Riflessioni sull'intervista a Costanzo Preve
di Gianfranco La Grassa - 20/12/2006
Ho finalmente letto l’intervista concessa da Preve a “Ripensaremarx”. Intitolo questo pezzo come
mera riflessione su di essa, e non come risposta, anche se del suo testo considererò solo le polemiche
contro il sottoscritto. Sono rimasto sorpreso dell’animosità dell’intervistato; vorrei comunque
sapesse che, se lui “si è stancato di raddrizzare le gambe ai cani”, io sono un po’ stufo di rispondere
sempre alle stesse obiezioni. Come già sapevo, ognuno parla per i fatti suoi, pur quando sembra affrontare
i problemi di altri, ed è difficile leggere insieme gli “stessi testi” con lenti teoriche (non solo
filosofiche) differenti.
Non voglio mettere in dubbio che chi non conosce adeguatamente la filosofia sarà sempre
schiavo di una “cattiva filosofia”; ma non lo metto in dubbio proprio perché, pur avendo letto (ma
solo letto) molto di filosofia, non mi ritengo neanche per un “piccolo pezzo” un filosofo; e quindi
non so dare giudizi sulla “mia filosofia”. Del resto, ho letto moltissimo di fisica (e cosmologia, ma
quella scritta da fisici), chimica, biologia, e di non so quanti altri rami scientifici, ma non ritengo di
conoscerli veramente. Ho letto anche abbastanza di storia (anche se avrei voluto impegnarmi molto
di più), ma non sono purtroppo nemmeno un po’ uno storico. Quello che sono non lo so con precisione,
ma credo di potermi definire come uno che ha cercato di sollevarsi, anche in tema di rigore,
ad un medio livello di “scienza della società”; con particolari approfondimenti di quella che ha come
oggetto la società capitalistica, considerata utilizzando un apparato teorico le cui coordinate
fondamentali mi sono state fornite da Marx (ovviamente per come l’ho letto e fatto interagire con
tutto il resto di cui mi sono “nutrito”).
Comunque, se Preve dice che sono schiavo di una cattiva filosofia, non ho alcun motivo (né interesse)
a sostenere il contrario. So però che egli considera, come già altri, la Filosofia quale
“Scienza Suprema”; e forse per questo si esime dal conoscere minimamente un qualsiasi altro ramo
delle scienze (quelle con la
s minuscola). Del resto egli è hegeliano; ed in un libro su Hegel (chePreve stesso mi ha consigliato di leggere), il commentatore Cicero scrive: “Qualsiasi aspetto generale
o particolare della filosofia hegeliana si prenda in considerazione, è dunque
determinante [corsivomio] tenere in debito conto questa sua ‘iperbolica identificazione’ del pensiero filosofico e del
pensiero divino”. E’ ovvio che non posso competere con il “divino”, e dunque sarò sempre un “cattivo
filosofo” per un hegeliano. Mi viene comunque in mente il film “Manhattan” di Woody Allen.
In un litigio con il suo amico (per questioni di donne), questi gli dice incazzato: “ma tu ti credi
Dio”. E lui di rimando: “uno si deve pur dare un modello”. Se certi filosofi si lasciassero andare alla
stessa autoironia, si leggerebbero più gradevolmente.
Commenterò in ogni caso solo alcuni passi dell’intervista previana, e in qualche modo risponderò
ad alcune obiezioni, da
non filosofo; e senza entrare in discussioni sul loro lato filosofico, perchéaltrimenti le mie risposte, per definizione, sarebbero “cattive” per chi tende alla “iperbolica identificazione”
di cui sopra.
Intanto, debbo dire che su alcune questioni ho già ampiamente disquisito nella mia aggiunta al
testo sulla “terza forza”, poiché avevo già ricevuto obiezioni come quelle di Preve. Errato il suo volermi
trovare in contraddizione sul tema delle forze produttive. Ho già risposto e quindi sarò ripetitivo.
Nessun maoista, nessun althusseriano – e tanto meno Bettelheim, di cui si legga almeno “Calcolo
economico e forme di proprietà” – ha mai trascurato il lato dello sviluppo delle forze produttive.
