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Il federalismo per una democrazia pluralista

di Attilio Danese - 03/12/2006

Fonte: profed

 

 

           

Uno dei problemi chiave delle società multirazziali e della crescita della com­plessità è riuscire a pensare il modo migliore di coniugare unità, dunque governabi­lità, con diversità, dunque autonomia, rendere piú effettiva la funzione decisionale della politica, senza sacrificare la sovranità popolare all’efficacia del governo[1]. Questo nodo è centrale, ma di difficile soluzione politica, perché anche di difficile articolazione teorica[2].

Il pensiero umano, infatti, avverte l’esigenza di superare la molteplicità dispersa, perché priva di raccordo e, nello stesso tempo, di evitare la concezione monolitica dell’unità.

Sul problema del rapporto tra unità e pluralità, il personalismo ha potuto offrire delle chiavi ermeneutiche significative. Il motto maritai­niano “distinguere per unire” su­pera i tentativi di unità artifi­ciosa e recupera il va­lore della diffe­renza e della sua forza unitiva, tenendo presente che non si tratta mai di di­stanza o frattura incolmabile. Infatti, la plura­lità delle persone non può essere ricondotta a marginale esteriorità e viceversa l’unità non può essere una sem­plice espressione nominale. Si cerca così di ricondurre le disquisi­zioni su in­dividuo e società ad una categoria che valorizzi la comunicazione, come realtà effettiva dell’unità, e rispetti la differenza del molteplice, per rendere ragione allo specifico, riconosciuto nella ricchezza irriducibile e inesauribile dell’essere.

Il concetto che esprime la compresenza dei due aspetti, mante­nendo viva la dinamica della relazione interpersonale, rifuggendo da artificiali mediazioni, è proprio la persona, di cui l’idea fe­deralista rappresenta una traduzione politica. Abbiamo visto infatti che col termine persona esprimiamo la convivenza di anti­nomie, quali l’unicità e l’universalità, la ca­pacità di assumere e comprendere il punto di vista degli altri, e la necessità di stare da una parte, esprimendo una prospettiva limitata, uno sguardo sul mondo che reclama altri sguardi, ma non potrebbe omologarsi ad essi.

Il problema del federalismo è quello inventare una soluzione politico-istitu­zionale che rispetti la persona, che eviti ogni scadimento della relazione tra persone e tra nazioni a “giusto mezzo”. Nelle mediazioni esso paventa sempre l’assorbimento della realtà marginale in quella centrale, oppure l’appiattimento in una terza realtà, in cui i due estremi confluiscono, occultando o annul­lando la propria peculiarità. La necessità di costruire l’unità non dovrebbe mutilare la piena valoriz­zazione di ogni persona e di ogni gruppo, nella loro unicità irripetibile. La pluralità a sua volta, per non con­durre all’anarchia, difetto qualitativamente uguale e con­trario alla massificazione, dovrebbe rico­noscere spontaneamente l’importanza del crogiuolo della relazione unitaria, grazie alla comunicazione donativa, che vincola libe­ramente il singolo all’insieme.

Si vede da queste premesse che vi è un lato inevitabilmente utopico del fede­ralismo, per la sua ambizione di unire irenicamente l’aspetto vitale della li­bertà con quello normativo e oggettivo della istituzione. Tuttavia il federalismo non ha cessato di affascinare i modelli di città utopica, di unione europea e mondiale. Il suo ideale resta quello di una perfetta corri­spondenza tra i due poli, sorretta da una eticità condivisa.

1. Evoluzione dell’idea federalista

Nel pensiero moderno c’è chi fa risalire a J. Althusius (Politica methodice digesta, 1603) le prime formulazioni teoriche che consentono il passaggio dalla repubblica corporativa di tipo medioevale alla democrazia decentrata e ar­ticolata, frutto del consenso[3].

Riflessioni più dirette sul federalismo si trovano in Kant. Suo merito è aver individuato nella pace l’aspetto sostanziale di uno Stato federalista. Così egli scrive nell’opuscolo Per la pace perpetua: “Si può pensare l’attuabilità (realtà oggettiva) di questa idea federalista, che si deve gradata­mente estendere a tutti gli Stati e deve portare alla pace perpetua: poiché, se la fortuna portasse un popolo potente e illuminato a costituirsi in repubblica (la quale per sua natura deve tendere alla pace perpetua), si avrebbe in ciò un nu­cleo dell’unione federativa per gli altri Stati, che sarebbero indotti ad entrare in essa e garantire così lo stato di pace fra gli Stati in conformità all’idea di di­ritto internazionale, estendendolo sempre più mediante altre unioni della stessa specie”[4].

Il federalismo si fa strada parallelamente al desiderio di estendere i benefici della democrazia a vasto raggio. Scrive Montesquieu nell’Esprit des lois, a proposito dello Stato federale: “Composto di piccole repubbliche, gode della bontà del governo interno di ciascuna; e, nei confronti dell’esterno, esso ha, in forza dell’associazione, tutti i vantaggi delle grandi monarchie”[5].

Per A. Hamilton (autore, insieme a J. Madison e a J. Jay, dei due volumi tal titolo The Federalist del 1788), il sistema federale è il solo nel quale il potere giudiziario può subordinare gli altri poteri alla Costituzione e nel quale il potere esecutivo e quello del capo dello Stato possono essere riuniti in un’unica persona. L’esecutivo riceve così la forza di governare bene, senza il rischio dell’autoritarismo[6].

