L'ecologia profonda
di Guido Dalla Casa - 04/11/2005
Fonte: filosofia-ambientale.it
La nuova visione della realtà è una visione ecologica in un senso che vamolto oltre le preoccupazioni immediate della protezione dell’ambiente. Per
sottolineare questo significato più profondo dell’ecologia, filosofi e scienziati
hanno cominciato a fare una distinzione fra “ecologia profonda” e
“ambientalismo superficiale”. Mentre l’ambientalismo superficiale è interessato
ad un controllo e ad una gestione più efficienti dell’ambiente naturale a
beneficio dell’”uomo”, il movimento dell’ecologia profonda riconosce che
l’equilibrio ecologico esige mutamenti profondi nella nostra percezione del
ruolo degli esseri umani nell’ecosistema planetario. In breve, esso richiederà
una nuova base filosofica e religiosa.
Fritjof Capra
Premesse
L’idea più corrente che viene evocata quando si parla di azione
“ecologista”, è che questa consista essenzialmente nel vigilare affinchè il
“naturale progresso dell’umanità” avvenga senza inquinamenti e senza
modificare troppo l’ambiente, che è considerato bello e quindi da salvare. In
sostanza, quella che viene chiamata azione ecologista è la “protezione
dell’ambiente”: non inquinare, mantenere pulito il paesaggio, installare filtri e
depuratori e conservare qua e là alcune isole di natura dove recarsi a scopo
ricreativo, i “Parchi”.
La componente di pensiero sopra accennata è oggi abbastanza presente
nell’opinione pubblica e la sua massima diffusione è certamente utile. Tutto
questo non è sufficiente, perché il problema ecologico nasce dall’atteggiamento
della cultura dominante, dal pensiero di fondo della civiltà industriale, dal suo
inconscio collettivo. E’ un problema filosofico, molto più che un problema
pratico o tecnico. Se non si modifica profondamente la visione del mondo, si
ottengono solo risultati transitori, effetti di spostamento nel tempo di problemi
insolubili.
Anche se le schematizzazioni sono sempre riduttive, al solo scopo di
intendersi più facilmente, riporto la distinzione del filosofo norvegese Arne
Naess, dividendo il pensiero ecologista in due categorie:
- l’ecologia di superficie, che ha per scopo la diminuzione degli inquinamenti
e la salvezza degli ambienti naturali senza intaccare la visione del mondo della
cultura occidentale;
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- l’ecologia profonda, in cui vengono modificate radicalmente le concezioni
filosofiche dominanti dell’Occidente: in questa forma di pensiero si dà
un’importanza metafisica alla Natura, superando il concetto restrittivo e
fuorviante di “ambiente dell’uomo”.
Una delle obiezioni che viene mossa all’ecologia profonda è che non
comporterebbe azioni concrete: è bene evidenziare ancora che le svolte
culturali non sembrano concrete solo perché si svolgono su tempi lunghi. Sono
però molto più profonde e radicali.
Probabilmente la rivoluzione copernicana e la concezione evoluzionista
sembravano assai poco “concrete” agli effetti della vita pratica. Eppure hanno
causato modifiche di atteggiamento che si risentono per secoli e da cui
derivano intere serie di scoperte-invenzioni fin troppo concrete. Cartesio non
poteva certamente immaginare quali conseguenze pratiche avrebbe avuto il
diffondersi del suo pensiero dopo qualche secolo.
a. L’ecologia di superficie
Secondo questa ecologia, in cui si mantiene la distinzione fra “l’uomo” e
“l’ambiente”, la Terra va tenuta pulita e piacevole perché è “l’unica che
abbiamo”, è “la nostra casa”, è un Pianeta fatto per noi.
Anche l’idea di conservare la Terra in buono stato per le generazioni
future attribuisce valore alla Natura soltanto in funzione della nostra specie:
l’antropocentrismo non viene messo in discussione.
I limiti dello sviluppo
Il rapporto del Club di Roma (anno 1971) era stato impostato
semplificando il sistema mondiale con cinque grandezze: le risorse naturali, la
popolazione umana, gli alimenti, l’inquinamento e la produzione industriale.
Erano poi stati schematizzati i tipi di interazione fra queste grandezze su scala
mondiale e si erano studiate le tendenze future estrapolando gli andamenti
verificatisi dall’inizio dell’éra industriale.
Come noto, il risultato dello studio fu che il sistema sarebbe collassato
attorno agli anni 2020-2030, naturalmente se non si fossero modificati gli
andamenti e le interazioni, cioè il modo di vivere. Attorno al 2030, quando i
cinque diagrammi dello studio “impazziscono”, la Terra avrà livelli di
degradazione intollerabili.