L’economista marxista francese non ha fatto alcuna “autocritica” per quanto riguarda la sua polemica
con Guevara in merito allo sviluppo di Cuba, laddove quest’ultimo inneggiava al fattore
uomo e Bettelheim lo richiamava ad un minimo di rigore e sobrietà, ricordando il lato del tutto oggettivo
dello sviluppo delle forze produttive, che esigono un attento calcolo delle risorse e del loro
uso
economico.Quello che il sottoscritto, così come ogni altro “maoista” o “althusseriano”, ecc. sosteneva è che
non basta lo sviluppo delle forze produttive per provocare – nell’urto d’esse contro il limite posto
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dai vecchi rapporti di produzione – la trasformazione di questi ultimi. Non esiste la famosa “barriera
che il capitale pone a se stesso, al suo ulteriore sviluppo”. Tutto qui, ma non mi sembra una “cosetta
da niente”. Tuttavia, sarebbe assurdo pensare che, una volta preso eventualmente il potere (anche se
adesso non è più tanto lecito pensarci, a quel tempo non era così), le forze politiche che intendessero
trasformare il capitalismo in una diversa società (allora si pensava ancora al comunismo) dovrebbero
pensare a trasformare gli uomini e i loro rapporti sociali, disinteressandosi dello sviluppo delle
forze produttive, della crescita delle capacità di soddisfare i bisogni, che sono anche bisogni “materiali”
(fra i quali vi sono quelli di sviluppo della scienza e della tecnica). Giustamente, la popolazione
le spazzerebbe via; come in effetti è accaduto, perché il “socialismo” non era più in grado di sviluppare
le forze produttive. L’ importante è non credere di risolvere il problema della trasformazione
con il semplice sviluppo di queste ultime (su questo non ho cambiato idea).
Nel 1957, sulla base dell’esperienza dell’URSS (i cui aspetti negativi furono coperti al XX Congresso
del PCUS nel 1956 con l’idiozia del “culto della personalità”), Mao formulò le tesi sulle
“contraddizioni all’interno del popolo”, che tuttavia riguardavano anche la Cina e le difficoltà del
suo sviluppo, malgrado il trionfalismo di statistiche poco attendibili. Fu accelerato il processo di
costituzione delle Comuni popolari e si lanciò nel 1958 il famoso “balzo in avanti”, finito in un disastro
(anch’esso occultato). Nessun comunista e marxista negli anni ’60 (nemmeno i maoisti europei
fra cui chi scrive) si mise in testa la balzana idea che occorresse l’inviluppo delle forze produttive
nei paesi socialisti per dedicarsi esclusivamente alla trasformazione dei rapporti sociali e
dell’Uomo (per Preve non si tratta nemmeno di trasformazione, ma di ritorno alla classicità greca).
Si sosteneva che il socialismo era una fase in cui sussisteva la lotta di classe (quindi le contraddizioni
erano considerate ormai antagonistiche e non più soltanto interne al popolo), e che la borghesia
stava riprendendo in mano il potere nel partito e nello Stato, ma poi anche nelle fabbriche. Celato
dalla proprietà formalmente pubblica (statale), sussisteva il “potere di disporre” dei mezzi di produzione
da parte di una nuova classe capitalistica (formatasi appunto dentro il partito e lo Stato).
Il problema non era quindi cambiato; se le forze produttive non si sviluppavano era perché urtavano
contro la “barriera” capitalistica (formalmente “collettiva” sotto l’egida dello Stato). Bisognava
pur sempre infrangere l’esistente struttura dei rapporti di produzione; solo che si ebbe una meno
vaga rappresentazione di questi ultimi in quanto non mero involucro (e “catena”) bensì come strutturanti
le forze produttive. In ogni caso, permaneva la necessità di trasformazione rivoluzionaria dei
rapporti (affidata alla lotta di classe, in particolare nella sfera della politica e dell’ideologia, ma anche
nelle fabbriche), onde ridare slancio alle forze produttive. In omaggio al vecchio marxismo, si
continuava a vedere nella classe operaia la classe universale, il motore della trasformazione: “la
classe operaia deve dirigere tutto” si proclamò (e non lo smentì alcun althusseriano, alcun maoista,
cinese o europeo che fosse). Si leggano gli scritti di Bettelheim (a cavallo degli anni ’60 e ’70)
sull’URSS e, per converso, sulla Cina, e si vedrà come la pensava qualsiasi marxista, che si rendeva
perfettamente conto non soltanto di come il confronto produttivo con il campo capitalistico non potesse
certo essere eluso, ma anche di quanto fosse insensato voler erigere il comunismo sulla comune
“povertà”, sulla frugalità e parsimonia generalizzate, sull’arresto della capacità di “soddisfare in
misura crescente i bisogni del popolo”. Ci si sbagliò nelle “ricette”, cioè nell’analisi di classe (e soprattutto
della classe operaia) e lo sviluppo non venne; e dunque vinse – giustamente in senso storico
– Teng che lasciò libero sfogo a forze produttive strutturate da altri rapporti (non precisamente
quelli del capitalismo occidentale, ma pur sempre rapporti tra minoranze dominanti e maggioranze
dominate, per dirla schematicamente).