Saint-Simon, con l’opuscolo De la reorganisation de la société européenne (1814), proponeva all’Europa un mutamento di rotta, per l’affermazione di una pace duratura. Occorreva, a suo avviso, “riunire i popoli dell’Europa in un solo corpo politico, conservando a ciascuno la propria indipendenza nazio­nale”[7], attraverso un Parlamento europeo, con poteri di giudizio sulle con­troversie, a carattere sopranazionale. E’ sorprendente notare la lungimiranza di Saint-Simon, che voleva conservare l’autonomia degli Stati e nello stesso tempo costruire condizioni di pace tra le nazioni.

In Italia, C. Cattaneo (1801-1869) è stato portatore di un progetto di espansione della democrazia tra gli Stati, attraverso l’organizzazione decen­trata del potere politico, con forte limitazione del potere centrale e con la su­bordinazione di Stati indipendenti a tale potere superiore. Per Cattaneo, il fe­deralismo avrebbe offerto la soluzione per conciliare unità e libertà. “Unità e libertà — scriveva in Stati uniti d’Italia — non possono accoppiarsi, se non alla maniera della Svizzera e degli Stati Uniti”[8]. La libertà appariva infatti le­gata a un doppio limite: all’interno il decentramento e all’esterno la subordi­nazione degli Stati ad un governo sopranazionale. “Ogni popolo — scriveva ancora Cattaneo — può avere diversi interessi da trattare in comune con altri popoli; ma vi sono interessi che esso solamente ha il potere di trattare, perché è il solo a conoscerli e a comprenderli. Esiste altresì in ogni popolo la co­scienza del suo essere, la superbia del suo nome, la gelosia della terra dei pro­pri avi. Di qui il diritto federale, ossia il diritto dei popoli, deve avere il suo posto a fianco del diritto della nazione e a fianco del diritto dell’umanità”[9]. Una tale impostazione permise a Cattaneo di percepire i limiti dello Stato na­zione e di prevederne la crisi.

In posizione fortemente critica verso lo Stato-nazione italiano, troviamo P.J. Proudhon che, in La Féderation et l’unité en Italie del 1862, scriveva: “Uno Stato di ventisei milioni di anime, come l’Italia, è uno Stato nel quale tutte le libertà provinciali e municipali sono confiscate a profitto di un potere superiore, che è il governo. Là ogni località deve tacere, lo spirito del campa­nile ridursi al silenzio: tranne il giorno delle elezioni, nel quale il cittadino manifesta la sua sovranità con un nome scritto su una scheda, la collettività è assorbita dal potere centrale; tutto ciò che riguarda l’amministrazione, la giu­stizia, l’esercito, l’insegnamento, i lavori pubblici, la polizia, i culti, ecc. fi­nisce al ministero; tutto quello che riguarda la legislazione, al Parlamento. La fusione, in una parola l’annientamento delle nazionalità particolari, dove vi­vono e si distinguono i cittadini, in una nazionalità astratta dove non si re­spira e non ci si conosce più: ecco l’unità”[10]. Ritenendo che solo il federa­lismo potesse assicurare l’accordo tra autonomia e potere, egli scriveva in Du principe fédératif del 1863: “Affinché il contratto politico… resti vantaggioso per tutti, bisogna che il cittadino, entrando in questa società: 1) abbia a rice­vere tanto dallo Stato quanto egli sacrifica allo Stato; 2) che egli conservi tutta la propria libertà, la propria sovranità e il diritto di iniziativa, salvo per la parte relativa allo speciale oggetto per il quale si è fatto il contratto e si è chiesta la garanzia allo Stato. Così regolato e inteso, il contratto politico di­venta quello che io chiamo: una federazione.… In tale sistema i contraenti… non solo si impegnano bilateralmente e commutativamente gli uni verso gli altri, ma si riservano singolarmente, nello stabilire il patto, una quantità di di­ritti, di libertà, di autorità, di proprietà, maggiore di quella che sacrifi­cano”[11]. Per Proudhon solo il federalismo può risolvere, in teoria e in pra­tica, il problema dell’accordo tra il principio di libertà e quello di autorità, la­sciando a ciascuno la propria sfera, la competenza e l’iniziativa piena. Il fede­ralismo comporta, a suo avviso, da un lato il rispetto irrinunciabile sia per il cittadino che per il governo, e dall’altro l’ordine, la giustizia, la stabi­lità e la pace.

Contro lo Stato-nazione tedesco e a favore di una soluzione federale, si batte C. Frantz che, in Der Föderalismus als das leitende Prinzip für die so­ziale staatliche und internationale Organisation, del 1879, ricorda che le nazioni sono formazioni “che nascono e muoiono nella storia e che condivi­dono questa caratteristica con lo Stato. La differenza essenziale è però che, mentre le nazionalità sorgono da se stesse e si sviluppano come per crescita naturale, per la fondazione e lo sviluppo degli Stati deve intervenire l’agire dell’uomo, l’azione cosciente e intenzionale… La vita della nazione e la vita dello Stato non sono mai identiche, contrariamente a quanto appare in superfi­cie”[12]. Il principio di nazionalità quindi non va confuso con lo Stato, perché in tal caso si ottiene una miscela esplosiva che fomenta gli animi alla belli­cosità e alla litigiosità delle guerre nazionali. Si sente in Frantz una sorta di nostalgia premoderna che lo spinge verso la soluzione federalista di stampo medioevale, quando la vita locale si sviluppava attraverso le corporazioni e le associazioni. Il suo federalismo si muove tra la direzione cosmopolita e il vincolo comunitario.

