Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Nuovo Congresso, stesso pantano

Nuovo Congresso, stesso pantano

di William Blum - 28/11/2006


La nuova legge petrolifera irachena sta per essere approvata. Verranno stabiliti significativi accordi con le società petrolifere straniere, si privatizzeranno la maggior parte delle riserve. L’unico problema sarà quello quello di proteggere gli investimenti delle compagnie in un paese in cui la legge non esiste. Per questo la mano militare è più che mai necessaria. Per questo gli Usa, democratici o repubblicani, non se ne andranno

La buona notizia è che i repubblicani hanno perso. La cattiva notizia è che hanno vinto i democratici.

La questione principale – il ritiro degli Usa dall’Iraq – rimane così com’è.

La maggioranza degli americani è contraria alla guerra, e la stragrande maggioranza di questa maggioranza sarebbe felice se i militari Usa iniziassero a lasciare l’Iraq da domani, se non da oggi. Il resto del mondo tirerebbe un sospiro di sollievo, e la sua interminabile controversa relazione con quel posto fantastico chiamato “America” tornerebbe alla normalità.

Un sondaggio condotto dal Dipartimento di Stato Usa in Iraq, la scorsa estate, ha indagato sui sentimenti della popolazione locale rispetto all’occupazione americana. Eccezion fatta per i curdi – che hanno sostenuto gli Usa prima, durante e dopo l’invasione e l’occupazione, e che non considerano se stessi iracheni – la gran parte degli intervistati si sono mostrati favorevoli all’ipotesi di un ritiro immediato, con percentuali che sono oscillate dal 56% all’80% del totale a seconda delle zone in cui il sondaggio è stato condotto.

Il report ha evidenziato come in tutte le aree del paese, a parte le regioni curde, la maggioranza della popolazione ritiene che il disimpegno delle forze della coalizione contribuirebbe al ripristino della sicurezza e attenuerebbe le attuali violenze.

George Bush continua a dichiarare che se la gente che vive in Iraq chiederà agli Stati Uniti di andarsene, gli Stati Uniti se ne andranno. E ribadisce di sapere che gli iracheni non “sono contenti di vivere sotto l’occupazione. Neanch’io lo sarei se venissi occupato”.

Nonostante tutto questo e molto altro ancora, gli Stati Uniti in Iraq rimangono, e le predizioni degli ufficiali del Pentagono aggiungono che vi rimarranno per anni. Diverse importanti basi militari sono state costruite sul suolo iracheno; e non sono nate come strutture temporanee.

Ricordiamo che 61 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gli Usa dispongono ancora di notevoli basi in Germania. 53 anni dopo la fine della Guerra di Corea gli Usa dispiegano ancora decine di migliaia di soldati in Corea del Sud.

Washington insiste sul fatto di non poter lasciare l’Iraq fino a quando le forze di pubblica sicurezza locali e l’esercito non saranno stati adeguatamente addestrati. Non solo questo introduce migliaia di ulteriori uomini armati, sebbene solitamente in uniforme, nelle quotidiane atrocità che quotidianamente affliggono il paese, ma implica anche gli Stati Uniti starebbero pensando di occuparsi del benessere e della felicità degli iracheni – un atteggiamento che a dir poco stride con i quattro anni d’inferno che l’Iraq ha ormai passato, periodo in cui il suo popolo ha visto annientarsi la propria antica e nuova civiltà.

Ci viene continuamente chiesto di credere come la presenza militare Usa nella terra dei due fiumi non debba essere compromessa, al fine di evitare terribili ripercussioni. (“Vi bombardiamo perché vi amiamo”… potrebbe esserci scritto sul fianco di uno dei tanti missili Cruise pronti a essere lanciati). Persino nello stesso momento in cui sto scrivendo questo articolo, oggi 14 novembre 2006, leggo: “Un raid notturno Usa ha ucciso sei persone nella Baghdad orientale a maggioranza sciita, a cui sono seguite feroci proteste anti-americane. Alcuni ufficiali iracheni hanno dichiarato che a causa di un’altra offensiva Usa presso la roccaforte sunnita di Ramadi sono morte altre 30 persone”.

Allo stesso tempo, l’occupazione fomenta le ostilità dei sunniti rispetto al “collaborazionismo” sciita nei confronti delle forze straniere, e viceversa. Ad ogni attacco segue una ritorsione. E i cadaveri si accumulano.

Se gli americani si congedassero, entrambe le parti potrebbero concordare per un negoziato e partecipare alla ricostruzione dell’Iraq senza il timore di essere etichettati come traditori. Il governo iracheno sarebbe in grado di lasciarsi alle spalle l’ombra del disonore di cui viene accusato. E le forze di sicurezza del paese non verrebbero più viste come cospiratrici con gli stranieri contro i propri connazionali.

Ma allora perché gli Yankee non se ne vanno? Non è bizzarro tutto ciò? 3.000 di loro uccisi, decine di migliaia menomati. E rimangono. Perché si rifiuta nella maniera più categorica anche soltanto l’idea di un piano graduale per il ritiro? Nessun passo indietro. Niente di niente.

No, non si tratta di bizzarie. Si tratta di petrolio.

Il petrolio non è stata l’unica motivazione per l’invasione-occupazione americana, ma gli altri obiettivi sono già stati “raggiunti” – l’eliminazione di Saddam Hussein per il compiacimento di Israele, l’avvicendamento nel paese dell’euro con il dollaro per le transazioni petrolifere, l’espansione dell’impero in Medio Oriente con una serie di nuove basi.

Le compagnie petrolifere americane hanno avuto parecchio da fare durante l’occupazione – e anche prima dell’invasione – alla luce di un maggiore sfruttamento delle ingenti risorse energetiche dell’Iraq. Chevron, ExxonMobil e tutte le altre stanno fremendo. Quattro anni di preparativi sono prossimi a dare i propri frutti.

La nuova legge nazionale petrolifera irachena – redatta in un posto del mondo chiamato Washington, DC – sta per essere approvata. Verranno stabiliti significativi accordi con le società petrolifere straniere, si privatizzeranno – a suon di fiumi di denaro – la maggior parte delle riserve. L’unico problema sarà quello della sicurezza, quello di proteggere gli investimenti e il buon operato delle compagnie in un paese in cui la legge non esiste. Per questo la mano militare è più che mai necessaria.



William Blum è tra gli autori dell'antologia Tutto in vendita – Ogni cosa ha un prezzo. Anche noi.

Vedi i libri di William Blum su Nuovi Mondi Shop.

 

Fonte: Counterpunch
Traduzione a cura di Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media