L'Atlantico o gli Urali?
di Francesco Lamendola - 14/11/2006
Uno sguardo anche distratto al planisfero terrestre fa balzare all'occhio una circostanza sorprendente e alquanto innaturale: i legami secolari fra Asia ed Europa si sono allentati al punto che perfino la Russia - paese di civiltà europea e che occupa, da solo, circa metà della superficie dell'Europa - vista da Londra, Parigi, Roma o Berlino appare quasi come un corpo estraneo; col mondo islamico il dialogo e la comprensione sono sempre più difficili; India, Cina e Giappone sembrano appartenere a un alro mondo. Si ha l'impressione di essere tornati ai tempi di Marco Polo, quando l'Asia costituiva un mistero, una realtà "altra", remota e quasi irraggiungibile, posta ai confini della realtà; o a quelli di Cristoforo Colombo, che sperava di raggiungere il Cipango ed il Catai navigando sempre verso occidente, animato dal miraggio delle spezie e della seta. Viceversa il continente nordamericano, che solo negli ultimi secoli è entrato nel quadro storico europeo, si è imposto come referente privilegiato e, complici le due guerre mondiali e la "guerra fredda" col suo ricatto nucleare, ha praticamnente assogettato la vecchia Europa, trasformandola in una sua appendice, anzi in un suo avamposto. Ma il "rozzo cocchiere americano", per usare l'espressione di Michele Federico Sciacca, è davvero iu grado di traghettare l'Occidente verso le sfide del terzo millennio?
Da Berlino si può viaggiare comodamente in treno fino all'Oceano Pacifico, sulle rotaie della Transiberiana, da oltre un secolo; eppure i giovani di Berlino, come quelli di Londra, Parigi, Roma, Varsavia, si sentono spiritualmente più vicini ai loro coetanei di Los Angeles. Artisti, scrittori, giornalisti europei si sentono di casa a New York, ma non a Mosca, Kazan e tantomeno a Vladivistok; scienziati europei fanno la spola tra le due sponde dell'Atlantico, ma non sono mai stati più a est di Vienna; professori universitari europei tengono cattedra a Yale o Harvard, mai però si sognerebbero di insegnare in Russia, per non dire in India o in Cina; imprenditori che fanno la spola fra il vecchio continente e Chicago pensano che Mosca, Delhi o Pechino siano più lontane della Luna; e persone anche di media cultura sanno più cose della politica, della storia, della letteratura, della musica leggera statunitensi di quante ne sappiano del proprio Paese, mentre la storia, la filosofia e l'arte dell'Asia (e della stessa Europa orientale) sono per esse una vera e propria tabula rasa. Dopo il 1945, complici le due guerre mondiali, la "guerra fredda" e il lungo ricatto atomico, ci siamo abituati a considerare tutto questo come perfettamente normale, mentre basta uno sguardo anche frettoloso al planisfero terrestre, per non parlare di un qualunque manuale di storia anteriore a quella data, per afferrare istantaneamente tutta l'innaturalità di un tale stato di cose.
