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Generazione checkpoint

di Amira Hass - 12/12/2006

 

Troppo spesso sembra che i militari israeliani facciano di tutto per trattenere file di auto e persone ai checkpoint, troppo spesso vengono visti sogghignare alla vista delle centinaia di coloro che si ammassano dietro il cancelletto d'ispezione

Sabato 4 novembre, ad un posto di blocco vicino a Nablus, a nord di Gerusalemme, alcuni soldati hanno sparato ad un giovane palestinese, il quale da quasi un mese si trova ricoverato presso l’ospedale Beilinson – periferia di Tel Aviv. Il venticinquenne Haitem Yassin è ora cosciente, ma ancora collegato ad un respiratore. Recentemente ha sofferto di febbre alta, apparentemente causata da un’infezione all’addome a seguito dei colpi d’arma da fuoco. La sua famiglia sta ancora aspettando che l’ospedale renda noto un rapporto sul numero e il tipo di pallottole che hanno provocato al giovane la grave lesione.

L’esercito di Samaria fa sapere che sono ancora in corso le indagini su quanto accaduto quel giorno al checkpoint fortificato e isolato di Asira al-Shmaliya, attraverso il quale solo gli abitanti di diversi villaggi hanno il permesso di passare. Ciononostante, dalle testimonianze raccolte da un ricercatore della B'Tselem – l’Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories (Centro informazioni israeliano per i diritti umani nei territori occupati) – risulta che Yassin avrebbe innervosito i soldati. Avrebbe osato definire inappropriata la loro richiesta di obbligare alcune donne a palparsi da sole per un "controllo di sicurezza". Un affronto evidentemente grave.

Yassin, che aveva fatto ritorno dall’estero alcuni mesi prima, apparentemente non aveva ancora capito quanto sia rischioso ricordare ad un soldato che i palestinesi sono esseri umani. Quando il soldato ha iniziato a spintonare Yassin, egli ha risposto allo stesso modo. Il militare poi, secondo le testimonianze, avrebbe iniziato ad urlare, imprecare e colpire il giovane. Un altro paio di soldati sono velocemente accorsi in aiuto, ed hanno sparato in aria e a terra. I testimoni riportano che, nonostante Yassin fosse caduto a terra dopo gli spari, i soldati lo hanno gettato su un blocco di cemento, lo hanno ammanettato e lo hanno preso a calci. Lo hanno colpito anche alla testa; sempre secondo le testimonianze, ricorrendo alla canna dei loro fucili.

In un villaggio nei pressi di Nablus, S., un altro giovane palestinese, si sta riprendendo dopo essere stato violentemente picchiato da un soldato al checkpoint di Jit, a metà strada tra Nablus e Qalqilya. L’ufficio del Portavoce del corpo militare israeliano ha dichiarato che è stato il giovane per primo ad aver agito con violenza contro il militare che gli chiedeva di tornare al proprio veicolo, e che il soldato si è solo difeso. La versione di S. è completamente diversa. Come molti altri quel giorno (giovedì 9 novembre), il giovane, recandosi all’insediamento ebreo dove lavora, era uscito dalla propria auto per capire come mai il passaggio delle auto al checkpoint non procedesse.

Secondo la testimonianza di un tassista, i soldati avevano annunciato che le auto non sarebbero state in grado di attraversare il posto di blocco fino a mezzogiorno. S., secondo quanto riportato, stava per ritornare al proprio veicolo quando il soldato gli si è avvicinato per, è sembrato, colpirlo con il proprio fucile. S. ha afferrato l’arma e l’ha gettata via. Questo gesto ha apparentemente infastidito il militare, il quale ha agguantato il ragazzo, l’ha allontanato dal resto della gente, l’ha gettato a terra, e ha cominciato a colpirlo in tutto il corpo, capo compreso.

Negli ultimi tempi altri militari, in particolare al checkpoint di Beit Iba, ad ovest di Nablus, hanno “perso le staffe” in maniera simile: nei confronti di uno studente che si sentiva soffocare nella massa di persone accalcate il 9 ottobre, e che pensava che l’unico modo per respirare fosse arrampicarsi su una pertica. Quando si è rifiutato di obbedire all’ordine di scendere, i soldati gli si sono avventati sopra e lo hanno colpito con un fucile. Secondo la testimonianza di un amico, che ha parlato con un’attivista di Machsom Watch1, i soldati gli avrebbero anche rotto gli occhiali e l’avrebbero punito detenendolo in "segregazione cellulare", un tipo di cella di isolamento dove i soldati vi rinchiudono i palestinesi che "si comportano male". La cella sarebbe destinata ai sospetti criminali di guerra, ma spesso vi vengono mandati coloro che semplicemente osano contraddire.

In decine di migliaia di case in Cisgiordania vivono altre persone, che magari non sono (ancora) finite in ospedale, ma che ogni giorno si imbattono negli unici israeliani che incontrano: i soldati ai checkpoint. Anche i non palestinesi che attraversano i checkpoint, fatalmente, giungono alla conclusione che la maggior parte dei soldati ivi stazionati sono volgari, arroganti, saccenti e senza dubbio crudeli. Troppo spesso sembra che i militari facciano di tutto per trattenere a oltranza file di auto e persone ai checkpoint. Troppo spesso vengono visti ridere e sogghignare alla vista dei centinaia di coloro che si ammassano dietro lo stretto cancelletto d’ispezione.

I palestinesi non sono interessati alle spiegazioni che Israele offre: “è una missione difficile”; “i soldati sono spaventati”; “in agguato c’è sempre qualcuno carico di esplosivo”; “sono giovani, ancora dei bambini”; “stanno difendendo la patria”; “se non presenziassero i checkpoint nel bel mezzo della Cisgiordania, terroristi suicidi sarebbero liberi di entrare in Israele ogni volta che lo desiderassero”.

La verità è che persino i familiari dei soldati non dovrebbero essere interessati a queste giustificazioni. Dovrebbero, invece, essere molto preoccupati per il fatto che il proprio paese manda i loro figli e le loro figlie in una missione di apartheid, il cui scopo è quello di ridurre la mobilità del popolo palestinese nel territorio occupato, limitare l’espansione dei palestinesi per permettere agli ebrei di muoversi liberamente nello stesso territorio occupato e accrescere la propria espansione all’interno dello stesso. Per poter compiere questa missione nella sua interezza, affrontando la popolazione nativa, i soldati devono inevitabilmente sentirsi e agire come individui superiori.

1. Machsom Watch è un’associazione fondata nel gennaio 2001 a seguito derlle ripetute denunce alla stampa di abusi di diritti umani verso i palestinesi ai checkpoint dell’esercito o della polizia israeliani. L’associazione è stata fondata da tre attiviste di lunga data nel campo dei diritti umani, Ronnee Jaeger, Adi Kuntsman e Yehudit Keshet.
(NdT – fonte: http://www2.unita.it/unitaforum/viewtopic.php?t=33334&view=next&sid=69b3b0f968ea852b85a498c02e677e09)

 

Amira Hass è la corrispondente da Ramallah del quotidiano israeliano "Ha'aretz". Nata a Gerusalemme nel 1956, è l'unica giornalista israeliana ad avere mai vissuto nei Territori palestinesi. È l'autrice di Domani andrà peggio, pubblicato da Fusi orari. Scrive la rubrica Il diario per "Internazionale".



Fonte: Counterpunch
Traduzione a cura di Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media