Nel 350mo della Grande Peste di Genova
di Stefano Serafini - 16/11/2006
La Grande Peste.// Genova 1656-1657/ del ligure Aldo Cerro, in
religione frate Romano da Calice, è un inatteso saggio storico di bella
scrittura e grande interesse. L’opera è lo sviluppo della tesi di laurea
dell’Autore (Milano, 1960). A molti parrà reso più attuale dalla cronaca
sulla minaccia dell’influenza aviaria da virus H5N1 con la quale ci
allarmano i media; cronaca che, a dire il vero, da tale confronto ch’è
anche una lezione di realismo storico, esce assai ridimensionata.
Segnaliamo subito che la prosa e lo spirito etico dei quali il libro è
intessuto hanno un respiro quasi manzoniano, senza cadute imitative o
retoriche. Probabilmente ciò è inevitabile, viste cultura e religiosità
dell’Autore, ma soprattutto dato il soggetto già immortalato con acribia
dal grande romanziere nella sua Milano. E difatti l’Autore si riferisce
alle riflessioni e agli affreschi del Manzoni sulla medesima esperienza
(non senza correggerlo quando di dovere, né far mancare meritate
bacchettate ad altri autori, quale Camus, per le imprecisioni storiche),
e con pietà cristiana, da frate cappuccino qual è. Ma l’impressione è
che sia piuttosto la forza del tema ad assimilare gli atteggiamenti e
dunque persino lo stile, poiché tanto orrore e sentimento d’impotenza
riducono le forme possibili di reazione umana in chi osserva, come in
chi li vive. Siamo anzi grati all’Autore per non essere scivolato
nell’apologetica religiosa, com’era facile, e di essere rimasto
costantemente storico per tutto il suo pregevole lavoro. Anche se,
paradossalmente, pure in questo caso l’orrore della rappresentazione
deve aver giocato la sua parte.
Innanzitutto il lettore viene introdotto al problema della peste
bubbonica, dal punto di vista storico, scientifico e sociale, con chiare
nozioni mediche ed epidemiologiche. La breve storia generale della peste
fino al XVII secolo s’incunea nella vicenda particolare di Genova, come
i topi grigi dell’Asia (/rattus norvegicus/) fecero nel 1727 alla foce
del Volga, quando all’improvviso e senza spiegazioni milioni di animali
si riversarono in Europa di là dal grande fiume, le cui acque per giorni
brulicarono bigie di dorsi agli occhi degli inorriditi testimoni. Tale
esodo di massa, improvviso, inaspettato e ancora misterioso, decretò in
pochi anni e per via naturale la fine del dominio dei ratti neri
europei, vettori del contagio, e con esso dissolse il flagello della
peste dal nostro continente. Fu una fortuna, giacché il bacillo
responsabile dell’orribile sciagura (/Yersinia pestis/), dovette
attendere il 1894 per venire individuato da Alexandre Yersin e
Shibasaburo Kitasato, e il primo rimedio non comparve che nel 1935
(sulfamidici), seguito solo nel 1944 dalla più efficace streptomicina.
Naturalmente, viceversa, quando nel 1656 la peste si riversò su Genova,
la sua storia era ancora nera come il /rattus rattus/ europeo, e
l’invasione costò la cancellazione del 60% della popolazione umana, cioè
circa 50.000 morti, in meno di due anni.
Prima di procedere l’Autore apparecchia con metodo le proprie fonti
storiografiche, ci presenta i personaggi della vicenda che con lettere e
resoconti ci permetteranno di conoscere cosa avvenne in città. La Genova
del tempo, una popolosa e ricca repubblica dei traffici, non era nuova
all’esperienza del morbo, come tutti i grandi nodi commerciali
dell’epoca e del passato, dunque per molti versi preparata a respingere
il contagio e ad affrontare le emergenze. I testimoni addotti da Romano
da Calice sono tutti genovesi. Ciascuno visse di persona la pestilenza,
impegnandosi nella resistenza cittadina e lasciandone dettagliate
documentazioni, fossero essi ecclesiastici, come l’agostiniano Antero
Maria Micone rettore del Lazzaretto di Consolazione, aristocratici
deputati al governo cittadino fra cui Nicolò Spinola, o uomini d’affari
e di mondo, quali il notaio Giò Bartolomeo Capasso e l’annalista della
Repubblica Filippo Casoni.
La seconda parte del libro entra nel racconto terribile dell’invasione
biologica, rintracciando le falle del sistema sociale e sanitario della
città, i ritardi, le colpe, i primi interventi, l’apparente concludersi
dell’incendio e il suo successivo, drammatico e inarrestabile divampare
nel corso del biennio 1656-1657. L’indagine delle cause degli eventi e
la narrazione procedono di pari passo, costantemente accompagnate dalle
testimonianze oculari: non solo relazioni e corrispondenza privata, ma
anche composizioni letterarie e persino dipinti, riprodotti nelle oltre
trenta immagini che corredano il volume.
