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Come uscire dal fiasco iracheno

di Loretta Napoleoni - 07/12/2006

 
Ieri l'America che conta ha tirato un sospiro di sollievo. Per la prima volta in quasi quattro anni Washington è convinta di avere un piano d’azione per uscire dal pantano dell’Iraq. A riportare la speranza nei corridoi del potere è stato il rapporto Baker-Hamilton, il gruppo di studi misto sull’Iraq messo in piedi dal Congresso Usa e atteso da democratici e repubblicani come un nuovo messia. È infatti dal febbraio del 2003 che nella capitale statunitense l’incertezza e la tensione si tagliano con l’accetta.

È così da quando alti ufficiali del Pentagono, diplomatici del Dipartimento di stato, persino vecchie spie della Cia, s’interrogano preoccupati sui pericoli della guerra in Iraq. Eppure questi timori sono stati resi pubblici soltanto due giorni fa da Robert Gates, ex membro del gruppo di studi misto sull’Iraq, e capo in pectore del Pentagono. Preludio del rapporto Baker-Hamilton, nel discorso al senato Gates non ha esistato a dichiarare che l’America sta perdendo la guerra in Iraq.

Sulla scia di queste sconcertanti ammissioni, il rapporto Baker-Hamilton altro non è che il canovaccio della nuova politica estera americana. Mentre suggerisce un ritiro delle truppe moderato e gradule, senza una tabella di marcia prefissata, sollecita un atteggiamento duro nei confronti del primo governo iracheno democraticamente eletto, un governo debole perché tenuto in ostaggio da parlamentari sunniti e sciiti, quali Moqtada al Sadr, che agiscono come signori della guerra su un territorio dilaniato da lotte fratricide. Ma la grande innovazione è l’invito ad aprire il dialogo con Iran e Siria senza abbandonare i fedeli alleati sauditi e giordani, a coinvolgere quindi paesi limitrofi che non si piacciono con il pretesto di porre fine al conflitto iracheno.

Guidato dal realismo diplomatico kissingeriano, James Baker, presidente del gruppo di studi, «consigliere» della famiglia Bush, l’uomo delle situazioni impossibili che si occupò del controverso riconteggio dei voti della Florida, ha presentato un capolavoro di real politk statunitense. Ha cercato di trasformare il fiasco iracheno in una piattaforma diplomatica, gestita da Washington, da dove riorganizzare le alleanze strategiche dell’intera regione. Mescolando magistralmente le carte in tavola ha però dato a tutti l’illusione di aver in mano quelle vincenti. L’uscita americana dal conflitto iracheno diventa quindi lo spunto per seppellire antiche asce di guerra e riallacciare vecchie e nuove alleanze, senza parlare poi dell’occasione di risolvere la questione palestinese, anch’essa ampiamente menzionata nel rapporto. La riorganizzazione diplomatica del Medio Oriente deve quindi avvenire all’insegna della nuova America, non più potenza egemone, ma alleato dei governi mediorientali emergenti, un alleato che ha già rimosso l’odioso Saddam e la minaccia che questo rappresentava per tutta la regione, e che adesso, a lavoro ultimato, è giusto esca di scena.

Sulla carta la proposta sembra essere vincente. Nessuno vuole ai propri confini uno Stato dilaniato dalla guerra civile o, peggio, un conglomerato di stati e staterelli falliti, tra i quali un califfato islamico di stampo talebano. Un Iraq smembrato, disossato, privo di un governo centrale, fa paura a tutti. Si pensi solo all’ostilità di Moqtada al Sadr nei confronti di Teheran, che dopo l’assassinio del padre da parte di Saddam Hussein, abbandonò la famiglia per sostenere il moderato ayatollah Ali al Sistani. O al ruolo che il califfato jihadista giocherebbe nello scontro tra le forze saudite dell’alqaedismo e il regime di Rihad. Persino i Curdi sarebbero tentati di mettere sotto pressione la Turchia nella speranza di annettere il Kurdistan turco mentre Siria e Giordania, già oberate dal flusso dei rifugiati, finirebbero per essere invase dai profughi. «C’è il rischio che tutta la regione piombi nel caos», si legge infatti nel rapporto. Ascolterà Bush i nuovi consiglieri? Sarà in grado di cogliere la finezza della proposta? È questa la domanda che a Washington si pongono un po’ tutti. Peccato che il vero ostacolo all’attuazione del piano Baker-Hamilton non sia la testardaggine di George Bush, né l’istinto guerrafondaio di Dick Cheney, ma la forza economica e militare dei ribelli iracheni, lasciati fuori dalle future alleanze. Un rapporto segreto commissionato dalla Casa Bianca lo scorso giugno sostiene che le forze sovversive in Iraq ormai si autofinanziano razziando l’economia di guerra del paese. Addirittura si legge che hanno a disposizione un surplus che potrebbe essere utilizzato per avviare attività terroriste all’estero. Il rapporto Baker-Hamilton non menziona l’indipendenza economica dell’insurrezione dai vecchi sponsor. Agli architetti non interessa che Iran, Siria e Arabia Saudita non potranno porre fine alla guerra civile in Iraq chiudendo i rubinetti del denaro ma soltanto ricorrendo alla forza e forse anche all’intervento militare. Ciò che preme all’America non è risolvere il conflitto ma uscirne a testa alta e cosi facendo ritessere la complessa ragnatela di alleanze nel Medio Oriente.

In una web jihadista ieri sera è apparso un commento che ben riassume la realtà irachena: «Combatteremo gli apostati musulmani come abbiamo combattuto gli americani». La nuova America, come la vecchia, continua a non capire che fino a quando l’insurrezione avrà a disposizione sufficiente denaro, in Iraq con o senza le truppe americane non ci sarà mai la pace e senza la pace le nuove alleanze dureranno poco. Questa triste verità il rapporto Baker-Hamilton ha sapientemente evitato di scriverla, nessuno a Washington, dopo quasi quattro anni di guerra, riuscirebbe a digerirla.