Il rapporto del Club di Roma ebbe sostanzialmente tre grossi pregi:
- di introdurre il problema con un linguaggio scientifico-matematico, che
viene di solito abbastanza accettato dagli ambienti ufficiali, anche se soltanto
come metodo;
- di evidenziare l’idea di crescita esponenziale, cioè soffermarsi a
considerare cosa significano i fenomeni che hanno un simile andamento nel
tempo;
- di richiamare l’attenzione sulla gravità del problema demografico: se non si
arresta l’attuale esplosione della popolazione mondiale, ogni altro
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provvedimento diventa inutile; oggi l’umanità aumenta di un milione di
individui ogni cinque giorni.
E’ utile comunque ricordare che l’impostazione al problema ecologico
data dai “limiti dello sviluppo” non è stata sostanzialmente contestata sul piano
scientifico, è stata soltanto ignorata dal mondo ufficiale, impossibilitato ad
arrestare una spinta che persiste da due o tre secoli, proprio perché non si può
cambiare il modo di vivere senza modificare il pensiero filosofico.
I Parchi Naturali
Una delle politiche dell’ecologia di superficie è quella di tenere isolate
alcune aree naturali del Pianeta salvandole dall’invadenza del cosiddetto
progresso. Tale pratica, pur non intaccando i fondamenti che causano il
dramma ecologico e lasciando a volte il sospetto che fuori da queste aree sia
consentito ogni sfruttamento, è comunque da sostenere in ogni modo. Infatti è
uno dei modi concreti in tempi brevi per salvare specie ed ecosistemi altrimenti
destinati all’estinzione: essi potranno riprendersi nelle aree adatte del Pianeta
quando sarà avvenuto il cambio di filosofia.
Spesso la finalità pubblicizzata per i Parchi è piuttosto antropocentrica,
cioè essi verrebbero creati per il “godimento dell’uomo”, ma questo è l’unico
modo - date le premesse della cultura dominante - perché tali Parchi possano
essere accettati.
La questione etica e il problema dei “diritti”
Se portiamo il problema in termini giuridici, nell’ecologia di superficie la
natura va protetta perché è “res communitatis” e non è “res nullius”. Resta
comunque sempre “res”, si tratta di proprietà, di patrimonio comune, qualcosa
da salvaguardare, ma che si può e si deve utilizzare o godere da parte di
qualcuno o di tutti. L’uomo è sempre al centro, è il riferimento di tutto, vivente
o non vivente.
Gli ecosistemi, gli animali, le piante non sono soggetti morali né di
diritto, ma hanno valore solo in funzione umana (proprietari, gruppi,
collettività, ecc.): l’animale o l’ecosistema sono evidentemente considerati
“non coscienti” o “non senzienti”. Non si capisce proprio come venga stabilito il
confine, o quale sia la caratteristica che fa attribuire la qualifica di “soggetto
morale” o “soggetto di diritto”. Se fosse qualunque forma di intelletto o di
facoltà intelligente - a parte la solita difficoltà di stabilire la “quantità di soglia”
- non si capirebbe proprio come vengano assegnati diritti ben precisi (come
soggetti) a un pugno di cellule o ai menomati o cerebrolesi gravi, o a persone
in coma, purchè si tratti esclusivamente di umani.
La distinzione nasce da un pregiudizio metafisico. L’etica religiosa
dell’Occidente non ha riservato alcuna attenzione ai non-umani, escludendoli
da ogni considerazione morale e relegandoli, in quanto privi di anima, nella
sfera dei mezzi al servizio dell’uomo. L’ascesa della filosofia dello scientismo
tecnologico, che degrada tutto a oggetto, ha ulteriormente peggiorato
l’atteggiamento collettivo.
Anche per l’ecologia di superficie, possiamo vedere cosa significa “etica
ambientale”: essa è stata definita come l’insieme dei princìpi che regolano il
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rapporto tra l’uomo e l’ambiente, princìpi che determinano specifici doveri a
carico dell’uomo. Per mondo naturale si intende “l’intero complesso degli
ecosistemi naturali del nostro pianeta, assieme a tutte le popolazioni animali e
vegetali che compongono le comunità biotiche dei singoli ecosistemi”. E’ chiaro
dunque che parlando di tutela delle specie in via di estinzione si parla
necessariamente anche della conservazione dell’ambiente in generale; anche
perché purtroppo le specie minacciate non sono poche, non si limitano a
qualche uccello esotico, qualche grosso carnivoro o ad animali dalla pelliccia
particolarmente pregiata o ad altri casi sporadici del genere.
Ogni movimento ecologista che derivi da concezioni marxiste, cattoliche
o protestanti rientra nella categoria dell’ecologia di superficie. Tali posizioni
sono figlie dell’Occidente, danno grande valore all’uomo e alla “storia” e hanno
come mito il progresso. Queste concezioni ritengono che l’universale (cioè la
“materia” o il “mondo fisico”) sia una specie di orologio che l’uomo, unico
essere diverso, può e deve modificare a suo vantaggio.