Il rapporto fra Europa ed Asia che per millenni, attraverso invasioni e migrazioni, scambi commerciali e culturali, scontri e incontri religiosi, ha costituito la linfa delle civiltà che sono fiorite nel continente euro-asiatico, si è assotigliato fino ad apparire come una fastidiosa zavorra, peggio: una eredità imbarazzante. Che cosa abbiamo a che fare, tuonava Oriana Fallaci, con quei barbari maomettani che se ne stanno col culo all'aria per cinque volte al giorno e che, invece di contribuire al progresso dell'umanità, sprecano il loro tempo in preghiere interminabili? Molti intellettuali, più discreti o più ipocriti della Fallaci, non lo dicono ad alta voce, ma pensano: "Che cosa abbiamo a che fare con gli Indiani che bloccano il traffico delle loro grandi città quando una mucca sacra fa per attraversare la strada; con quei Cinesi dai disegni incomprensibili, che celano i loro pensieri dietro un enigmatico sorriso; o con quei Giapponesi che si disperano a milioni quando muore il loro "divino" imperatore o che si commuovono davanti a un ciliegio in fiore del sacro Fuijama, ma che hanno fatto di Tokyo una New York più aggressiva, più inquinata, più produttiva, più esasperatamente "occidentale" dell'originale? E gli stessi Russi, sono forse europei? Non c'è in loro il peso evidente del retaggio tartaro, di un dispotismo asiatico che da Ivan il Terribile a Stalin, Eltsin e Putin ha evidenziato la loro impossibilità di essere veramente europei, cioè riconducibili agli schemi mentali e ai comportamenti tipici dell'Occidente? Non parliamo dei popoli balcanici: relitti storici che il naufragio dell'Impero Ottomano ha lasciato a riva dietro di sé, rompicapi irrisolvibili che da Sarajevo al Kosovo, dalle foibe di Basovizza alla pulizia etnica di Srebrenica sfidano le capacità di comprensione dell'europeo occidentale. Quei ragazzi kosovari che nel 1999 sputavano in faccia alle truppe ONU perché queste, facendo cordone, impedivano il linciaggio della minoranza serba; che guardavano con occhi carichi d'odio quei loro coetanei francesi in divisa mimetica, quasi che li detestassero e li disprezzassero più ancora degli stessi Serbi, dalle cui violenze erano stati appena liberati, parevano appartenere a un altro mondo, a un altro tempo, a un altro universo etico e spirituale.
Invece non è così. La ragione per cui l'europeo occidentale si sente spiritualmente vicino agli Americani e lontanissimo da Russi, Arabi, Indiani, Cinesi e Giapponesi è sostanzialmente il lavaggio del cervello che sessant'anni di predominio statunitense gli hanno fatto subire. L'oblio dei legami millenari con l'Asia è l'altra faccia della medaglia dell'oblio di sé medesimo. Lo stesso termine "Occidente" è un clamoroso falso storico perché sottintende un legame spirituale fra le sponde dell'Atlantico più forte di quello da sempre esistente fra la regione atlantica dell'Eurasia e quelle indo-pacifiche della stessa. Il fatto che un parigino o un milanese si "sentano" più di casa a New York o a Los Angeles che a Praga o a Budapest (per non dire a Kiev, Istanbul, Gerusalemme) è la spia di un oblìo radicale delle proprie radici e della propria identità. Barbaro non è chi viene da lontano, ma chi dimentica e rinnega le proprie origini, diceva qualcuno. A forza di sorbirci film e telefilm americani, di ascoltare musica americana, di leggere romanzi americani, di comprare jeans e magliette americani (o con scritte americane) abbiamo finito per perdere i legami con la nostra civiltà e la nostra storia. Anche l'espressione "America", del resto, è un falso storico: "America" è quel continente che va dallo Stretto di Behring al Capo Horn ed è, quindi, per oltre due terzi (dal Capo Horn al Rio Grande) di lingua e cultura latina (e un'altra enclave latina è in Canada, nel Québec francofono). Ma per noi gli Stati Uniti sono diventati l'America tout-court, così come il grido di Monroe "l'America agli Americani" voleva dire, ed è stato in pratica, "l'America allo zio Sam": e il primo a farne le spese è stato il Messico che, col Tratto di Guadalupe-Hidalgo del 1848, ha lasciato nelle sue poderose mandibole una buona metà del suo territorio (per non parlare dei legittimi abitanti del nord America, quei "pellerossa" che gli Statunitensi hanno semplicemente cancellato, come se l'immenso territorio fra l'Atlantico e il Pacifico fosse res nullius, terra di nessuno).
Ora, c'è una cosa che distingue profondamente la pax americana, imposta all'Europa occidenale nel 1945 e a quella centro-orientale nel 1991, dalla pax macedonica sulle poleis greche, o dalla pax romana sull'intero bacino mediterraneo, o dalla pax mongolica su gran parte dell'Eurasia e perfino dalla pax hispanica di Carlo V e Filippo II: l'ipocrisia, la pretesa di una superiore moralità, di un peso di civiltà auto-evidente. Figlia, in questo, della pax britannica dell'età vittoriana, quando un quarto delle terre emerse (un quarto delle terre emerse!) godevano del privilegio di prosperare all'ombra dell'Union Jack, la pax americana si autoalimenta di un circolo "virtuoso" di presunzione ideologica e schiacciante superiorità economica, incarnando il dèmone della modernità nella sua forma più estrema e brutale. Nata con i due funghi di Hiroshima e Nagasaki (e oggi, finalmente, sappiamo quanto furono irrilevanti le pretese "ragioni militari" nell'impiego dell'atomica, di contro a quelle politiche e psicologiche), la pax americana ha potuto realizzare un inganno pressoché unico nella storia del mondo: travestire l'imperialismo più sfrenato sotto le vesti rassicuranti e benevole di un potere umanitario e paternalistico che esercita la polizia dell'intero pianeta al solo fine di mantenere pace, democrazia e benessere per il più gran numero possibile di abitanti della Terra.