Nell’area marxista, L. Trotzkij si distingue per la condanna dello Stato nazio­nale: “La guerra del 1914 — scrive nell’Introduzione all’opuscolo Der Krieg und die Internationale — significa prima di tutto distruzione dello Stato nazio­nale in quanto spazio economico autonomo… Per il proletariato, in queste condizioni storiche, non si tratta della difesa della patria nazionale sorpassata, che è divenuta l’ostacolo principale per lo sviluppo economico, ma si tratta della creazione di una patria più potente e più solida — gli Stati Uniti repubbli­cani d’Europa, come fondamento degli Stati Uniti del mondo”[13].

La crisi dello Stato nazionale passa per la contraddizione tra la tendenza delle forze produttive a uscire dai limiti dello Stato nazionale e le dimensioni nazionali del potere politico. L. Trotzkij mette in evidenza come in Europa que­sta tendenza delle forze produttive tedesche ad uscire oltre i limiti dello Stato nazionale porta ad esplosione la contraddizione, attraverso la guerra mondiale. Nella sua visione marxista, la crisi dello Stato-nazione fa parte della crisi del capitalismo, costretto a trasformarsi in imperialismo per potersi sviluppare al di là delle frontiere nazionali. La guerra ne è uno strumento necessario.

Nello stesso periodo, in Italia, L. Einaudi mette in evidenza come la guerra mondiale non è che l’espressione di un bisogno d’unità dell’Europa. “La prima guerra mondiale — scrive in La guerra e l’unità europea, del 1948 — fu la manifestazione cruenta dell’aspirazione istintiva dell’Europa verso la sua uni­ficazione; ma poiché l’unità europea non si poteva ottenere attraverso una im­potente Società delle nazioni, il problema si ripropose subito”[14]. Il motivo di fondo risiedeva nella sovranità nazionale illimitata, che portava a federa­zioni di Stati sovrani impotenti ad impedire le guerre. Anche in Svizzera, come in America, non si giunse alla pacificazione tra gli Stati confederali, se non quando si passò alla “confederazione unica sovrana delle forze armate, delle dogane e della rappresentanza verso l’estero, fornita di un parlamento unico, rappresentante in un ramo degli Stati confederali, ma nell’altro del po­polo di tutta la confederazione”[15].

L’antinazionalismo aveva nutrito tutta la generazione dei fondatori di “Esprit”. Scriveva Mounier nel 1938: “Non è solo la Francia, … che noi dobbiamo difendere contro l’egemonia di Berlino: è la realtà federale dell’Europa”[16]. Anch’egli cioè faceva ap­pello ad un’Europa federale, libera­mente voluta dai popoli, che si fondasse su una “federazione di persone” capaci di fare dell’umanesimo cristiano l’asse spirituale della rinascita europea. Lo stesso Mounier richiamava incessantemente le forze cristiane a combattere i fa­scismi e i totalitarismi, proponendo la federazione delle forze cristiane stesse[17].

Un fecondo dibattito sul federalismo era sorto anche attorno alla rivista “Ordre Nouveau”. Il dibattito, ripreso nel dopoguerra, specialmente da A. Marc e D. de Rougemont, prendeva di mira l’ostacolo di sempre: lo Stato-na­zione[18]. Scriveva Alexandre Marc, nell’articolo Au delà des faux dilemmes: le fédé­ralisme, per la rivista “L’Europe en formation”, nel 1961: “Lo stato, senza maiuscola, deve restare il servitore della società e non deve ergersi a suo pa­drone. Per questo, è molto importante che la sua statura resti proporzionale ai suoi compiti”[19]. A lui faceva eco D. de Rougemont nell’articolo L’obstacle majeur à tout établissement d’un système global est l’existence de l’Etat- Nation , scritto per “Bulletin du CEC” del 1974: “La formula dello Stato-nazione a sovranità illimitata nelle sue frontiere e che pone a fonda­mento di tutta la sua politica ciò che si chiama “indipendenza nazionale”, si oppone per definizione e diametralmente non solo alla nozione di ordine glo­bale, ma anche e soprattutto ad ogni misura concreta che ne permetta il fun­zionamento, anche se questo ordine globale è differenziato ad opera delle grandi regioni continentali”[20]. È ancora attuale la sua convinzione che “l’ostacolo per ogni unione possibile dell’Europa (quindi per ogni unione fe­derale) non è altro che lo Stato-nazione, così come Napoleone ne aveva for­nito il modello, interamente centralizzato in vista della guerra”[21].

In Italia l’europeista, deputato al parlamento europeo, A. Spinelli, è stato tra gli ar­tefici principali, nonché estensore del Manifesto di Ventotene, del 1941. Con­divideva l’obiettivo della lotta contro gli Stati nazionali: “Occorre innanzi­tutto abolire la divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani — si legge nel Manifesto — … La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari non segue più la linea formale di più o meno democrazia, più o meno sociali­smo da instaurare, ma la linea fondamentale e nuovissima che separa coloro che hanno come scopo ultimo della lotta la vecchia concezione della conquista del potere nazionale… e coloro che vedono il compito principale nella crea­zione di un solido Stato internazionale; coloro che orienteranno le forze po­polari verso questo obiettivo e coloro che, anche se si impossesseranno del potere nazionale, se ne serviranno in primo luogo come strumento per favo­rire l’unità internazionale”[22]. Spinelli ha svolto un ruolo decisivo, anche per il rinnovo del trattato tra le nazioni europee, conosciuto come l’Atto unico.

