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L'Impero dalle piume di cristallo.Intervista a Michael Hardt

di Giuliano Santoro - 01/12/2006

 
Abbiamo incontrato per la prima volta Michael Hardt nel 2001, nelle giornate che precedevano il G8 di Genova. Questo intellettuale discreto e disponibile insegna alla Duke University. Aveva scritto con Toni Negri «Empire», il saggio uscito per la Harvard university press allora non era stato ancora tradotto in italiano. The Time lo avrebbe definito «il manifesto comunista del nuovo millennio». E, passateci il sillogismo, se Negri è il nuovo Marx, come ha scritto Nouvel Observateur, Hardt è il nuovo Engels. «Il nuovo sistema di dominio è altro dalla vecchia forma dell'imperialismo - ci spiegò Hardt - Gli Usa avevano semplicemente ripreso la forma di dominio che le grandi nazioni europee usavano nel periodo coloniale. Nel passaggio all'Impero abbiamo cercato di collegare, concettualmente e storicamente, alcuni passaggi. Nel campo dell'estetica dal modernismo al potmodernismo, nel campo della produzione dal fordismo al postfordismo (cioè dall'egemonia della produzione di fabbrica a quella produzione sociale che chiamiamo 'immateriale'), nella forma della sovranità dall'imperialismo all'Impero. L'imperialismo ha sempre avuto come base lo stato-nazione, l'economia stessa dipendeva dalla forza dello stato-nazione. L'imperialismo è quindi basato su una dialettica del 'dentro' e del 'fuori'. Il mondo era diviso da frontiere stabili, e quindi, appunto, un 'dentro' ed un 'fuori'. Il mondo di oggi non è piatto ed indifferenziato, ma non c'è un 'fuori'. Questo è l'Impero: tutto è 'dentro' alla produzione capitalistica ». E poi: « Il capitale approfitta di comunicazione e affetto. Per questo siamo contaminati. Dobbiamo, dall'interno, aumentare le contraddizioni. Giochiamo su una linea sottile, ma è la strategia giusta».
L'11 settembre 2001, la guerra globale permanente dichiarata da Gorge W. Bush e dai suoi alleati, ha messo in discussione questa visione. Non solo i guerrafondai, ma persino i nostalgici del socialismo novecentesco si ringalluzzirono. Pareva che le vecchie forme di colonialismo fossero resuscitate e che, di fronte alla pesantezza degli eserciti, ci fosse poco da ragionare sull'«egemonia della produzione immateriale». Adesso, dopo più di 5 anni, Bush ha perso guerra infinita ed elezioni politiche. E rintracciamo di nuovo Michael Hardt.

Allora, Michael, cos'è successo in questi cinque anni?

Il colpo di stato dell'amministrazione statunitense nell'Impero è completamente fallito Dal punto di vista militare, il simbolo del fallimento è il segretario alla difesa dimissionario Donald Rumsfeld. L'ex ministro di Bush aveva cercato di sviluppare una nuova strategia militare, attraverso cui la tecnologia doveva colmare il divario della guerra asimmetrica. Ciò che chiamavano «Rivoluzione degli affari militari» era il tentativo di trasformare l'esercito in un apparato leggero, flessibile, mobile, utilizzando alte tecnologie. Mobilitando relativamente pochi uomini, si puntava ad avere una forza maggiore dell'avversario, che era maggioritario».

Quindi anche in guerra il lavoro vivo batte il capitale fisso?

L'analogia può funzionare. La resistenza all'occupazione è produzione di soggettività, mentre la macchina della guerra tecnologica non è capace di creare soggettività. Il patriottismo, una volta, funzionava come produttore di soggettività. Adesso sono solo un'armata di mercenari.

Dal punto di vista economico, come è fallito il golpe?

In Iraq hanno provato a costruire uno stato neoliberale facendo tabula rasa di quello che c'era prima, distruggendo qualsiasi organismo preesistente. Questo era il compito di Paul Bremer, il responsabile del governo provvisorio iracheno. In Iraq hanno sperimentato una via d'uscita alla crisi del neoliberismo, e ciò ha suscitato l'opposizione sociale. Volevano un'economia neoliberale assoluta e «pura», per rispondere alla crisi generale e globale. In questo senso, si può costruire una linea diretta dal Cile del 1973 all'Iraq del 2003. Un colpo di stato militare, sociale ed economico per costruire in laboratorio liberista.

