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Più di una riserva. Le compagnie minerarie vogliono estrarre l'uranio dai territori Navajo

di Alessandro Ursic - 25/11/2006

Con la domanda mondiale di uranio alle stelle, vista la crescita degli impianti di energia nucleare, le compagnie minerarie sono tornate a mettere gli occhi su quella che un analista ha definito “l’Arabia Saudita dell’uranio”: una regione nel sud-ovest degli Stati Uniti, divisa tra Arizona, Utah e New Mexico, che ricade nella riserva dei Navajo. I circa 300.000 nativi americani della zona, già scottati da casi di cancro con frequenza superiore alla media, si oppongono ai piani di estrazione. Ma ancora una volta rischiano di venire schiacciati nella corsa verso la nuova frontiera.
 
Una centrale nucleareIl boom dell’uranio. Le riserve delle terre Navajo sono già state sfruttate intensamente durante la guerra fredda: da qui proviene l’uranio finito poi nell’arsenale atomico degli Usa. Oggi la domanda del minerale, più che da scopi bellici, è spinta da esigenze energetiche. Cina e India, due paesi in rampa di lancio che insieme contano più di due miliardi di abitanti, hanno un bisogno crescente di energia, che intendono soddisfare anche costruendo nuove centrali nucleari. Gli stessi Stati Uniti, interessati a ridurre la dipendenza dal petrolio mediorientale, hanno intenzione di puntare nuovamente sull’atomo. Di conseguenza, se nel 2001 il prezzo dell’uranio era sceso fino a 3 dollari al chilo, ora si aggira sui 28 dollari. E l’industria mineraria si lecca i baffi.
 
I timori per la salute. Negli Usa, al momento, l’uranio viene estratto in Texas, Wyoming, Nebraska e prossimamente anche in Colorado. Ma i giacimenti più ricchi si trovano in terra Navajo, una riserva che si estende su circa 70.000 chilometri quadrati, poco meno di un quarto dell’Italia. Alcune compagnie del settore hanno già avviato le pratiche per accaparrarsi i diritti dell’estrazione, dentro la riserva o ai suoi margini, nonostante il parere contrario dei leader della comunità nativa. Non è solo l’orgoglio di essere padroni della propria terra: dopo le estrazioni intensive dei decenni scorsi, gli abitanti della riserva temono conseguenze per la loro salute. Casi di tumori agli organi riproduttivi, in particolare, si verificano tra le ragazze Navajo in un numero diciassette volte maggiore rispetto al resto delle ragazze statunitensi. Secondo molti, il materiale radioattivo si è propagato da miniere abbandonate, contaminando l’aria e le falde acquifere.
 
Uno scorcio della riserva NavajoNuovi metodi. Le compagnie minerarie fanno notare che le rinnovate attività di estrazione porterebbero nuovi posti di lavoro anche per i Navajo, riducendo così la povertà nella riserva. I nuovi processi di estrazione, inoltre, sarebbero molto più sicuri che in passato. Uno di questi consiste nell’iniettare un composto di acqua, ossigeno e bicarbonato nelle rocce che contengono uranio; la soluzione, arricchita con il minerale, verrebbe poi pompata in superficie, filtrata, isolata e lavorata all’interno della miniera, cancellando il rischio di contaminazioni.
 
Rischio di contaminazioni. Ma le comunità Navajo ricordano ancora il disastro del fiume Puerco, le cui acque scorrono a sud della riserva. Nel 1979, scorie della lavorazione dell’uranio defluirono nel corso d’acqua, che i nativi utilizzano per abbeverare il bestiame e per l’irrigazione: si trattò della più grande contaminazione di materiale radioattivo nella storia degli Usa. Oggi, tra l’altro, uno dei terreni su cui hanno messo gli occhi le compagnie minerarie si trova a meno di due chilometri da sei pozzi che forniscono acqua a circa 15.000 persone. Anche per questo, il nuovo grido di battaglia Navajo è “leetso doo’da”: nella loro lingua, no all’uranio.