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Mourir de plaisir

di Valerio Evangelisti - 08/11/2005

Fonte: rinascita.info


Questo articolo è vecchio di dieci anni, ma la sua attualità è immutata


Colonizzare l’immaginario. Sembrava impossibile, eppure basta disporre degli strumenti opportuni. Televisioni, mass-media, una stampa docile, un trend culturale. Finisce che intere generazioni si trovano immerse in un sogno, e lo confondono con la realtà. Ora, quali sono le caratteristiche di un sogno?
Che si vive una vicenda priva di antecedenti e di conseguenze nel futuro.
Esiste il presente e basta.

In un sogno analogo siamo immersi oramai da un decennio, con un’accentuazione negli ultimi anni. Sotto gli occhi ci scorrono immagini senza origine e senza spessore. Esalazioni di gas nervino uccidono o mandano all’ospedale migliaia di persone nella metropolitana di Tokyo? La notizia ci viene data in tempo quasi reale, eppure pare che accada su un altro pianeta.
Nessuno si scompone più di tanto, se non per un tempo misurabile in minuti, o addirittura in secondi.

Nella ex Jugoslavia si susseguono i massacri? Anche qui la commozione è legata ai singulti di un qualche telecronista, analoghi a quelli che accompagnerebbero una qualsiasi calamità naturale.
Perché quella gente si massacra? Non lo sa nessuno, forse nemmeno i diretti interessati. Questione genetica, di razza, di religione. Ciò che importa è che la versione corrente faccia appello a eventi incontrollabili, in cui la volontà e la logica non abbiano parte alcuna. Così la notizia perde tutti i suoi contenuti nel momento stesso in cui viene diramata.

Non è sempre stato così. Fino a qualche anno fa, qualcuno, parlando di Jugoslavia, avrebbe menzionato le condizioni durissime imposte al Paese dal Fondo monetario internazionale in cambio dei propri aiuti. Paragonando le date, si sarebbe accorto che proprio in quel momento le repubbliche più ricche avevano reclamato l’indipendenza, per scindere i loro destini da quelli delle regioni più povere. Avrebbe notato l’affanno della Germania nel riconoscere immediatamente le nuove entità statali appena sorte, situate ai propri confini. Avrebbe anche osservato l’entusiasmo con cui l’intero Occidente salutava la dissoluzione di un Paese sedicente socialista. Ma a quei tempi si ragionava ancora per catene logiche, si scavava nella storia per ricercarne la più intima dinamica, affidata allo scontro tra forze sociali, politiche ed economiche contrapposte. Tutte cose che fanno a pugni con l’irrazionalità del sogno.
Adesso non è più così. Adesso siamo tutti Numeri sei.

Il numero sei

Qualcuno ricorderà quella straordinaria serie di telefilm intitolata Il prigioniero, concepita e interpretata dall’attore inglese Patrick Mc Goohan (Un’intelligente analisi di questa serie televisiva è in B. Lehoux, J.P. Putters, Le prisonnier, nella rivista francese “Mad Movies”, 44, s.d. ma 1985, p. 40 ss.2). Un individuo di cui si ignora tutto si trova rinchiuso in un assurdo villaggio di vacanze, simile a un Club Mediterranée, in cui tutti sono esageratamente felici. La radio non fa che parlare del bel tempo che c’è fuori, ogni abitante ha a disposizione una graziosa villetta. Non ci sono guardie, ma solo degli enormi palloni silenziosi che emergono dal mare ogni volta che il prigioniero tenta la fuga (gli altri non ci pensano nemmeno).