Credere di evitare questo problema, incitando all’inviluppo delle forze produttive, è solo
l’ammissione del fallimento da parte di certi ex comunisti ed ex marxisti, che delusi si avvicinano
allora a ideologie quanto meno influenzate da quelle propugnate dalla “nuova destra”. Io ammetto il
fallimento del comunismo e del marxismo – anche di quello critico del maoismo europeo – ma mi
rifiuto di trarne conclusioni che implicherebbero, qui da noi, non semplicemente la vittoria di un
Teng, bensì di quelli da me indicati genericamente (per evitare inutili riferimenti a diversi, ma simi3
lari nella sostanza, processi storici) come “rivoluzionari dentro il capitale”, che si aprono la strada
con ideologie apparentemente volte a rinverdire le “antiche tradizioni del popolo”, ma sanno poi
benissimo che cosa si deve fare – e su quali forze “di classe” ci si deve basare – per ridare slancio,
con metodi del tutto moderni e avanzati, alle forze produttive (in una situazione di netto predominio
di certi gruppi sociali su altri), senza il quale sarebbero spazzati via in “due balletti” da una stragrande
maggioranza inferocita per il degrado delle proprie condizioni di vita.
Non ritengo per nulla senza effetti l’avvicinamento di Preve a certi “gruppi” tacciati di “novodestrismo”.
Questo non mi porta a condannarlo o a ritenerlo traviato dal “Male Assoluto” definito
sempre “fascismo”. Nemmeno ritengo che si sia scritta la “giusta storia” del nazifascismo di un
tempo; siamo condizionati da una storia meramente ideologica, che non capisce niente dell’effettiva
importanza di certi movimenti politici (e
culturali) perché è obnubilata dagli “stravolgimenti” operatida chi si schierò opportunisticamente con i vincitori. Io non evoco il Male, non lancio anatemi
ed esorcismi; dico semplicemente che la mia analisi, la mia teoria (e ideologia) mi conduce su sentieri
pratici
(e quindi anche politici) diversi da quelli di Preve e altri, di “vario orientamento” ideologicoma uniti nel tentativo di creare condizioni culturali – e anche ideologico-politiche – favorevoli
a (som)movimenti (solo
eventualmente possibili) di cui condivido l’antiamericanismo el’antisionismo, ma non altre impostazioni. Preve ed io non percorriamo in questo momento strade
convergenti, ma questo non mi porta all’animosità, salvo quel minimo di irritazione e fastidio che
mi procurano le tesi contrarie allo sviluppo, alla crescita e continua innovazione di scienza e tecnica,
ecc.
Mi si permetta una breve digressione. Il mio disagio è crescente di questi tempi; non passa un
giorno in cui io non “sacramenti” contro le attuali modalità di vita (su cui non mi diffondo perché
spero si comprenda a volo ciò che voglio dire). Ho continui “travasi di bile” e mi trovo spesso a
“sognare” una macchina del tempo che mi riporti ai “miei” anni ’50 e, ancor più, ’60 (non di età, sto
parlando dei decenni del secolo scorso che sento come
miei in senso pieno). Questo è però un miofatto privato, che immagino riguarderà anche altri della mia generazione; ma non tocca la “società”,
e tanto meno l’Uomo. Invocherei “lo foco” con quel che segue; ma si tratta di momenti di incazzatura
e nulla più. Per il resto, sono fermamente convinto che il “progresso” (togliamoci pure ogni
connotazione positiva di valore, sono d’accordo) continuerà, travolgerà i critici e condurrà a nuove
epoche, in cui prevarrà o chi si adeguerà al “nuovo” (senza “giudizi di valore”) o, se saremo fortunati,
ne trasformerà i rapporti sociali in senso, diciamo genericamente, “più giusto”, senza però provocare
inviluppo. Le ideologie della decrescita, della tecnoscienza che ci distrugge, ecc. servono
solo ad aprire la strada a certuni piuttosto che a certi altri; in ogni caso a chi saprà assicurare, pur
nella trasformazione dei rapporti sociali (magari
dentro invece che contro il capitale), un accrescimentodelle capacità di sviluppo.
In conclusione, nessuna contraddizione nel pensiero del sottoscritto, rimango fedele
all’impostazione dei “tempi andati” (per quanto concerne il rapporto forze produttive-rapporti di
produzione, non però per quanto concerne le conclusioni di allora). Non intendo più spendere ulteriori
parole in merito; mi sembra sia chiaro che Preve ha frainteso i miei intendimenti di sempre,
che sono poi quelli del maoismo (cinese ed europeo, cioè anche degli althusseriani).