Su altro versante ideologico, aveva maturato l’idea di federazione europea L. Sturzo che, dal suo esilio, aveva riposto molte speranze nella Conferenza di Stresa del 1935 per l’unità dell’Europa, considerato obiettivo urgente, pena la minaccia di guerra fratricida (che poi si svolgerà tra gli europei). Per riappacificare i popoli europei — egli sottolineava — occorre smorzare i nazionalismi e fare riferimento a comuni radici ispirative. Nel 1948 indicava la federazione europea come l’ultima “fase di un’idea formata nel subcosciente della nostra civiltà cristiana, fin dal crollo dell’impero romano”[23].

Coerentemente con tali radici e matrici ispirative, in Sturzo l’idea di Europa comprendeva già sia la Gran Bretagna (che vi è entrata, nonostante la forte resistenza), che la Russia (in ciò era molto profetico)[24]. Tra i firmatari della petizione di un “Patto federale”, Sturzo condivide, con gli altri federalisti, la volontà di risolvere in comune i problemi dei paesi associati, con un Parlamento europeo, un governo capace di farsi rispettare e obbedire e un tribunale che sorvegli sull’uguaglianza dei popoli e sulla libertà dei cittadini. Egli auspica di giungere all’unità nella politica estera, nella difesa, nella libertà commerciale e nella moneta. Naturalmente considera l’unità federale dell’Europa solo un passo verso un’intesa pacifica con altri popoli, a cominciare da quelli africani, verso un internazionalismo cosmopolita su base popolare[25].

2. Lo Stato federale tra federazione e confederazione

Nel corso della storia, poche culture hanno realizzato un sistema federale. Delle sedici nazioni formalmente federaliste, Australia, Camerun, Canada, India, Malesia, Nigeria e Stati Uniti sono nate sotto la tutela coloniale britannica. Delle nove restanti nazioni federaliste, Argentina, Brasile e Mexico rientrano nella tradizione politica spagnola; Austria, Germania e Svizzera, sebbene rien­trino nella tradizione tedesca, furono anch’esse influenzate dalle idee spagnole. Entrambe le tradizioni politiche hanno suscitato tendenze federaliste in molte nazioni. Esse stesse però hanno avuto problemi al loro interno. La tradizione spagnola è fallita nel combinare federalismo e stabilità, mentre la tradizione tedesca ha privilegiato la centralizzazione autoritaria. Delle tre restanti na­zioni, Libia, ex-Unione Sovietica (ridotta alla CSI) ed ex-Jugoslavia, le ul­time due sono in fase di sgretolamento e la Libia resta federale solo di nome e nella struttura formale.

La distinzione tra federazione e confederazione si esprime in due diversi modi. Nelle teorie del XVI secolo si pensava che il federalismo significasse una lega stabile di Stati, uniti da un patto fisso, sotto una legge internazio­nale, cui gli Stati costituenti delegavano determinati poteri, per il governo generale, mentre trattenevano pieni diritti per la sovranità interna.

La Rivoluzione americana sottolineò la possibilità dell’estensione del prin­cipio democratico anche tra Stati diversi, capaci di mantenere una coesistenza pa­cifica. Impresa certamente non facile quella dei padri fondatori dello Stato americano, quando optarono per lo Stato federalista. Andava salvata l’unità dell’Unione Americana, con un governo federale capace di imporre leggi e prendere decisioni, senza intaccare il principio dell’indipendenza degli Stati. Il problema in gioco era coniugare sovranità e dipendenza. Le correnti di pen­siero che si contrapponevano, l’unitarista e la federalista, dovettero arrivare alla Convenzione di Filadelfia del 1787, per la revisione del sistema federale del governo. Il compromesso arrivò sul sistema di rappresentanza: gli unitari­sti volevano una rappresentanza proporzionale, i federali volevano una rappre­sentanza eguale per ogni Stato. Si convenne di accettare il primo criterio per la Camera dei rappresentanti e il secondo per il Senato. Tale compromesso, favorito soprattutto da Hamilton, autore di The Federalist, permise di arrivare alla I Costituzione del primo Stato federale della Storia. Per Hamilton, il si­stema federale era il solo nel quale il potere giudiziario potesse subordinare gli altri poteri alla Costituzione e nel quale il potere esecutivo e quello del capo dello Stato potessero essere riassunti in un’unica persona, “dando all’esecutivo la forza di governare bene senza correre il rischio della tirannia o del cesari­smo”[26]. Quando il sistema americano divenne il prototipo degli altri si­stemi federali, anche la concezione americana del federalismo fu accettata. L’altra concezione fu considerata come confederazione.

I due sistemi descritti riflettono in parte la distinzione tedesca tra Staatenbund (confederazione) e Bundesstaat (federazione), termini sviluppa­tisi alla metà del XIX secolo. Una certa confusione rimane, perché i termini sono stati usati indiscriminatamente per molti anni. L’idea confederale è più diffusa in senso politico ed è più accettata, ad esempio, dai sostenitori di un’unità europea limitata (Commonmarket è esempio di una forma confede­rale) e dai così detti World federalists. In sintesi, mentre nella federazione c’è lo Stato sovrano, con poteri diretti sugli individui e la loro partecipazione alla formazione democratica delle rappresentanze, la confederazione è una “somma di Stati, che conservano la propria sovranità assoluta ed eserci­tano un potere esclusivo sugli individui”[27].

In presenza di conflitti, nella federazione si può ricorrere ad un tribunale fe­derale, nella confederazione, invece, torna a prevalere la forza di ogni singolo Stato. Si riduce di fatto la volontà popolare, poiché la volontà negativa di un solo Stato può impedire la decisione, provocando il ricorso alla forza (l’esempio jugoslavo è illuminante). Le confederazioni sono una variante delle alleanze tra gli Stati, che però ammortizzano le controversie tramite organi diplomatici.