Il fatto di ritenere che esista un Orologiaio (il Dio dell’Antico Testamento)
oppure che non esista (materialismo) provoca differenze ben poco rilevanti.
Con entrambe le posizioni ci si comporta nei confronti della Natura pressochè
allo stesso modo. Da una parte si ritiene che il diritto-dovere di modificare il
mondo provenga da Dio, dall’altra da una specie di “merito selettivo” che ci ha
resi, in sostanza, gli unici detentori di “spirito”; ma gli effetti sono
praticamente gli stessi.
Entrambe le posizioni si ispirano alle concezioni filosofiche di Cartesio,
oltre che all’idea esasperata di dominio dell’uomo sulla Natura, propria del
filosofo inglese Bacone, tanto per fare solo qualche esempio.
Nell’immaginario dell’Occidente, l’Universo è un’enorme, complicatissima
Macchina smontabile, con l’optional del Grande Ingegnere.
Quasi tutti i movimenti ecologisti oggi esistenti, essendo figli della cultura
occidentale e della sua concezione del mondo, si ispirano ai princìpi qui
accennati: del resto, se così non fosse, probabilmente avrebbero un sèguito
numerico minore.
Questa posizione assomiglia abbastanza all’idea di un organismo visto
come “ambiente” delle cellule nervose o di qualsiasi organo considerato come
centrale.
b. L’ecologia profonda
Nell’impostazione di pensiero dell’ecologia profonda, la nostra specie non
è particolarmente privilegiata. Gli esseri viventi e gli ecosistemi, come tutti gli
elementi del Cosmo, hanno un valore in sé. Tutta la Natura ha un valore
intrinseco e unitario, così come ha un valore in sé ogni sua componente,
formatasi in un processo di miliardi di anni. La specie umana è una di queste
componenti, uno dei rami dell’albero della Vita.
Il mondo naturale non è “patrimonio di tutti”, ma è ben di più: è di
miliardi di anni anteriore alla nostra specie. Se proprio si vuol parlare di
appartenenza, è l’umanità che appartiene alla Natura e non viceversa.
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In questo quadro l’idea occidentale-biblica sulla posizione umana appare
più o meno come un curioso delirio di grandezza.
Mentre nell’ecologia di superficie la Terra va rispettata perché è di tutte
le generazioni presenti e future, nell’ecologia profonda la specie umana non è
depositaria né proprietaria di alcunchè. Anche l’idea di “progresso” sottintende
una determinata concezione culturale ed una certa visione della storia che non
sono condivise da tutta l’umanità. Gran parte delle culture umane sono vissute
nella Natura senza preoccuparsi del progresso e della storia. Anche se niente è
statico, tutto è dinamico e fluttuante, questo non significa che siano necessari i
concetti di progresso e regresso: il miglioramento o il peggioramento si
riferiscono solo a parametri e valori propri di un particolare modello e non
hanno alcun significato universale.
Il concetto di progresso è un’invenzione dell’Occidente per distruggere le
altre culture umane e restare l’unica cultura del Pianeta: ha senso soltanto se
si prende a riferimento una particolare scala di valori, che è sempre relativa ed
arbitraria.
Il termine “sviluppo” significa in realtà il grado di sopraffazione della
nostra specie sulle altre specie e della civiltà industriale sulle altre culture
umane.
Invece nell’ecologia profonda non esiste alcun modello privilegiato. Sono
valori “in sé” la situazione stazionaria e la varietà e complessità delle specie
viventi, degli ecosistemi e delle culture. I termini “crescita” e “diminuzione”
sono complementari, in equilibrio dinamico, senza connotazioni positive o
negative.
Di conseguenza i concetti di risorse e rifiuti non sono necessari: essi
presuppongono infatti l’idea che si eseguano processi o modifiche tali da
prelevare qualcosa di fisso - le risorse - e scaricare qualcos’altro - i rifiuti, il
che significa un funzionamento non-ciclico, incompatibile con la condizione
stazionaria e vitale dell’ecosistema. Con queste premesse la cosiddetta
“produzione” è - in ultima analisi - una produzione di rifiuti.
In sostanza nell’ecologia profonda il concetto di “ambiente” viene
superato per lasciare posto alla percezione di far parte di una Entità psicofisica
molto più vasta, cioè della Natura, che si manifesta nella massima varietà ed
armonia, nel più grande equilibrio dinamico delle specie; è un sistema
autocorrettivo dotato di Mente.
Nell’ecologia profonda non si tratta di “coniugare sviluppo e ambiente”
ma di rendersi conto che il dramma ecologico è nato nella civiltà industriale e
ha invaso il mondo al seguito della tumultuosa espansione di questo modello. Il
mito dell’industrializzazione è sorto nella cultura occidentale solo due o tre
secoli orsono.
