Quell’impunità totale garantita a Israele
di Roberto Zavaglia - 15/11/2006
Anche la strage di Beit Hanun verrà presto dimenticata senza che la comunità internazionale prenda provvedimenti pratici
H
a ragione il governoisraeliano ad affermare
che la strage di
Beit Hanun è stata un errore
tecnico. Se, al posto di uccidere
diciannove palestinesi in un
colpo solo, Tsahal si fosse
limitato a farne fuori tre o
quattro, come fa quasi quotidianamente,
la cosa non
avrebbe suscitato nessuna reazione.
Adesso Israele deve,
invece, sopportare l’attenzione
della stampa ed incassare le
rituali e caute condanne delle
Cancellerie europee.
Il Premier Olmert sa che si
tratta, comunque, di disagi
passeggeri che non produrranno
conseguenze concrete. Tra
qualche giorno sarà tutto
dimenticato e la situazione a
Gaza e nel resto della Palestina
riprenderà la sua normalità,
fatta di omicidi più o meno
mirati, di incursioni e rastrellamenti
dell’esercito, di occupazioni
illegali di territori, di
blocco economico per i territori
dell’ANP.
Francamente, viene meno
anche la voglia di ragionare
sull’ennesima strage che resterà
impunita. Cosa c’è di nuovo
da aggiungere? Dobbiamo
ripetere che i palestinesi sono
vittime della più grave ingiustizia
della nostra epoca o che
gli israeliani non hanno nessuna
intenzione di trattare seriamente
per giungere a una pace
con qualche tratto di equità?
Sono cose che chiunque non
sia ottenebrato da pregiudizi
ideologici conosce già da molto
tempo, giacché gli avvenimenti,
da troppi anni, vanno
sempre nella stessa direzione.
Sono solamente le interpretazioni
che gli vengono date a
suggerire che si possano finalmente
produrre dei cambiamenti
decisivi.
Prendiamo, per l’appunto,
Gaza. Si ricorderà come la
decisione israeliana di abbandonare
la "Striscia" avesse
suscitato la stupita e calorosa
approvazione della stampa
occidentale. Si diceva che era
venuto il momento di rivalutare
la figura e l’opera di uno
statista come Sharon il quale
si era dimostrato inflessibile
in guerra, ma generoso e intelligente
nel momento in cui la
pace era a portata di mano.
Eppure, era noto che Gaza
non era mai stata un obiettivo
strategico di Israele e che il
disimpegno da quei territori
era finalizzato a mantenere il
grosso degli insediamenti illegali
in Cisgiordania. Non era
nemmeno difficile comprendere
comprendere
che si restituiva ai palestinesi
una terra sotto stretta
osservanza degli israeliani i
quali l’avrebbero sigillata
ermeticamente, impedendone
qualsiasi sviluppo economico,
salvo compiervi nuove occupazioni
temporanee ogniqualvolta
l’avessero ritenuto
opportuno.
Oggi la "libera" Gaza è un
grande carcere a cielo aperto,
con porte di uscita quasi sempre
tenute chiuse dai secondini
di Tsahal. È un territorio
con l’agricoltura distrutta dai
bombardamenti, dove si
sopravvive con 700 dollari
all’anno pro capite.
Questo i governi occidentali
lo sapevano al momento della
sua "liberazione", lo sanno
oggi e lo sapranno dopo la
prossima strage, senza che tale
consapevolezza li spinga ad
alcuna decisione per cambiare
la situazione. La realtà è che
la cosiddetta comunità internazionale
non ha in programma
alcun piano serio. Pensiamo
che sono in molti, ancora,
a parlare incredibilmente di
Road Map, come se ci trovassimo
all’interno di un percorso
che ha subìto qualche battuta
d’arresto, ma procede
comunque verso un obiettivo
stabilito e condiviso anche
dagli israeliani.
Prendiamo un politico come il
nostro ministro degli Esteri
che passa, chi sa mai perché,
per un uomo particolarmente
attento alle ragioni dei palestinesi.
Ebbene, D’Alema si era
dichiarato favorevole all’impiego
di una forza di interposizione
internazionale tra palestinesi
palestinesi
e israeliani per porre
fine alle violenze e favorire il
dialogo. Dopo la strage di
mercoledì scorso, egli si è
però sentito in dovere di
aggiustare il tiro, affermando
che una simile soluzione
necessita dell’approvazione di
tutte le parti in causa. Anche
D’Alema è perfettamente conscio
che gli israeliani non
accetterebbero mai la presenza
di soldati stranieri, eppure fa
lo stesso la sua dichiarazioncina
per mostrare quanto sia
pensoso e preoccupato della
situazione. In realtà, gli sono
chiari i canoni del politicamente
corretto e il fatto che le
sue parole hanno un’influenza
vicina allo zero.
La sola potenza esterna in grado
di incidere sulla realtà della
Palestina, lo sanno tutti, sono
gli Stati Uniti, senza i cui aiuti,
militari e non, Israele non
potrebbe continuare a mostrarsi
tanto protervo. È però
altrettanto noto che gli USA
non intendono forzare la mano
allo Stato ebraico. Non che
Washington sia soddisfatta di
come vanno le cose. Preferirebbe
di gran lunga una situazione
pacificata in grado di
raffreddare l’ostilità del mondo
islamico nei suoi confronti
e, ciclicamente, prova a scalfire
l’intransigenza del suo
alleato, ma mai al punto di
minacciare di togliergli il suo
decisivo appoggio nel conflitto.
Chi pensa che la sconfitta dei
Repubblicani possa cambiare
le cose non sa, o finge di non
conoscere, le mosse delle
Amministrazioni democratiche
del passato rispetto alla
questione palestinese. Il sostegno
ideologico, molto prima
che strategico, degli Stati Uniti
al sionismo non consente a
nessun inquilino della Casa
Bianca di superare certi confini.
Quanti in USA si chiedono
"perché ci odiano" potrebbero
facilmente rispondersi pensando
a quali immagini, in questi
mesi, i bambini arabi, tra i fatti
del Libano e quelli della
Palestina, vedano sugli schermi
televisivi. Non è arduo
immaginare che, fra i tanti, ci
sia, fisiologicamente, una percentuale
di futuri adulti che
maturerà la scelta di vendicare
il sangue dei fratelli con il
sangue dei nemici e dei loro
alleati.
Il resto - scontro di civiltà,
presunta incompatibilità tra
Islam e libertà individuali - è
solo chiacchiera vuota per
nascondere ciò che è sotto gli
occhi di tutti.