Il protagonista non ricorda la propria identità. Viene chiamato “Numero sei” e basta. Il villaggio è agli ordini di un misterioso Numero due, che muta di continuo. Si intuisce che esiste un Numero uno, ma non si sa chi è (il sospetto è che si tratti di un maggiordomo nano, che se ne va in giro con un grande ombrello multicolore, però anche questa ipotesi verrà smentita).
Ogni volta che il prigioniero cerca di indagare sulla propria carcerazione, si trova sottoposto a lavaggi del cervello, nelle forme più insidiose. Da lui si vuole sapere solo perché ha “rassegnato le dimissioni”, ma non viene mai specificato da che cosa. Di tanto in tanto finge di adattarsi alle regole di vita comune, ma queste gli sfuggono sempre, e quando crede di averne afferrato un brandello scopre che si tratta di un’illusione. Partecipa persino alle elezioni, folle carosello di sfilate demenziali e di programmi insensati. Lo spaesamento è la sua condizione normale, accentuata da sapienti messinscene destinate ad alimentare le sue speranze di fuga, per spegnerle subito dopo.

Alla fine riesce in effetti a fuggire, dopo un confronto con il Numero uno. Gli strappa una maschera e appare un muso di scimmia; ma anche quella è una maschera che, strappata, rivela il volto dello stesso protagonista. Infine il Numero sei raggiunge Londra, molto più vicina di quanto si sarebbe creduto. Sale nel proprio appartamento, afferra la maniglia. La porta è la stessa della villetta che occupava al villaggio. Chi ha avuto modo di vedere questa serie di telefilm non la dimenticherà mai più. E, non dimenticandola, potrà raffrontarla alla realtà odierna. La somiglianza è impressionante. La schiavitù del Numero sei, sotto le apparenze di una libertà quasi totale, nasceva dalla mancanza di un passato, e dall’immersione in un clima onirico fatto di solo presente.

Non appartiene alla stessa sfera autoritaria l’emergere di una psichiatria che ricerca (inutilmente, è chiaro) l’origine della malattia mentale esclusivamente nei meccanismi biologici del cervello, rifiutando programmaticamente l’analisi ambientale (e cioè venti lustri di approcci psicoterapeutici)? O di una storiografia che si adagia sulle invarianze e sui tempi lunghissimi, considerando gli episodi conflittuali quasi di semplice disturbo? O di un’economia ristretta alla sola realtà aziendale? O di una criminologia regredita alla fisiognomica lombrosiana?

Si potrebbe continuare. Ma ciò che preme rilevare è che l’esito di tante rinunce alla riflessione è: più manicomi (con conseguente rivalutazione dell’elettroshock), più carceri, l’imposizione del lavoro non creativo, tanto dilatato da riempire ogni spazio di vita, l’anomia, l’oblio del passato come chiave del presente (e del presente come chiave del passato. Attenzione: questi processi non sono automatici, bensì accuratamente programmati. Cito da una recensione, apparsa su “Le Scienze”, 318, febbraio 1995, al volume di D. Cersosimo, Viaggio a Melfi. La Fiat oltre il fordismo, Roma, Donzelli,1994, a firma Vincenzo Ruggiero: “La fabbrica integrata non si fonda sul comando burocratico e sulla coercizione, ma si prefigge il coinvolgimento, l’egemonia, l’appartenenza responsabile. Il nuovo modo di produrre ha bisogno di una classe operaia che definiremmo “vergine”, priva cioè di quella memoria che, al pari di un automatismo, associa il lavoro in fabbrica con il conflitto permanente. Tutto questo presuppone la localizzazione in un “prato verde’, vale a dire in un’area geografica e umana incontaminata dalla passata storia dell’industria in Occidente”, p. 89).

Fino alla creazione di un villaggio virtuale dove tutti sono felici ma nessuno è contento, perché nessuno è libero. Un villaggio in cui la morte intellettuale viene spacciata per piacere supremo, allo scopo di ottenere il consenso delle vittime, come è nella tradizione della letteratura e del cinema di vampiri da Carmilla a Lestat, passando per Dracula. Quando è la vittima stessa a porgere la gola, significa che è all’opera un vampiro insidioso, che prima del sangue ha succhiato l’immaginazione. A quel punto o ci si ribella o ci si abbandona, ci si rassegna a mourir de plaisir. Ma se si sceglie la ribellione, “la forza vindice della ragione”, allora anche l’immaginario dovrà divenire campo di battaglia. Pena la vittoria del vampiro prima ancora che lo scontro abbia inizio.