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Non basta la decrescita (...per una riorganizzazione delle comunità locali)

di Nino Lisi - 07/12/2006

 

 

La riflessione che Carta ha avviato con la lettera aperta indirizzata ad Alfonso Gianni merita di proseguire. E' fuori discussione l'indifferibilità di una diminuzione consistente dell'attuale dissennato impiego delle risorse. Non solo per le buonissime ragione spiegate nel numero di Carta sul quale hai pubblicato la tua lettera, ma anche perché non si arresterebbe altrimenti l'aumento del malessere nei popoli ricchi e della povertà negli altri. L'alternativa tra crescita e decrescita, dunque, neppure si pone. Come non si pone il problema, secondo me, di aggettivare lo sviluppo e di decidere quali modifiche apportare al suo modello. Nel concetto di sviluppo è insito infatti quello di crescita, tant'è che nel comune sentire è radicato il convincimento che se può esserci crescita senza sviluppo non può aversi sviluppo senza crescita.

Il problema di un'economia che non opprima gli esseri umani e non distrugga il pianeta non si risolve, però, nemmeno optando per la decrescita. Anche in questo caso continueremmo a muoverci all'interno di un paradigma quantitativo. Per mirare ad un'economia che non subordini gli esseri umani alla logica del profitto, non si ponga nella organizzazione sociale come asse centrale intorno a cui organizzare tutte le altre funzioni, non pretenda di determinare secondo le proprie esigenze anche le funzioni delle città e non si appropri, distruggendole, delle risorse ambientali, bisogna cambiare totalmente quadro di riferimento. Dal predominio delle quantità occorre passare al paradigma della qualità.

Ciò vuol dire abbandonare il concetto di sviluppo ed assumere, come sostiene la Rete Meridione di cui faccio parte, quello di qualità sociale dei sistemi territoriali. Espressione complessa, che contiene una pluralità di indicazioni: il cambiamento degli obiettivi [dal gioco delle quantità al miglioramento della qualità della vita delle singole persone e delle collettività, nonché dell'ambiente naturale]; il passaggio dall'accumulazione e dalla spasmodica fruizione individuale di beni alla diffusione del benessere; la valutazione come ricchezza da valorizzare dei vincoli di interdipendenza che legano tutte le componenti dei contesti territoriali ai diversi livelli; la sperimentazione, luogo per luogo, delle soluzioni possibili.

Mi si obietterà che va definito cosa si intenda per benessere. E' vero. Ma si tratta di un'impresa che per quanto impegnativa non è impossibile. Si può assumere per ora che il benessere, fondato sull'uso sapiente dei beni comuni, ha anche basi materiali, ma non è fatto solo di esse, bensì della ricchezza delle relazioni, dell'equilibrio tra esigenze e bisogni differenti, dell'armonia con se stessi e con gli altri e con la natura. Non è questa comunque la difficoltà maggiore, quanto il fatto che il passaggio da un paradigma all'altro richiede una cultura nuova, un'idea diversa della convivenza sociale, una discontinuità non ambigua. Ciò implica un confronto ed uno scontro con il sistema dell'informazione, perché occorre smascherare alcune falsità che esso è riuscito ad accreditare come vere, quali, ad esempio: che sia possibile suscitare una economia solidale all'interno del mercato globale, essendo la concorrenza la sua regola fondamentale; che il nemico da battere sia la povertà e che per farlo bisogna aumentare la ricchezza, mentre più cresce la cosiddetta ricchezza più la povertà aumenta; che grazie al potere demiurgico della scienza sia possibile spostare i limiti sempre più in là; che la globalizzazione segna una normale evoluzione del sistema capitalistico e non una mutazione qualitativa che determina una svolta epocale.

Se nell'opinione della sinistra cosiddetta radicale saranno scalzati questi falsi convincimenti, sarà possibile sperimentare anche qui da noi ciò si sta già tentando in alcuni paesi poveri: promuovere, non dentro ma a fianco di quella del mercato globale, un' altra economia, basata sulla cooperazione invece che sulla competizione. Ciò è possibile poiché le dinamiche della globalizzazione non investono tutti i territori e tutte le fasce sociali. E nel Mezzogiorno d'Italia come nei paesi del bacino del Mediterraneo vi sono condizioni favorevoli per un'impresa del genere,. L'onda d'urto della globalizzazione ha infatti segnato i paesi della sponda Nord del Mediterraneo meno profondamente degli altri paesi europei ed ha in buona parte risparmiato quelli delle altre sponde, sicché sia negli uni che negli altri sono ancora vitali alcuni elementi fondanti delle loro identità [valori, tradizioni, saperi, etc.], Anzi, in risposta alle pressioni comunque esercitate dalla globalizzazione, essi si vanno rigenerando. E il recupero e il rilancio delle identità sopravvissute, come a proposito del Mezzogiorno d'Italia ha sostenuto Mario Alcaro, possono costituire le basi culturali per una riorganizzazione delle comunità locali.