Abbiamo così assistito senza batter ciglio, anzi prendendo la propaganda più rozza e spudorata per oro colato, allo spettacolo straordinario di un popolo, nei cui cromosomi vi è il doppio, incancellabile crimine della schiavitù dei neri e del genocidio degli Indiani, ergersi a supremo giudice e giustiziere di tutti i crimini contro l'umanità, come la "pulizia etnica" di Milosevic nel Kosovo, o di Saddam Hussein nel Kurdistan; e farsi esportatore, con le buone o con le cattive, dell'economia di mercato, cioè della rapina mondiale delle multinazionali, e della democrazia, cioè di un sistema politico attualmente basato sulla manipolazione sistematica della "verità" e sull'inganno demagogico che rende possibile la dittatura de facto di potenti lobbies finanziarie che agiscono nell'ombra. Per decenni abbiamo fatto il tifo, nelle sale cinematografiche, per i cow-boys leali e coraggiosi che devono difendersi da orde di indiani incivili, crudeli e sleali; salvo poi, con Soldato blu di Raplh Nelson, obbedire altrettanto ciecamente al contrordine e piangere la triste sorte del "buon selvaggio" di rousseiana memoria: tutto previsto e tutto calcolato dall'industria hollywoodiana, l'importante è il business. Per decenni abbiamo fatto il tifo per i "buoni" marines che liberavano l'Europa dall'incubo nazista; dimenticando i criminali bombardamenti con bombe incendiarie sulle nostre città, la fucilazione dei soldati italiani fatti prigionieri durante lo sbarco in Sicilia, le stesse bombe atomiche lanciate su due città giapponesi indifese e abitate solo da anziani, donne e bambini… Per decenni i nostri capi di Stato si sono profusi in ringraziamenti ai presidenti americani per averci "liberati" nel 1943-45 e hanno deposto fiori sulle tombe dei ragazzi yankee caduti sulle spiagge di Normandia: dimenticando che se gli Stati Uniti hanno avuto 50.000 morti in tutta la seconda guerra mondiale (compreso il fronte del Pacifico), l'Unione Sovietica, per esempio, ne ha avuti 20 milioni, oltre metà dei quali erano civili.
E ancora: per decenni abbiamo ringraziato gli Americani per l'ombrello atomico che ci offrivano generosamente, spalancando loro enormi basi militari, terrestri, navali ed aeree, sacrificando un pezzo dopo l'altro della nostra sovranità e dignità, tollerando interferenze politiche d'ogni sorta, ricatti e minacce, complotti dei servizi segreti statunitensi e beffarde violazioni del codice penale (quanti Italiani si ricordano ancora della strage del Cermis? Eppure son passati pochi anni, e tutto si è concluso in una farsa ingiuriosa). Per decenni, affascinati da Fonzie e da Gary Cooper, da Luois Armstrong e da Andy Warhol, abbiamo pensato che americano è bello, che non ci può essere niente di più intelligente che masticare chewin-gum o bere Coca-Cola, indossare magliette targate Berkeley o pettinarci come Elvis Presley e ballare come John Travolta. Nell'Editto di Teodorico si legge che il re "barbaro" considerava degno di elogio il Goto che voleva assomigliare a un Latino, meritevole di disprezzo il Latino che volesse somigliare al Goto. Noi non ci siamo vergognati di voler assomigliare ai barbari e, horribile dictu, in tale operazione - anche quand'era più grottesca, come nel celebre film di Alberto Sordi - ci siampo piaciuti, stregati dal caratteristico autocompiacimento che gli Americani mettono sempre in tutto quello che fanno, anche nelle cose più banali, squallide e perfino nefande. Non abbiamo visto quei sorrisi di compiacimento stampati sulle facce dei torturatori e delle torturatrici di Abu Grahib, addirittura accanto a mucchi di cadaveri martoriati e oltraggiati?
