, per esempio - hai l’impressione che c’è una proliferazione di forme e varietà, una sorta di creatività fine a se stessa. Non è per niente chiaro il perché dell’esistenza di così tanti milioni di specie di coleotteri. Mi piace una citazione della risposta di J. B. S. Haldane quando qualcuno gli ha chiesto: “Mr. Haldane, avete speso così tanti anni a studiare la vita. Cosa vi hanno rivelato questi studi sulla natura di Dio”? “Signore”. Ha risposto Haldane. “Sembra che Dio abbia una sfrenata passione per i coleotteri”.
Qualsiasi visione dell’evoluzione strettamente antropocentrica – nella fattispecie la visione dell’evoluzione che vede tutto muoversi verso l’evoluzione dell’umanità; l’idea che l’intero universo si è manifestato affinché la vita potesse evolvere sulla terra, così che gli essere umani stessi potessero manifestarsi, così che dei ragazzi intelligenti potessero fare i professori nelle maggiori università americane – è molto gratificante per il nostro ego collettivo. Ma non ci spiega perché abbiamo bisogno di milioni di specie di coleotteri, senza contare le specie di formiche e termiti nelle foreste tropicali, esistenti da decine o centinaia di milioni d’anni prima che l’uomo arrivasse in scena. Perché tutto questo è necessario per l’evoluzione dell’intelligenza umana? Specialmente dal momento che portiamo verso l’estinzione migliaia di specie alla settimana e la maggioranza della gente non sa neanche se siano mai esistite. È un grande mistero il perché la vita e l’evoluzione coinvolgano una tale incredibile proliferazione di diversità e creatività.
Hal Blacker: Se uno pensa che l’universo abbia un’intelligenza immanente o che sia un essere pervaso da coscienza o guidato da un’intelligenza, o pensa a Dio come la mente dell’intero universo, come può spiegarsi l’apparente crudeltà della natura, il fatto che la natura sia “rossa nel dente e nell’artiglio” come ha detto il poeta?
Rupert Sheldrake: Io ritengo che se c’è un universo di diversità e in divenire, che è ciò che è il nostro universo, allora tutte le cose sono mortali. Niente dura per sempre in un universo in divenire. Se vivessimo in un universo cristallizzato e congelato dove non cambia mai niente, oso dire che non ci sarebbero né artigli né sangue. La natura dell’esistenza, però, come la vediamo nell’universo, è che tutte le cose giungono ad una fine e vengono riciclate. Anche quelle cose di maggior durata, come le stelle, giungono ad una fine. Le forme nelle quali le cose si manifestano hanno una limitata durata di vita, ogni organismo, quindi, prima o poi muore. Ed è nella stessa natura della vita animale che gli animali sopravvivono mangiando piante o altri animali. Così, se avrai degli animali che per natura devono mangiare altri organismi, ti troverai in qualche modo ad avere gli artigli e i denti rossi. Il decadimento, la malattia, la morte e la sofferenza sono parte della natura stessa di un universo di questo tipo, in evoluzione. Così, se abbiamo un universo evolutivo dove il cambiamento e il divenire sono inerenti, nel quale c’è un continuo manifestarsi e dissolversi di forme, queste sono caratteristiche inevitabili. Il Dio di tale universo, la sua coscienza, deve includere questi tipi di processi. Come ho già detto, potresti, per esempio, avere un universo diverso, dove tutto è per sempre congelato in una cristallina unità. Quello, però, sarebbe un diverso tipo d’universo, non in divenire, senza sviluppo, e anche senza creatività. Sembra una conseguenza inevitabile del nostro universo quella d’avere i denti rossi e gli artigli, e la sofferenza, il decadimento, la malattia e la morte.
Hal Blacker: Molte persone trovano piuttosto inconsistente l’idea che, in definitiva, l’universo sia un tutt’uno intelligente e buono.
Rupert Sheldrake: Non vedo nessuna ragione per cui un tutto intelligente e buono debba essere pensato come un essere congelato senza tempo. Questa è la concezione greca di Dio. Quell’ebrea concepisce un Dio che lavora nel tempo, nella storia, in processo. La concezione greca si rifà alla visione platonica di un qualcosa di completamente privo di corpo, totalmente distaccato dal mondo naturale, fluttuante, al di là del tempo e dello spazio, in eterna stasi. Non c’è dubbio che questo è un aspetto dell’Essere Divino, un tipo di un essere assoluto, piuttosto che qualsiasi senso del divenire. Io credo che questo sia un polo della divinità. Ma c’è un altro aspetto della divinità che ha a che vedere con il divenire, il procedere, il tempo, e questo è molto enfatizzato nella tradizione ebraica e cristiana, ma non molto in quella orientale. Tutti noi, che ci piaccia o no, siamo formati dal senso occidentale del procedere, del divenire, del significato della storia, delle cose che si sviluppano e cambiano nel tempo. Se qualcuno vuole un Dio che non è coinvolto in tal modo nel tempo, ci sono cammini religiosi basati su quella visione. Uno può vedere l’intera creazione come un grande errore, come niente, se non una serie di futili e infiniti cicli di manifestazione, nascita e morte, e rinascita e nuova morte e così via, avanti per sempre. A quel punto la sola risposta è una specie di caduta verticale dentro il regno di un essere senza tempo, dove dimentichi tutto, lasciandolo alle spalle.
Vivendo in India, ho scoperto che qualche insegnante indù aveva acquisito questa visione, e anche alcuni buddisti Theravada. Il loro unico intento è quello di staccarsi interamente da questo mondo del divenire e sottoporsi ad un decollo verticale nella salvezza individuale. Non penso che questa visione sia molto attraente per la maggior parte degli occidentali. Siamo troppo imbevuti, forse, dal condizionamento culturale del voler fare qualcosa o aiutare le persone o salvare il mondo. Tutta la nostra cultura ne è pervasa. Forse è solo un modo diverso di rispondere al senso del divino. Penso, però, che la sofferenza e il procedere siano inerenti al senso occidentale della divinità. Nella visione cristiana è assolutamente chiaro. Gesù fu crocefisso. Non è certo un Dio immune alla sofferenza, staccato dal procedere, dalla storia e così via, anzi, ha un aspetto del suo essere all’interno di tutto ciò.
Hal Blacker: Trovi che questa visione occidentale riceva più sostegno dalla scienza, in particolare dalla teoria scientifica dell’evoluzione, rispetto alle altre visioni?
Rupert Sheldrake: Direi che tutta la visione occidentale dell’evoluzione afferma che l’intero universo è in un processo di sviluppo e cambiamento nel tempo, che c’è un processo di sviluppo storico inerente. Nella maggior parte delle tradizioni Indiane o Buddiste come anche in quella greca, si ha una visione ciclica della storia, C’è solo un infinito riproporsi di cicli. Solo nella religione ebraica, e in quelle religioni derivate come la cristiana e l’islamica, si ha questa forte enfasi sul procedere e sul tempo. E ora l’occidente viene fuori con la teoria dell’evoluzione, e improvvisamente porta alla luce che questo non è solo il modo di procedere della terra, ma dell’intero universo. È questa una vasta proiezione e giustificazione culturale dei nostri assunti religiosi? O è una fantastica conferma degli stessi da parte della scienza? È difficile sapere qual è dei due.