Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / The Departed (recensione)

The Departed (recensione)

di Fabrizio Bolognesi - 15/11/2006

     
 

Con The Departed, remake della trilogia orientale "Infernal affairs", Scorsese ci offre un'impietosa e amara riflessione sulla violenza metropolitana, sul mondo del crimine e sul difficile rapporto tra individuo e identità
Senza soluzioni di continuità, con un montaggio sì fluido ma “psichico” che va cioè a montare le sensazioni e le emozioni di attori e spettatori, Martin Scorsese ci porta dentro l’azione mantenendola però distaccata nello sguardo. I secchi colpi di pistola che scandiscono le svolte dell’azione fanno il paio con le svolte narrative affidate alle varie agnizioni sparse nella pellicola. Il piano fisso, secco e classico, cozza invece con le parentesi più oniriche, più “psichiche”, ed è il palesamento dell’anima doppia di tutto il film. Due sono i protagonisti, due le messe in scena di cui sono attori; due sono i figli, Damon e Di Caprio, e due i padri, Nicholson e Sheen; doppio è l’amore della stessa donna; doppia è forse la sessualità irrisolta di Matt Damon; doppi i termini in gioco: legge e criminalità; e infine doppie sono le anime dei due bei pezzi da 90 che protagonizzano in questo nuovo affresco americano di Martin Scorsere. L’incipit del film mette subito le cose in chiaro: Nicholson è il Diavolo, e ci viene presentato in controluce per fargli assumere quest’aurea luciferina che tanto gli sta bene. Ed è proprio lui a mettere in chiaro il cardine del film, ovvero che quando hai una pistola puntata contro, che differenza c’è tra polizia e criminali? L’ambiguità delle forme violente, sempre in continuo dibattito, è una costante nel cinema di Scorsere, ed è anche l’ambiguità del suo sguardo, polivalente tra un linguaggio classico e uno moderno, da fine esteta. Una polivalenza che rintraccia i propri perché estetici e poetici nelle maglie dello sviluppo senza fronzoli, senza scene inutili, depurato da tutto ciò che ai veri grandi registi non serve, come in Eastwood. Ed è un’ambiguità, quella della violenza, che Scorsese aveva già affrontato, da un punto di vista eziologico, con “Gangs of New York” narrando la nascita della Grande Mela (e dell’America), dalle ceneri della violenza. L’importante è non far finta di niente. Anche chi scrive è convinto che l’America sia un gran paese. Musica, cinema, letteratura, paesaggi, on the road, la controcultura dei ’70... tutto arriva da lì, come purtroppo arrivano da lì anche il MacDonald, la pena di morte, lo scontro razziale, il cieco liberalismo economico che un giorno ti fa Re e il giorno dopo ti fa povero, il fondamentalismo anabattista di Bush e cricca, la demonizzazione del sesso e la sporca giustificazione della guerra e l’uso delle armi ai privati. L’importante è non prendersi per il culo e riconoscere che il grande paese che amiamo ha delle falle gigantesche, e dei fantasmi del passato ancora più giganteschi. Quando nel ’63 moriva Kennedy, il manicheismo americano che divideva buoni e cattivi secondo i paramentri più militari possibili s’arrestava definitivamente e per l’America iniziava una stagione di contraddizioni e di scontri sociali che sconfinarono nel ’68, nella beat generation, nelle proteste contro il Vietnam, nei film americani dei ’70 (il cinema più bello al mondo per il sottoscritto). L’importante è non far finta di niente e capire che l’America può essere rischiosa in questa sua consapevole abiezione dialettica tra bene e male, racchiusa forse, credo, nell’immagine finale che chiude il film, tutta da interpretare: quel ratto sul davanzale del balcone con sfondo la cupola dorata del Palazzo del Congresso. Di Caprio è sempre più bravo. Di detrattori ne ha e ne avrà sempre, ma poverini, si capisce che ce l’hanno piccolo e sono invidiosi. Matt Damon è regolare, classico. Martin Sheen è tenero, paterno. Mark Whalberg è anche inutile se vogliamo, Alec Baldwin no, serve. Ma su tutti troneggia gigantesco Jack Nicholson. Tre sono le incarnazioni recenti del Diavolo, quelle almeno che con classe apologizzano davvero il Male e risultano imbattute e imbattibili: il diavolo di Al Pacino in “L’Avvocato del Diavolo”, il Gene Hackman de “La Giuria” e infine oggi il Jack Nicholson di “The Departed” che entra in scena non come un mito, ma come un archetipo. Lui è l’origine di tutto. Semina la pellicola di personali intuizioni con cui condisce il suo mefistofelico personaggio, dalle aberrazioni sessuali alla violenza spiccia e isterica di un gran villain sul viale del tramonto. Nicholson è quindi l’espressione pura e più riuscita del Male che il regista va tratteggiando dall’inizio della sua carriera, un Male che ha le sue origini nelle stesse origini della nazione americana, capace di picchi altissimi di umanità e coscienza etica, come capace delle più schifose bassezze concepibili. Il Frank Costello di Nicholson è, quindi, nell’immaginario scorsesiano, in buonissima compagnia: tra il Bob De Niro di “Taxi Driver” e di “Cape Fear”, e il Macellaio di Daniel Day-Lewis di “Gangs of New York”. I più completi esempi dell’origine e della metafisica crescita del Male per Scorsese. Nella sua atemporalità, nel suo gioco onirico (su tutte la scena al cinema porno con Nicholson che sembra proprio il Diavolo che scende all’inferno), nelle sue cromature e nei suoi tagli di luce, nel suo secco piano fisso, nel montaggio psichico e nella giustapposizione senza soluzioni di continuità delle scene e delle inquadrature, nei suoi dialoghi al vetriolo (è già un classico il pepato botta-riposta tra Whalberg e Baldwin), nell’emozionante colonna sonora dove si alternano a più riprese Rolling Stones e Pink Floyd, “The Departed” è un film che esalta le doti artistiche di Martin Scorsese e punta il dito sull’irrisolto piano esistenziale di un paese, l’America, che ha fatto della dialettica spesso becera, manichea e moralista, tra bene e male, il proprio marchio di riconoscimento.