Dicevamo che uno dei segreti del successo nel presentare la pax americana non come l'imperialismo più totalitario nella storia del mondo (Tacito, per bocca del capo britanno Calgaco, diceva che i Romani volevano sottomettere e devastare anche i deserti; oggi si potrebbe dire che il Sistema Solare non basta alle brame imperialistiche a stelle e strisce) è il suo carattere di estrema modernità. L'americanismo, anzi, è la quintessenza della modernità: cioè di quella parabola storica che, iniziata in Europa con la cosiddetta Riviluzione scientifica del 1600, si è caratterizzata sempre più come un valore autoreferenziale basato sulla visione del mondo desacralizzata, riduzionistica, meccanicistica, edonistica, individualistica, prona adoratrice della velocità, della tecnica e del dio denaro. L'America, insomma, piace perché è moderna; il turista europeo preferisce i grattacieli di Manhattan o le spiagge di Malibu perché sono l'incarnazione di ciò che è moderno; mentre Vienna o Budapest sono terribilmente démodé; Bucarest e Belgrado sono Terzo Mondo; Mosca è Asia Delhi e Pechino sono aliene, lunari, extraterrestri. Nel mito dell'America gli intellettuali europei (anche quelli più colti e raffinati, come lo erano, per fare solo qualche nome, Mario Soldati, Giuseppe Prezzolini e Cesare Pavese) hanno voluto vedere solo il vitalismo di Walt Whitman, l'abolizionismo di Abraham Lincoln, il pragmatismo di John Dewey, il New Deal di Franklin Delano Roosevelt, il volto buono e onesto degli eroi di cartapesta del cinema: Spencer Tracy, Henry Fonda, Humphrey Bogart.
Senonché, l'avvento della modernità è stato l'inizio dell'agonia della civiltà europea. Il filosofo George Berkeley lo aveva intuito e sperava di fondare una missione alle Isole Bermude, in pieno XVIII secolo, per offrire all'Occidente la possibilità dii ripartire daccapo, a contatto con le forze "fresche" dei popoli amerindi, non ancora guasti dal materialismo, dal meccanicismo e dal nichilismo. Per l'Europa, quindi, l'aver reciso i profondi e antichissimi legami con l'Asia e aver idolatrato il Vitello d'Oro dell'America ha svolto la funzione di alienare definitivamente gli elementi tradizionali ancor presenti nella propria civiltà - amore e rispetto del passato, fierezza del presente, fiducia nel futuro - per arrendersi senza condizioni alle forze demoniache di uno sviluppo senz'anima, di una tecnologia senza senso etico, di un attivismo senza scopo, di una mercificazione autodistruttiva e necrofila. Il mondo ha perso il suo alone sacrale, la sua luce misteriosa si è spenta insieme alla perdita del senso del limite e del senso del mistero. Why not?, "perché no?" è diventato la bandiera dell'Occidente sradicato, ottenebrato, stravolto: se esistono i mezzi per farlo, perché non farlo? E tutto è divenuto lecito, tutto ha trovato una giustificazione utilitaristica: buono è ciò che "funziona" (dunque la scienza, in primo luogo: o meglio questa scienza riduzionistica e quantitativa affermatasi dopo Galilei, Cartesio e Francesco Bacone), "cattivo" ciò che non dà risultati immediati, che non produce utili.