Il principio costituzionale che fonda lo Stato federale è “l’organizzazione di una pluralità di governi indipendenti e coordinati tra loro, in maniera tale che il governo federale, competente su tutto il territorio della confederazione, eserciti i poteri strettamente indispensabili per garantire l’unità politica ed economica e gli Stati federati, competenti ciascuno sul pro­prio territorio, esercitino i poteri residui”[28]. Al governo federale resta il mo­nopolio della politica estera e militare. Vengono eliminate le frontiere fiscali, monetarie e doganali, attribuendo al governo federale l’autonomia della deci­sione nel campo della politica economica. Si tratta sempre di due centri di po­tere cui il cittadino resta subordinato, senza abolire il principio dell’unità di decisione su ciascun problema.

C’è da distinguere, infine, tra istituzioni federali e decentralizza­zione dei poteri locali. Se le tendenze federaliste conquistano un certo presti­gio sui principi dell’unitarismo, il risultato è più una decentralizzazione che un federalismo vero e proprio. La non centralizzazione, che si distingue dal decentramento, deve garantire che nessuna decisione importante possa essere presa senza il mutuo consenso. Le parti possono lavorare come partner nel governo della nazione, ma devono conservare gradi di autonomia notevoli, anche per questioni cruciali e in opposi­zione alle politiche nazionali.

A dispetto dei principi enfatizzati dal federalismo, lo Stato federale è an­cora centripeto e conservatore. L’antitesi del federalismo non è l’unitarismo, ma il particolarismo e la separatezza. Nei paesi anglosassoni, ad esempio, specialmente durante gli ultimi decenni in Gran Bretagna, il federalismo ha avuto una tale evoluzione. In tal modo, professando il principio dell’uguaglianza dei diritti di ciascun membro, esso ha agito come contrap­peso al desiderio di indipendenza. È significativo che la stessa istituzione, la Corona, che simboleggiava in Francia la centralizzazione, ora sta in Gran Bretagna per federalismo.

I sistemi federali differiscono dagli Stati federali locali decentralizzati, anche se questi giungono, in molti casi, a concedere una notevole autonomia locale. In questi Stati i poteri locali sono ristretti a problemi del posto, del resto soggetti alla supervisione nazionale. Come ha dimostrato l’esperienza inglese, anche potenti tradizioni autonomiste non sono state in grado di imporre ai Parlamenti eletti democraticamente il rispetto delle autonomie, poiché singole rivendicazioni sono state stroncate dalle maggioranze nazionali.

Nei sistemi di più lunga tradizione, il potere tende a centralizzarsi e il fede­ralismo rimane solo per promuovere una certa decentralizzazione. In base a ciò, alcuni ritengono che il federalismo sia un sistema transizionale, atto a fa­vorire progressivamente politiche che poi vengono gradualmente abbandonate. Quest’argomento ha qualche validità nel descrivere la storia di sistemi non fe­derali che hanno utilizzato sistemi federali per promuovere l’unità nazionale. È il caso dell’itinerario degli Stati del Regno Unito. Non può essere applicato ai tre sistemi federali esemplari USA, Canada e Svizzera, il cui legame nazio­nale esisteva dall’inizio. Il federalismo non ha perso la sua importanza quando queste nazioni sono cresciute.

Sembra essere coessenziale al federalismo la divisione del potere su base geografica, che negli Usa è stata chiamata anche democrazia territoriale, diver­samente da un’unità federale con basi religiose, etniche o ideologiche, che sa­rebbe piuttosto un pluralismo multiculturale e interetnico che un federalismo. L’attuazione storica di tali varianti del concetto strut­turale del federalismo dipende dalla complessità delle situazioni storico- geogra­fiche e politico- economiche di ciascuno Stato.

In linea di principio, il federalismo è considerato una soluzione per i pro­blemi di conflitto nei paesi multietnici e multiculturali, a condizione però che ciascuna comunità nazionale accetti il controllo su questioni particolari che la riguardano, e si rimetta alle decisioni federali per ciò che at­tiene ai problemi di ordine generale. Grande è il vantaggio che si ottiene sul piano della difesa, sul piano delle risorse economiche, delle risorse industriali, dell’apparato diplomatico. Sul piano economico, la possibilità di un grande mercato, senza remore e vincoli, costituisce certamente un fattore trainante. Sul piano politico, per il fatto che il rapporto tra le di­verse istituzioni si controbilancia, aumenta l’informazione politica e il ri­corso alle consultazioni elettorali.

Nonostante le critiche di debolezza e dispersione di responsabilità, in un futuro sempre più a crescita intensiva della democrazia, il federalismo può rappresentare una carta da giocare, specie per quei paesi le cui minoranze hanno consistenza nazionale. La storia del federalismo mostra che le sue po­tenzialità sono direttamente proporzionali ad una forte tradizione di cooperazione e di autolimitazione, che richiede l’uso minimo della coerci­zione. I sistemi federali operano meglio in società simili, che danno massima importanza alla collaborazione volontaria, che dispongono perciò di risorse umane ed economiche.

Proudhon era certo della sua profezia: “Il ventesimo secolo aprirà l’era delle federazioni, oppure l’umanità ricomincerà un purgato­rio di mille anni” Resta comunque da verifi­care se la dualità di poteri (centrali e regionali) e in generale la traducibilità dell’idea federalista costituisca davvero una fattore di democrazia, di stabilità e di efficacia.