C'è poi un fallimento politico...

Qui la figura centrale è Dick Cheney, il vice-Bush. Il tentativo dei neo-con era quello di trasformare Washington in Roma, di gestire il governo dell'impero globale da un unico centro. Hanno una lettura dei fatti ideologica, completamente staccata dalla realtà. L'egemonia degli Stati uniti era stato pensata senza cogliere la necessità di creare le basi perché questa egemonia si sviluppasse. Il consenso era dato per scontato. È come se Cheney si fosse bevuto la storia dei carri armati statunitensi accolti dai fiori, dai baci e dagli applausi dalla gente di Baghdad. Anche negli Stati uniti, il consenso è stato trascurato. Ciò è stato segno d'arroganza. Eppure, con l'11 settembre, Bush aveva un grande capitale da investire in termini di consenso, sia in patria che all'estero.

Vista dall'Europa, pare che l'uragano Kathrina su New Orleans sia stato punto di svolta...

Dopo la prima fase di mobilitazione contro la guerra, nel 2003, negli Stati uniti il movimento si è trasformato in un movimento contro la rielezione di Bush. Quindi è stato sconfitto, era il 2004, ed è sparito. Nell'agosto del 2005, dopo il disastro di Kathrina, l'opinione pubblica si è schierata contro Bush. I fatti di New Orleans hanno evidenziato il razzismo strutturale degli Stati uniti e la corruzione creata dalle politiche neoliberali. New Orleans e Baghdad sono vicine, da questo punto di vista. In Iraq c'erano migliaia di morti, e la sconfitta del progetto di Bush si è svelata in quei giorni terribili di New Orleans.

Un'altra cosa ci ha colpito guardando gli Stati uniti dalle nostre «sicure case europee»: le lotte dei migranti del maggio scorso...

Si tratta di un fenomeno impressionante e inatteso. Le mobilitazioni dei lavoratori migranti non sono nate nel contesto di movimenti già esistenti. Questa autonomia mi pare positiva. Ma segna anche la difficoltà di connettere vari pezzi di società. Da voi in Europa queste alleanze sono più immediate. Il grande movimento dei migranti rimane isolato, dovrebbe legarsi sia alla questione della precarietà che a quella più generale della guerra.

In Italia i movimenti sociali si sono radicati sul territorio e hanno dato vita a vertenze locali. Negli Stati uniti è accaduta una cosa simile?

Negli Stati uniti ci sono migliaia di progetti locali, anche contro le basi militari, alcuni durano da anni. Ma sono molto meno visibili che da voi. È difficile leggere i movimenti statunitensi da questo punto di vista, perché appaiono in maniera improvvisa e poi scompaiono altrettanto improvvisamente. Sicuramente queste energie poi si depositano in progetti locali. Non ci sono state grandi lotte in cui è riconoscibile l'energia dei movimenti sociali che si muovono sulle grandi tematiche. In Italia ciò avviene nelle lotte ambientaliste contro le Grandi opere (come in Val di Susa contro l'Alta velocità), nella MayDay, nel primo maggio del lavoro precario, o nelle campagne contro i Centri di detenzione per migranti.

Che rapporto c'è tra movimenti ed elezioni? C'è la possibilità di un uso strumentale di alcune forme di rappresentanza?

Purtroppo, negli Stati uniti non abbiamo nessuna speranza nei Democratici. Le elezioni del congresso ci consegnano il risultato migliore, perché per due anni avremo il governo bloccato ed è costretto a gestire la sconfitta. E il Congresso può disporre del potere d'inchiesta. Durante questi sei anni c'era un governo che agiva con modalità segrete. Invece adesso potremo sapere molte cose, in questi due anni avremo più informazioni su ciò che è successo.

Come vedi, da statunitense, la mobilitazione di questi giorni contro la base Usa di Vicenza?

La sconfitta del golpe nell'Impero, ha bloccato la possibilità di un governo unilaterale del mondo. Ciò non significa che cade il potere militare statunitense. Questa vicenda potrebbe segnare una sconfitta ulteriore. Mi pare poi che a Vicenza e in tutto il Nord-Est la protesta contro le servitù militari non sia limitata ai militanti, che pure sono molto presenti. La lotta è in rapporto col territorio. In questo è più simile alla Val di Susa che alle lotte contro la guerra.