Viviamo, diceva Guénon, nel triste e miasmatico regno della quantità, che celebra nella società di massa, nella scuola di massa, nel turismo di massa, nella cultura (sic) di massa, i suoi malinconici riti e i suoi amari trionfi. L'Europa non ha più un'idea: tutto ha svenduto - lei che è stata la patria di Aristotele e di Virgilio, di San Francesco e di Dante, di Erasmo da Rottedram e di Leonardo, di Shakespeare e di Bach - in cambio di un piatto di lenticchie: ha abbandonato il sontuoso palazzo che abitava, pieno di luce e di bellezza, per ridursi a vivere nel buio delle fetide cantine. La parabola della civiltà europea è la parabola della modernità eretta a valore assoluto, dove - come affermava Romano Guardini - l'individuo si crede sempre più libero, mentre è sempre più schiavo di meccanismi standardizzati e impersonali, di un sistema capillare di tipo burocraticoi ed economico che riduce i valori a numeri, dove la funzione prevale sul significato; dove il singolo, per dirla con Kierkegard, è sempre più appiattito e annullato da una massiccia e sistematica omologazione. Il sogno nietzschiano dell'Oltre-uomo si è spento nell'umiliazione dell'autoimbarbarimento consapevole e compiaciuto; così come il sogno leopardiano dell'ultra-filosofia (di un sapere, cioè, capace di riunire ragione e poesia, per ritrovare il legame perduto con la natura) è tristemente tramontato nel trionfo di uno scientismo becero e triviale, che tutto appiattisce sul metro di un logos strumentale e calcolante, che trasforma i valori in interessi e riduce l'uomo a strumento della sua stessa tecnica.
Ma è tempo di reagire. Non possiamo semplicemente cavalcare la tigre (come pensava Julius Evola), perché non possiamo permetterci di attendere passivamente (e magari di affrettare) l'esito catastrofico di questa corsa del treno impazzito della modernità, lanciato a tutta velocità su di un binario morto. No, non c'è più tempo per lasciare che la civiltà europea tocchi il suo Nadir: forse non vi sarebbe più un nuovo inizio. L'apprendista stregone si è spinto troppo oltre, ha evocato forze troppo potenti che non sa più controllare e che stanno per travolgerlo irreparabilmente. Forse è già accaduto: Platone, narrando il mito di Atlantide, dice che quella gloriosa civiltà finì per autodistruggersi in un eccesso di hybris, quando i suoi sapienti imboccarono la pratica della magia nera e scatenarono le forze della natura, che sommersero l'intero continente. Noi, però, non dobbiamo permettere che si arrivi a quel punto, se abbiamo abbastanza coraggio e lucidità per arrestare la marcia alla catastrofe. Forse il Kali Yuga che è alle porte vedrà comunque il tramonto definitivo della civiltà europea: europea e non occidentale, perché con il secondo termine si comprende anche quella "americana" che però, a ben guardare, è molto più lontana - quanto ai valori - di quel che non si immagini comunemente (un esempio per tutti: la pena di morte, che la coscienza europea ha respinto dai tempi di Cesare Beccaria e che invece piace tanto agli Americani). Tuttavia, noi Europei dobbiamo trovare in noi stessi la forza di reagire a questo gioco al massacro che consiste in una accelerazione sempre maggiore lungo le strade della modernità. E per far questo è necessario riscoprire le nostre radici che, per quanto soffocate dai rovi e avvelenate dagli scarichi inustriali, sono forse ancora vitali.
All'interno di una tale volontà e di un tale progetto, riscoprire la stretta via degli Urali e abbandonare l'ampia via dell'Atlantico potrebbe costituire una delle strategie per la salvezza. Immensi sono i tesori di cultura, di saggezza, di amore per la verità che le civiltà asiatiche hanno ancora da offrirci, per quanto esse stesse siano minacciate, in misura maggiore o minore, dalla nostra stessa malattia: una americanizzazione selvaggia e frenetica, un corsa al produttivismo e all'efficientismo sul cui altare si sacrificano gli enti e i valori senza rimorso e senza rimpianto. E non solo le grandi civiltà, ma anche le piccole hanno molto da insegnarci. È noto, ad esempio, che lo tsunami dell'Oceano Indiano in un solo luogo non ha fatto alcuna vittima: nelle "selvagge" isole Andamane, i cui abitanti - fermi a un livello di civiltà materiale che si sarebbe indotti a definire primitivo - hanno sentito l'avvicinarsi dell'onda devastatrice e sono stati in grado di mettersi in salvo: senza apparecchiature tecnologiche, senza strumentazioni scientifiche, perfino senza telefono e senza telegrafo.