3. Il federalismo personalista di Denis de Rougemont.

Un grande federalista svizzero scomparso nel 1985, Denis de Rougemont, ha studiato in modo particolare la questione dell’unità e della pluralità sul piano politico, come il problema federali­sta. Nella sua ottica, si tratta di una sfida al futuro dell’Europa, come a tutti i sogni di unità internazionale. Nel tentativo di coniugare unità e pluralità “s’affrontano due realtà umane antinomiche ma ugualmente valide e vitali, in maniera tale che la soluzione non possa essere cercata né nella riduzione di uno dei termini, né nella subordinazione dell’uno all’altro”. È proprio la compresenza del limite di ciascuna singolarità e della possibilità di trascenderlo che consente una unificazione orchestrale, in cui le dis­sonanze possono contribuire all’armonia sinfonica.

Il suo contributo di pensiero rafforza il modulo uni-plurale e costituisce stimolo alla crescita culturale delle coscienze, in vista degli Stati Uniti d’Eu­ropa. È giustamente considerato uno dei più grandi e originali autori del fede­ralismo con impostazione per­sonalista (aveva collaborato alla rivista “Esprit”): “L’attitudine personalista — così aveva scritto già nel 1940 — può solo risolvere il conflitto permanente in seno ad ogni federazione: quello che oppone il potere centrale all’autonomie delle regioni fede­rate... La filosofia della persona è d’altronde la sola filosofia accettabile dal federalista”.“Se mi si chiede ora — ripeteva a Bonn nel 1970 — come si può tradurre in termini di strutture politiche questa unità della cultura non unitaria e così diversificata, risponderei che la soluzione si trova nei termini stessi del problema così for­mulato: poiché l’unità differenziata si traduce molto naturalmente attraverso l’unità nella diversità e questa forma di unione porta un nome molto cono­sciuto nella storia dei regimi politici, si tratta senza ombra di dubbio del fe­deralismo[29].

Si tratta di indagare che cosa si intende quando si utilizza il termine unità. “Unità non omogenea — ricorda Denis de Rougemont (a proposito dell’unità eu­ropea) — e che non risulta da un processo forzato di uniformizza­zione, di livellamento o di esclusione di ciò che è diverso, ma che al contrario compone e unisce in una co­mu­nità sempre più complessa nel corso dei se­coli, valori molto spesso antinomici, pro­ve­nienti da origini multiple, i cui contra­sti e le cui combinazioni intrecciano ten­sione rin­novate senza tregua”[30]. L’idea politica federalista è espressione di una antropologia a sua volta capace di pen­sare per antinomie: “Prima di cercare a quale tipo d’uomo — così egli di­ceva — corrisponde una tale politica e qu­ale tipo d’uomo ella intende educare, costatiamo che essa tra­duce una forma di pensiero, una struttura delle relazioni bi-po­lari il cui modello ci è noto: è quello che hanno elaborato i fon­datori della filosofia occidentale nel dialogo che ha sempre op­posto gli Eleati agli Ionici a proposito dell’antinomia fondamen­tale dell’Uno e del Diverso, o an­cora del permanere e del cam­biare”[31]. D. de Rougemont coglie in questa an­tinomia un elemento fondamentale dell’analogia tra il piano della politica di tipo federalista, adatta alla costruzione dell’Europa, e quello della metafisica. Sottolinea infatti che è tipica della riflessione orientale asiatica la tendenza alla soppressione me­tafisica della diversità: per il brahamanesimo come per il buddismo il fine è l’annegamento dell’individuo, la negazione della differenza, la fusione dell’io nell’Uno. A suo avviso, l’Occidente, invece, sin dagli albori della sua ri­flessione greca, “cerca di mantenere i due termini non in un equilibrio neutro, ma in una tensione creatrice, ed è il suc­cesso di questo sforzo sempre rinno­vato, ma sempre minacciato, che sta ad indicare il buon stato di salute del pensiero europeo, la sua giustezza, la sua misura conquistata sul caos della massa indistinta come pure sull’anarchia degli individui isolati, sia che si tratti di realtà metafisiche, estetiche o politiche”[32].

La ricerca di un equilibrio precario favorisce il movimento sulla staticità, la vitalità sulla morte, in profonda sintonia col frammento di Eraclito “ciò che si oppone coopera e dalla lotta dei contrari scaturisce la più bella armonia”. “Da quel tempo sino al nostro — aggiunge de Rougemont — tutto concorre a nutrire questo pa­radosso che ben sem­brerebbe essere la legge costitutiva della nostra storia e la ri­sorsa del nostro pensiero: l’antinomia tra l’Uno e il di­verso, l’unità nella diversità e la coesi­stenza feconda dei contrari”[33]. Paradosso che è per sua natura sempre esposto alle ca­dute dell’anarchia e della dittatura, ma che resta come un fermento mai sopito, oltre le la­cerazioni della nostra storia. Lo stesso ritardo nella formazione dell’unità eu­ropea è espressione della consapevolezza della difficoltà di difendere, senza mutilare, l’uno e l’altro polo, di concretare l’attuazione di istituzioni forti e flessibili, centrali e re­gionali. L’approfondimento del di­scorso indica nell’uomo euro­peo: “l’uomo della contraddi­zione, l’uomo dialettico per ec­cellenza”; “Lo ve­diamo — così egli diceva — nei suoi mo­delli più puri, crocifisso tra questi con­trari che d’altronde ha egli stesso definito: l’immanenza e la trascendenza, il collettivo e l’individuale, il servizio al gruppo e l’anarchia liberatrice, la si­cu­rezza e il rischio, le regole del gioco che sono per tutti e la vocazione che è per uno solo. Crocifisso io dico, perché l’uomo europeo in quanto tale non accetta di essere ridotto all’uno o all’altro dei suoi termini. Egli tende ad as­sumerli e a permanere nella loro tensione, in un equilibrio sempre minacciato, in un’agonia perpe­tua”[34].

