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La dittatura della crescita

di Damien Millet - 07/12/2006

 

 


Tutta la stampa economica ne parla, la previsione degli esperti si espone addirittura in prima pagina: secondo l'economista a capo del Fondo monetario internazionale (Fmi), il mondo sta vivendo "il periodo di espansione [...] più forte a partire dall'inizio degli anni '70". La crescita mondiale dovrebbe avvicinarsi al 5 per cento nel 2006 così come nel 2007, e addirittura al 7 per cento nei paesi poveri.

Nessuna pagina di giornale di economia, nessun discorso "decisionista" dimentica di lodare questa crescita provvidenziale che giustifica tutti i sacrifici. I grandi tesorieri del mondo portano a modello la Cina e l'India, paesi verso i quali si moltiplicano le delocalizzazioni delle imprese, dove il costo della manodopera è molto basso e le condizioni di lavoro deplorevoli.

Ma di fatto, cosa contiene questa crescita?
La crescita economica di un paese o di una regione è direttamente legata alle politiche che vi sono condotte. Teoricamente, a cifre uguali, non può avere lo stesso significato in ogni luogo. Essa potrebbe riflettere un miglioramento delle condizioni della vita delle popolazioni, soprattutto delle più umili, che possono prendere parte all'attività economica e permettere lo sviluppo di imprese locali che forniscono innanzi tutto dei beni e dei servizi per il mercato interno.
Oggi questo non avviene. È decisamente non equa, e registra la manomissione dell'economia mondiale da parte di imprese multinazionali molto grandi, la cui cifra d'affari oltrepassa il prodotto interno lordo di molti paesi, addirittura di continenti interi. I clan al potere nei paesi del Sud vi trovano il loro tornaconto e mettono in musica sul posto la partitura dettata dai capi d'orchestra lussuosamente installati a Washington, Bruxelles, Londra, Parigi o Tokyo.

Le economie dei paesi del Sud sono dunque connesse forzatamente al mercato mondiale e sono le loro esportazioni che trascinano la crescita. Lontana dal favorire l'emancipazione degli individui e dei paesi del Sud, questa crescita scaturisce dalla loro subordinazione organizzata dalla mondializzazione neoliberale nell'ultimo quarto di secolo. Il debito ne è stato il vettore: mentre i paesi del Sud erano fortemente spinti a indebitarsi negli anni 1960-70 dai grandi creditori (banche private, paesi ricchi, Banca mondiale e istituzioni multilaterali), il crollo del valore delle materie prime e l'aumento dei tassi d'interesse decisi unilateralmente dagli Stati uniti alla svolta degli anni '80 hanno fatto precipitare il terzo mondo nella crisi del debito.
Era venuto il momento di tirare il cappio...

In seguito, la maggior parte dei "paesi in via di sviluppo" hanno dovuto piegarsi alle esigenze del Fmi attraverso i programmi di aggiustamento strutturale, la cui priorità assoluta è d'organizzare e di rendere sicuro il servizio del debito nell'interesse dei creditori. Le rimesse in causa delle conquiste sociali, gli attacchi ripetuti contro le misure di giustizia sociale, i peggiori arretramenti in termini di solidarietà collettiva o di ridistribuzione della ricchezza sono stati presentati in maniera molto abile dai responsabili politici come un adattamento indispensabile a una mondializzazione neoliberale eretta a punto di riferimento assoluto.

Eppure il sistema economico in vigore attualmente non ha nulla di immutabile, al contrario è il risultato di scelte ben precise imposte da coloro che ne traggono profitto. La Cina e l'India, tanto vantate, sono ben lontane dall'aver applicato alla lettera le raccomandazioni del Fmi e della Banca mondiale.

La versione ufficiale afferma che la povertà (i cui criteri sono sempre fissati da non-poveri...) si sta riducendo leggermente a livello mondiale, quando invece se si escludono questi due paesi, il numero di poveri è in piena...crescita! I sostenitori della crescita economica a tutti i costi si guardano bene dal far sapere che essa può in effetti rivelarsi depauperante. Inoltre il pianeta non potrebbe sopportare a lungo una crescita in tutti i continenti così sostenuta come quella della Cina, dell'ordine del 10 per cento annuo, con tutti i danni ambientali, umani e sociali che questa porta sulla sua scia.

Alcuni specialisti affermano che se anche i cinesi possedessero e utilizzassero in media un'auto ciascuno come fanno gli Occidentali, la totalità della produzione petrolifera mondiale si dovrebbe dirigere verso l'Asia...

La crescita sfrenata vantata dal sistema attuale non può essere eterna.
Di fatto è obbligata a diventare folle per perdurare, a creare senza sosta dei nuovi desideri di consumo, a inquinare per disinquinare (ad esempio l'acqua) e a distruggere per ricostruire (ad esempio l'Iraq). Lo tsunami del dicembre 2004 sarà positivo per la crescita dell'Asia, poichè le zone industriali non sono state toccate e la ricostruzione si sta rivelando lunga e costosa. In queste condizioni, la ricerca cieca della crescita non può che stritolare l'essere umano, ma questa evidenza economica è taciuta in quanto tocca il cuore stesso di un modello che si rivela incapace di integrare seriamente tanto il fattore ambientale quanto il fattore sociale. Pertanto questa crescita non può essere, e non deve essere, l'indicatore assoluto della buona salute del mondo.


Articolo diffuso da Attac Italia e tradotto da Silvia Necco