C'è una profonda lezione in tutto ciò, se la sappiamo comprendere. Che non è e non può essere quella di rinnegare la facoltà della ragione, ma di riportare il pensiero scientifico entro una prospettiva più ampia, ove non siano ignorate o derise le istanze sovra-razionali, ma dove tutte le facoltà umane trovino la possibilità di esplicarsi, progredire e abbellire la nostra vita, dandole senso e valore. La via degli Urali, la via del Caspio e del Volga, non è solo la via di Attila e di Gengis Khan; è anche la via del ritorno a casa, alla nostra identità, alle nostre radici.
C'è - in particolare - un delitto di cui dobbiamo purificarci, dopo aver fatto la debita espiazione: l'assassinio della civiltà contadina. La sua morte è stata silenziosa, come scrive Ferdinando Camon, ma tutt'altro che naturale: è stata un autentico delitto, consumato nella nostra più completa indifferenza. Il disastro del Vajont ne è un simbolo: l'ebbrezza della tecnica e della sete di guadagno ha letteralmente travolto il mondo contadino della media valle del Piave, colpevole di essere rimasto sostanzialmente al di qua della modernità. Nulla potremo costruire, se non comprenderemo il male che abbiamo fatto a noi stessi sacrificando la nostra tradizione in nome di un progresso puramente economico. Certo, la civiltà contadina non potrà ritornare a vivere. Ma, così come nella vita del singolo, nella vita dei popoli gli errori e le colpe devono essere affrontati, razionalizzati, gestiti, senza di che non sarà mai possibile ritornare a un'esistenza normale. Il sangue sparso di Abele non chiede vendetta, ma chiede espiazione. Solo una società posseduta, alla lettera, dalle forze del male, non sa riconoscere i propri misfatti e crede di poter giocare con le spoglie delle sue vittime. I membri della società segreta americana Teschi e ossa, di cui fanno parte personaggi come Bush padre e figlio e il cui fine è il dominio mondiale di una élite occulta, prestano giuramento sul teschio del valoroso capo indiano Geronimo. E gli elicotteri da combattimento statunitensi che portano distruzione e morte in Afghanistan e in Iraq si chiamano Apache: che ne diremmo - osserva Noam Chomsky - se i nazisti avessero scritto "ebreo" sulla fusoliera dei loro famigerati Stukas? Neppure i nazisti avevano spinto la loro impudenza fino a un tal punto.
Tornare a casa, dunque. Dopo tanto distruggerre, ricostruire. Dpo tanto cementificare, piantare alberi. Dopo tanto correre, fermarsi e riflettere. Dopo tanta violenza stupoida e inutile, riscoprire il vero valore della pace: non come assenza di guerra, ma come rimozione delle cause dell'odio, dell'invidia, della vendetta e, soprattutto, dell'avidità. Come diceva Dante nella profezia del Veltro, è la lupa, cioè la cupidigia, il nostro peggior nemico: ed è dentro di noi, non fuori. Non è Bin Laden, non è il terrorismo, non è neanche il fondamentalismo islamico. Uomini politici come Bush e Blair vorrebbero farci credere che la priorità, per l'Occidente (loro usano a ragion veduta questa espressione, poiché vorrebbero arruolarci nella loro folle crociata) è quella di affrontare una minaccia che incombe dall'esterno e che esso deve perciò difendersi, stringendo i ranghi e intensificando i legmi fra Europa e America. Non è vero. Gli interessi dell'Europa non coincidono con quelli degli Stati Uniti. Per l'Europa, la proprietà è ritrovare sé stessa. E per far questo non deve costruire muri, ma gettare ponti. La paura è figlia dell'odio e produce soltanto frutti amari. L'Europa non ha bisogno di odiare nessuno perché è abbastanza grande da riprendere la sua funzione spirituale, che è stata il suo vero titolo di gloria nei secoli. Sono i piccoli botoli ringhiosi, come Bush padre e figlio, che sanno soltanto odiare e seminare incertezza e spavento. Lasciamoli condurre la loro piccola politica per i loro meschini interessi; l'Europa ha ben altro di cui occuparsi: deve sapere guardare lontano, deve saper pensare in grande.