Per Denis de Rougemont era questione di definire il tratto distintivo dell’unità dell’Europa, accettando la sfida della cultura alla politica: “Europa come patria della diversità”[35], aveva detto nel discorso del 15 aprile 1970 a Bonn, durante la cerimonia di consegna del premio Robert Schumann, e ancora: “Europa deve significare innanzitutto unione nella diversità e rispetto delle di­versità”[36].

Excursus

Interdipendenza planetaria nel Magistero

L’Europa dei popoli 

Un’idea madre sta alla base della costruzione dell’Europa dei popoli: la tu­tela e la promozione della persona umana. Idea coltivata con vigore dagli an­ticonformisti degli anni trenta, ri­proposta e alimentata dai convinti europeisti del dopoguerra, in­coraggiata dai pontefici da Pio XII a Paolo VI a Giovanni Paolo II, che utilizza l’espressione Europa degli uomini [37]. Si alimenta da queste radici la convinzione che l’Europa è una famiglia di popoli, legati tra loro da vincoli di una storia comune, di contatti culturali e politici e da una ascendenza religiosa, comune anche all’altra Europa, quella che i due fratelli di Tessalonica, Cirillo e Metodio, percorsero nell’Alto Medioevo, traducendo il Vangelo in Cirillico e che papa Woityla non si stanca di riproporre alla no­stra attenzione (“l’Europa dall’Atlantico agli Urali” è un suo costante riferi­mento[38]). “Non ci sono dubbi — così diceva ai giuristi della Corte europea dei diritti dell’uomo — che alla base dell’Europa degli uomini c’è l’immagine dell’uomo che la rivelazione cristiana ci ha lasciato e che la Chiesa cattolica conti­nua ad annunciare e servire. Si tratta dell’uomo nella sua piena verità, in tutte le sue dimensioni, dell’uomo concreto, storico, di ogni uomo compreso nel mistero della Redenzione... Questa imma­gine dell’uomo ha segnato in maniera particolare la cultura euro­pea e sarà sempre per noi il principio fon­damentale di ogni umana dignità. È su questa base che si costruisce l’Europa degli uomini e dei popoli, e non solamente quella del progresso mate­riale e tecnico”[39]. I popoli, a loro volta, accetteranno pienamente di unirsi se sarà valorizzata la peculiarità storico- culturale di ciascuno. “Sono questi po­poli che sono chiamati ad unirsi in maniera più stretta. L’associazione dovrà contribuire a mettere in luce i diritti di ciascun popolo nel rispetto della pro­pria sovranità, realizzando così un’armonia più ricca e permettendo a queste nazioni di entrare in rapporto con le altre, con tutti i loro valori e in partico­lare quelli morali e spiritu­ali”[40]. L’unità ar­monica permetterà un arricchi­mento vi­cendevole.

Un contributo notevole in questa direzione è venuto dal magistero di Paolo VI. In un intervento, fatto come arcivescovo di Milano nel 1959, che egli stesso cita in un discorso ai Vescovi europei nel 1975, così diceva: “Espri­memmo questo voto: come il diciannovesimo secolo fu caratteriz­zato dalle lotte per l’indipendenza e per la formazione dei vari Stati che compongono oggi l’Europa, così il ventesimo secolo, il no­stro, possa essere, almeno in Europa, caratterizzato a sua volta non più da guerre e opposizioni tra i popoli, ma dall’unità. Alle nazioni, ormai politicamente distinte e organizzate in Stati liberi e sovrani, resta da scoprire l’espressione comunitaria e continentale della fraternità dei popoli, associati per promuovere una civiltà solidale, animata naturalmente da un medesimo spirito”[41].

L’auspicio di Paolo VI non è esente dalla serena consapevo­lezza delle difficoltà che si incontrano nel cammino verso l’unità dell’Europa. La diver­sità dei popoli e delle nazioni, le guerre che hanno segnato la loro storia non sono eredità facili da superare, anche se il recupero della comune ispirazione cri­stiana, da cui l’Europa è nata, potrà sempre, secondo Paolo VI, “salvare que­sto continente dal senso di vuoto che soffre, consentendogli di domi­nare uma­namente il progresso tecnico, di cui esso ha dato il gusto al mondo, di ritro­vare la propria identità spirituale e di assumersi le proprie responsabilità mo­rali verso gli altri partners del mondo”[42]. Egli non si illudeva circa una possibile nuova cri­stianità dell’Europa. Come fa osservare P. Di Rova­senda: “La fede opera per l’unità dell’Europa, nel senso profondo di una unità, che comprende un’armoniosa pluralità e non si con­fonde con una violenta unicità. “L’unità che essa ricerca non è l’unificazione attuata con la forza — è ancora Paolo VI — è il concetto in cui le buone volontà armonizzano i loro sforzi nel rispetto delle diverse concezioni politiche. È quella d’una Chiesa tutta intera travagliata da un sano ecumenismo. È quella di una Pentecoste, in cui la diversità delle lingue lascia parlare il medesimo Spirito Santo””[43].

