Il prezzo del dollaro sostenuto da Cina e Giappone
di Mario Margiocco - 08/11/2005
Fonte: ilsole24ore.com
Stando alle previsioni di inizio d'anno il dollaro sarebbe dovuto essere a questo punto oltre 1,30 sull'euro mentre è ben sotto quota 1,20 e ai livelli più alti da 18 mesi sulla moneta unica europea e degli ultimi 24 mesi sullo yen. La decisa marcia al rialzo del tasso di riferimento della Federal Reserve, arrivato al 4% con dodici aumenti consecutivi e quindi doppio rispetto al tasso Bce, è la causa immediata. La causa di fondo è che il sistema monetario mondiale è cambiato, vanno ripetendo soddisfatti quanti hanno sempre scartato l'ipotesi di un ritorno del dollaro ai livelli toccati alla metà degli anni '90 e pari a 1,40 sull'euro-equivalente. La globalizzazione ha cambiato le regole, hanno sempre sostenuto. Lo ha ripetuto la settimana scorsa anche il governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan. In un mondo molto più finanziariamente interconnesso, il deficit dei conti americani con l'estero può così anche arrivare al mai visto e non lontano 7% del prodotto interno lordo senza che il dollaro debba precipitare per consentire il riaggiustamento.
L'unica cosa certa è che fare previsioni a breve sui cambi è arrischiato e praticamente impossibile. Altrettanto certo però è che le cause di fondo di debolezza di una moneta, capaci di farsi sentire sia pure in tempi difficilmente prevedibili (ma comunque nell'arco di alcuni, e non molti, anni), sono abbastanza identificabili e consentono previsioni ragionevolmente credibili: nel lungo periodo il dollaro dovrà scontare in qualche modo gli squilibri dei conti americani, e cioè il deficit delle partite correnti con l'estero , il deficit dei conti pubblici, l'azzeramento del risparmio delle famiglie.
Gli Stati Uniti sono nel tempo la prima potenza leader del mondo industriale che, a differenza di quanto fecero un tempo Gran Bretagna, Germania e Francia, non esporta ma importa capitali come saldo netto, e importa grossomodo il 50% di beni in più rispetto alle esportazioni, un buco che i servizi non riescono a pareggiare. Alla fine, riequilibra il conto esportando dollari, in quella che vari teorici hanno ribattezzato come una "Bretton Woods II", che può durare a lungo secondo alcuni e che ha il tempo contato secondo altri.
«Quale che sia il giudizio che una miglior valutazione darà su queste dispute accademiche, resta chiaro come il sistema monetario che abbiamo descritto ha del fiato in corpo», hanno scritto venerdì 4 novembre scorso Michael Dooley, Peter Garber e David Folkerts-Landau, tre economisti collegati con Deutsche Bank. Per loro la ripresa del dollaro è la dimostrazione che la tesi di una Bretton Woods 2, avanzata dai tre per la prima volta nel settembre 2003 e ribadita da allora più volte, è valida. Come Bretton Woods si basava sulle parità con il dollaro e sulla parità dollaro-oro in un patto sottoscritto, così oggi il sistema del dollaro, relativo soprattutto all'area del Pacifico, si basa sulla volontà di Giappone e Cina di tenere stabile il cambio con la moneta Usa. Gli Stati Uniti sono di gran lunga il miglior cliente, comperano molto perché consumano al di là del risparmio nazionale, si indebitano, ma Giappone e Cina sono e continuano ad essere disposti a colmare la differenza investendo negli Usa, sottoscrivendo titoli del Tesoro e altro, acquistando in dollari e supportando quindi la moneta.
La capacità di sostenere questi deficit «è un fenomeno di mercato che riflette la globalizzazione», ha detto la settimana scorsa Greenspan, continuando a sottoscrivere la tesi dei tre economisti. Che è poi quanto detto nel '65 dall'economista francese Jacques Rueff, padre del "franco pesante" e analista della critica gollista al "vecchio" Bretton Woods quando diceva: «Se avessi un accordo con il mio sarto in base al quale qualsiasi somma che gli pago torna indietro lo stesso giorno sotto forma di prestito, non avrei nessuna difficoltà a continuare ad ordinargli vestiti». Il cliente che riceve i prestiti sono sempre gli Stati Uniti, mentre il sarto era con Bretton Woods 1 soprattutto l'Europa ed è oggi l'Asia.
Reggerà? Chi pensa di sì ritiene che il sistema è integrato, tutti cercheranno di evitare aggiustamenti bruschi e drammatici e che la Fed, aumentando i tassi, riuscirà ad avviare, se coadiuvata dalle scelte di politica economica di Washington, un lento riaggiustamento dei conti americani. Chi pensa di no teme che la fine sarà traumatica, come nel caso di Bretton Woods 1, e che la ripresa del dollaro spinta dal tasso al 4% peggiora la situazione perché ritarda il rientro dal deficit delle partite corenti Usa. Queste avrebbero bisogno di un dollaro più basso, stimolo alle esportazioni e freno alle importazioni. «Può durare la simbiosi fra gli Stati Uniti e i suoi creditori?» si chiedeva a settembre un'attenta analisi del Levy Economics Institute di Bard College. Il Paese non può indebitarsi all'infinito e le opzioni per gli Stati Uniti si stanno restringendo, era la risposta. Solo un coordinamento internazionale con politiche restrittive negli Stati Uniti e di stimolo altrove può pilotare in alvei meno rischiosi gli squilibri americani. Il dollaro, come si diceva un anno fa, dovrebbe tornare a scendere. Ma quando e di quanto è difficile dire.