Tutta la nostra cultura “ottocentesca” di oggi è permeata dall’antitesi,
dalla contrapposizione con la natura: la vita è vista come “lotta contro le forze
della natura”. In altre filosofie questo significherebbe “lotta contro l’Organismo
al quale apparteniamo”, il che è privo di senso e causa di nevrosi e conflitti.
Non per niente dove è più degradato l’ambiente naturale c’è anche più crisi
umana, con alti tassi di criminalità, psicopatie, suicidi.
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L’idea di uomo, nel pensiero dell’Occidente, è costruita in
contrapposizione all’idea di animale: umanità e animalità vi appaiono come
termini antitetici, sia nella concezione biblica che nell’idea scientifica di
derivazione baconiana. Ma si tratta di una contrapposizione largamente mitica
e scientificamente insostenibile.
Etica e diritto nell’ecologia profonda.
Gli studi di un’etica non limitata soltanto alla nostra specie e di una
giurisprudenza che non veda gli umani come unici soggetti di diritto sono
appena nascenti in questi ultimi anni, a parte isolate eccezioni di precursori.
Fra questi possiamo ricordare Aldo Leopold che, nel suo Almanacco di un
mondo semplice (RED, 1997), affermava che “una cosa è giusta quando tende
a preservare l’integrità e la bellezza della comunità biotica nel suo complesso.
Una cosa è sbagliata quando manifesta la tendenza contraria”. La concezione
di Leopold è olistica, in quanto la Natura è intesa come un tutto, avente vita e
valore propri.
Non c’è nulla che impedisca di essere soggetto morale e dotato di diritti
non solo a un animale o a una pianta, ma anche a un fiume, a una montagna,
a una palude.
Oggi sappiamo dall’etologia - ma anche dal senso comune - che almeno
gli animali provano piacere e dolore e hanno interessi preferenziali: insomma
non esistono differenze rilevanti fra umani e altri animali. Quindi non ci sono
ragioni plausibili per escluderli da considerazioni etiche.
Poiché inoltre non è possibile stabilire confini fra animali e vegetali, né
fra individui e “ambiente circostante” e comunque con una visione olistica e
sistemica, non c’è motivo per escludere qualunque entità naturale dall’essere
soggetto etico.
Se sentiamo usare per elementi della Natura termini come anima,
dignità, diritti, ambito morale, non dobbiamo pensare che si stia parlando in
senso analogico o poetico, o che si tratti di accostamenti arditi.
“Lo spirito dell’albero, della montagna, del fiume” non sono analogie
azzardate, ma rispecchiano l’anima del mondo, che era ben riconosciuta da
quelle culture umane che dedicavano gran parte del tempo al magico e al
sacro.
Anche rispettare la foresta amazzonica perché “appartiene agli indios” è
già una concezione da ecologia di superficie ed è assai riduttivo, perché
ribadisce che la Natura vale qualcosa in quanto appartiene a qualcuno.
Probabilmente l’affermazione stupirebbe alquanto le culture originarie locali,
per le quali risulta invece evidente il fatto che sono loro ad “appartenere” alla
foresta, come totalità più grande. La foresta deve esistere integra perché ne ha
il diritto etico, in quanto ha un valore in sé.
Ricordiamo comunque che l’ecologia profonda, come filosofia di vita, non
è nata negli anni Settanta dalle idee di Arne Naess o da qualche movimento di
minoranza di oggi: da tremila anni in India, e da tempi ancora più lunghi in
tante culture animiste, idee ben diverse da quelle che hanno poi foggiato la
civiltà occidentale avevano avuto modo di diffondersi nella mente collettiva,
come dimostrano questi pensieri, tratti da antichi testi indiani: “Ogni anima va
rispettata e per anima si intende ogni ordine, ogni vitalità che la sostanza
possa assumere: il vento è un’anima che si imprime nell’aria, il fiume un’anima
che prende l’acqua, la fiaccola un’anima nel fuoco, tutto questo non si deve
turbare”. In uno dei sutra si loda chi non reca male al vento perché mostra di
conoscere il dolore delle cose viventi e si aggiunge che far danno alla terra è
come colpire e mutilare un vivente.
Naturalmente pensieri di ecologia profonda sono prodotti anche nella
nostra cultura, ma si tratta di solito di casi isolati: la corrente principale
dell’Occidente ha invece condotto all’attuale mentalità antropocentrica e
materialista.
inserito nel sito di filosofia ambientale nel novembre 2005
Dal libro: Dalla Casa Guido (guido1936@interfree.it), “ECOLOGIA PROFONDA”, Ed.
PANGEA – Via Drovetti 37 – 10138 TORINO- ISBN 88-86964-08-0
Tel. 348-8227790 e-mail: fr.sgroi@tiscalinet.it sgroi.franco@libero.it