La parte terza approfondisce quelli che l’Autore definisce “i problemi
della peste”: l’organizzazione di una società sotto giudizio universale,
con migliaia di morti ogni giorno riversi per le strade e lasciati colà
a imputridire nel disordine generale; la profilassi per i vivi, la cura
dei malati e dei moribondi, l’isolamento e l’approvvigionamento della
popolosa città. Col realismo dei fatti e della risposta pratica che ad
essi si opponeva, aiutandosi con la narrazione di numerosi episodi,
alcuni assai crudi ma senza concessioni al contemporaneo gusto
dell’orrido (la storia stessa è infatti maligna e algida a sufficienza,
ed è questo che dimenticano i nostri cultori dell’/horror/), l’analisi
porta il lettore a una comprensione stereoscopica, niente affatto
astratta (“storica”, “sociologica”) dell’evento.
Tra questi c’interessa menzionare il dibattito pro e contro i “profumi”,
cioè un sistema di disinfestazione degli ambienti ottenuto bruciando
sostanze velenose – innanzitutto zolfo e solfuro di mercurio e di
arsenico –, che in qualche modo dovette aiutare a rallentare il
progresso della malattia uccidendo insetti e topi, oltre a qualche
“profumatore” cui toccò d’inalare per incidente i miasmi da lui stesso
prodotti. L’idea dell’inventore di tale metodo, il cappuccino francese
Maurizio da Tolone, era di “purificare” le cose. Ammesso che egli avesse
intuito una relazione fra ratti e peste, non era alla profilassi
antiparassitaria che egli addebitava gli effetti positivi dei suoi
“profumi”, né ad essa si rivolgevano le ragioni dei critici. Tuttavia
esisteva una generalizzata consapevolezza, ottenuta su base empirica,
del rapporto fra la mancanza di igiene dei luoghi socialmente più poveri
e peste. Che è come dire una relazione fra miseria e malattia. In
effetti i tuguri sporchi e malsani dei quartieri popolari
rappresentavano un ottimo ricettacolo per topi neri e pulci indiane, i
due vettori della /Yersinia pestis/. Pur senza riconoscere tale
connessione, ma superando in preveggenza molti medici dell’epoca,
l’autorità genovese già nel giugno 1256 aveva incaricato il Magistrato
dei poveri di vigilare sull’igiene delle case meno abbienti, sotto la
pena di privare dei sussidi statali coloro che non obbedissero.
La comprensione degli avvenimenti raggiunge il suo coronamento nella
quarta parte del libro, laddove si documenta la formidabile reazione
d’animo della parte migliore della popolazione, senza distinzioni di
censo. Dal doge Giulio Sauli, ai religiosi, ai semplici popolani,
riceviamo episodi di generosità, eroismo, senso civico, amore nudo,
quali non ci si aspetterebbe in una situazione tanto estrema e orribile,
a testimonianza che l’inferno non è una condizione umana esteriore, e
non lo è neanche il suo contrario. La città sussulta sotto i colpi
infallibili del male, è a terra, ma non si arrende, fugge la morte come
un organismo vivo. Lo fa attraverso una gestione razionale che
incredibilmente riesce a prendere il sopravvento sulla distruzione, o
almeno sugli esiti del suo corso: raccogliere e ardere i cadaveri
abbandonati, isolare i malati per i quali approntare lazzaretti,
procacciare il pane, nonostante ciò comporti il consapevole estremo
sacrificio dei suoi responsabili, i più dei quali avevano, peraltro, la
possibilità di sottrarsi al dovere civico e al morbo grazie ai mezzi
economici e al censo.
La parte quinta fornisce statistiche e bilanci, con un importante
capitolo dedicato alle tracce lasciate nell’arte dal grandioso passaggio
della morte di massa.
L’Editore ha voluto arricchire il volume raccogliendo recensioni e
riconoscimenti del libro, che era già stato pubblicato nel 1992 in copie
limitate a La Spezia incontrando un grande favore di critica, e una nota
biografica sull’Autore.
Ci limitiamo a concludere che molte osservazioni concrete di Romano da
Calice danno di che riflettere a riguardo della prosopopea della scienza
medica di allora, ma fanno pensare anche che se la scienza è migliorata
coi secoli, non lo è la retorica che, soprattutto nei frangenti
peggiori, l’accompagna. Retorica la quale allora esaltava, pretendendo
di combattervi la peste, «/l’antidoto di Re Mitridate... fatto di dua
fichi, dua noci e poca ruta con sale/»; mentre oggi dichiara in TV che
il cancro è stato (quasi) sconfitto. Senza dilungarsi su quella vicenda
attuale alla quale abbiamo fatto riferimento all’inizio, la quale, del
solo nome della peste assente, ha ulteriormente e sconciamente
ingrassato una nota Casa farmaceutica internazionale, grazie alle
vendite di un antidoto inutile.
Romano da Calice [Aldo Cerro], /La Grande Peste.// Genova 1656-1657/,
Nova Scripta, Genova, 2004, terza edizione con prefazione di Ida Li
Vigni, introduzione di Fernando Piterà e postfazione di Paolo Aldo
Rossi, 270 pp., 33 immagini a colori, 32,00 €, ISBN 88-88251-08-01.
Rivista di Biologia / Biology Forum, 99 (2006) 2, pp. 215-219 -