I popoli europei accetteranno pienamente di unirsi, se sarà valorizzata la pe­culiarità storico-culturale di ciascuno. “Gli Europei — diceva Giovanni Paolo II alla CEE nel 1985 — non possono rassegnarsi alla divisione del loro conti­nente. I paesi che, per differenti ragioni, non fanno parte delle vostre istitu­zioni non possono essere esclusi da un desiderio fondamentale di unità; il loro specifico contributo al patrimonio europeo non può essere ignorato”[44]. Tre anni dopo, a Strasburgo, il papa ripeteva il concetto, dandogli una prospettiva propulsiva: “L’epoca moderna ha sviluppato sul suolo europeo correnti di pensiero che hanno a poco a poco allontanato Dio dalla comprensione del mondo e dell’uomo, dimostrando così tensione costante fra due visioni oppo­ste. Eppure di fronte all’umanesimo agnostico o addirittura ateo, la soluzione non è un ritorno al vecchio ordine, d’altronde spesso idealizzato, ma racco­gliere la sfida di questo umanesimo e porlo di fronte alla sfida della fede”[45].

In un discorso mirato, fatto alla XLI settimana sociale dei cattolici italiani, il 5 aprile 1991, egli si è chiesto pubblicamente: “I cattolici avvertono l’urgenza di approfondire le ra­gioni della loro comune speranza in vista di un’azione concorde a servizio del progetto di Dio su questa umanità che s’appresta a varcare la soglia del terzo millennio… Quale il progetto di Dio sulla nostra storia? Sulla storia di questa nuova Europa che si va faticosamente ridefinendo?”[46]. Ha indicato i valori della libertà, della solidarietà e della pace, alla luce delle tradizioni spirituali e vitali dell’Europa, “delle più antiche e autentiche aspettative dei suoi popoli, che affondano le radici nella fede in Gesù Cristo”[47].

Gli avvenimenti dell’’89, che hanno segnato la fine di un’epoca, sono ra­gione di speranza, ma non tutti i problemi sono risolti: “Ora lo storico muro è caduto — aggiunge il papa — , una porta è stata aperta, ma altre resistono an­cora ed altre si tenta di richiudere nuovamente con la coercizione e persino con la violenza”[48]. Onde evitare il ripetersi di esperienze simili, il papa invita all’attuazione di “una più piena giustizia sociale anche mediante un nuovo di­ritto internazionale e nuove incisive testimonianze di solidarietà. Ciò suppone il ripensamento più generale circa il ruolo degli Stati nazionali “rispetto al processo di integrazione europea ed una revisione delle loro istituzioni demo­cratiche e partecipative”[49]. La solidarietà dell’Europa è l’unica risposta di civiltà che il continente antico può dare ai popoli che invocano ancora libertà ed autodeterminazione; ma questa solidarietà deve nutrirsi di un’anima che gli europei possono assicurare: “Oggi il mondo attende ancora da essi un nuovo contributo di saggezza, attinto a quella cultura millenaria che la linfa cristiana ha saputo maturare nel corso dei secoli. La storia ha reso gli europei esperti di divisioni dolorose e tragiche, la fede cristiana li deve aiutare a ritrovare i per­corsi dell’intesa e della pace”[50].

Saranno i cristiani europei all’altezza della situazione? “La posta in gioco è alta: — risponde il papa — le oligarchie, da una parte, e il predominio dei molti che prevaricano sui pochi, dall’altra, sono ri­schi reali per l’Europa. L’unica via per evitarli è quella indicata dal cristiane­simo che invita a considerare il proprio simile non come concorrente con cui competere, ma come un fratello a cui affiancarsi per edificare un mondo più giusto e più solidale”[51]. E ancora: “In quest’Europa che torna ad essere polo di attrazione per tanti popoli, crocevia di culture, spazio di libertà, i cri­stiani devono testimoniare la loro fede con rinnovata energia, adoperandosi nella elaborazione di una strategia della solidarietà”[52].

Certo non bastano le buone intenzioni e i pii propositi, ma neanche i progetti complessi e artificiosi di ingegneria istituzionale sono sufficienti a garantire quei processi di solidarietà auspicati, ai quali in ultima analisi ciascuna persona porta il suo contributo creativo.

“Un’Europa non più divisa e antagonista — ha auspicato il papa durante la visita a Trieste — un’Europa orgogliosa delle sue comuni radici e della sua multiforme diversità di tradizioni e di cultura”[53].

La mondialità come prospettiva

La matrice personalista e comunitaria è sempre più evidente nel pensiero sociale della Chiesa, quale si è venuto sviluppando in quest’ultimo periodo. Viene considerato segno positivo della nostra epoca “la piena consapevolezza in moltissimi uomini e donne della di­gnità propria di ciascun essere umano”[54]. Tale coscienza della di­gnità umana non si limita alla richiesta di moltiplicare beni e servizi, ma acquista sempre più dimensioni qualitative. Lo sviluppo deve comprendere “tutto l’uomo e tutti gli uomini”, favorire il pas­saggio da condizioni meno umane a condizioni più umane, allargarsi fino a combaciare con l’intero codice dei diritti dell’uomo e dei po­poli[55]. Al contra­rio, ogni tentativo di riduzione dello sviluppo a una sola dimensione (tecnica, economia, religione, istruzione) si rivela per­verso, se non mette in gioco tutto l’uomo e se non rispetta tutte le tappe della sua vita, dal concepimento al compimento finale. Sap­piamo infatti che è pseudo-sviluppo quello basato su un concetto quantitativo-economico, che finisce col ritorcersi contro la per­sona. Uno sviluppo globale esige il contributo interdi