Per Preve, io sarei sempre un althusseriano pressoché ortodosso. Non entro nemmeno tanto nel
discorso sul materialismo aleatorio. Se questo significa semplicemente che sono convinto che la casualità
sia fondamentale nel “produrre” eventi (naturali come storico-sociali), questo è vero. Tuttavia,
accetto tranquillamente la possibilità che tale casualità nasca soltanto dalla nostra incapacità di
controllare tutte le innumerevoli “variabili” che determinano un processo e lo orientano in determinate
direzioni. Non sono per nulla in grado di decidere se è così oppure se la casualità è
intrinsecaal movimento del mondo; questo lo sa solo Dio (a cui non credo). Inoltre, non faccio mai appello
alla casualità per esimermi dallo studiare quelle cause (di un determinato processo) che sono in grado
di analizzare e su cui mi sento di formulare ipotesi; e quindi non mi rifiuto di azzardare, se del
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caso, certe previsioni. Questo ovviamente non ha nulla a che vedere con le certezze che a Preve dà
la “Suprema Scienza”. Non so che farci, ma su questo punto mi tengo la mia “cattiva filosofia”, che
ritengo meno pericolosa.
Tuttavia, per me, Althusser era soprattutto quello che invitava a non leggere la prima sezione de
“Il Capitale” (la merce ecc.) e a iniziare da subito dopo. Ho seguito a lungo tale impostazione, ci ho
scritto sopra molti libri (e non me ne pento), poi sono tornato “indietro”; ma solo apparentemente.
Non intendo spendere una parola su tale problema, su cui mi sono diffuso ormai più volte (anche
nell’incompiuto “Marx in sé”, che si trova “in rete”). Se fossi tornato indietro e basta, non avrei potuto
che riscrivere al massimo il testo di Rubin. Non pretendo di essere bravo come quest’ultimo (ci
mancherebbe), sono però molto diverso; il passaggio per l’althusserismo ha lasciato comunque un
segno, ma oggi non seguo più il consiglio di tale “scuola” e ritengo che Marx abbia cominciato
“dalla parte giusta”, e ne ho spiegato più e più volte il perché.
Confesso anche che sono in effetti nominalista. Conosco gli uomini e non l’Uomo; e non riesco
a pensare alla “cavallinità” o alla “gattità”, e via dicendo. Tuttavia, non credo affatto che Preve (e
non so quanti altri dall’inizio della storia umana) sia matto o scemo o non so che. Può pensare
all’Uomo, al Genere Umano, finché vuole; e credo che sia in grado di svolgere ragionamenti dotati
di senso. Come li fanno coloro che credono in Dio e ci riflettono con profondità. Confesso anzi che
ho una certa preferenza per questi ultimi rispetto a quelli che pensano l’Uomo. E’ però possibile che
si tratti di un mio pregiudizio; in ogni caso, mi astengo qui dal ragionarci sopra. Personalmente non
credo in Dio né nell’Uomo. Penso agli uomini, ai loro rapporti sociali, ecc.; non ho però alcuna intenzione
di disprezzare un punto di vista diverso. Ricordo semplicemente che in tutta la storia del
pensiero umano sono sempre esistiti i “realisti” e i “nominalisti”; non mi consta sia stata data definitivamente
la prova che gli uni hanno torto e gli altri ragione, che gli uni sono “saggi” e gli altri “devianti”
o limitati o cattivi o altro ancora. Il mio atteggiamento è il medesimo che ho nei confronti
delle discussioni sull’esistenza o l’inesistenza di Dio; non sento voglia di parteciparvi. Non credo in
Dio, lo ripeto, ma non mi impegnerei mai in una, a mio avviso assurda, dimostrazione della sua inesistenza;
mi sentirei veramente a disagio, avrei la sensazione di perdere tempo. E’ però una semplice
sensazione dell’individuo Gianfranco La Grassa, che non attribuisco dunque all’Uomo.
Vi è però un fraintendimento al quale forse ho dato adito io stesso, magari per la forma paradossale
in cui mi sono espresso. Quando parlo degli uomini (individui) in quanto “punti di snodo” del
reticolo sociale, non mi riferisco a quegli esemplari individuali dell’“essenza” Uomo in cui crede
Preve. Egli pretende di citare Marx contro di me, ma si sbaglia di grosso. Già nella prefazione a “Il
Capitale” (vogliamo ammettere che questa è la sua opera principale, che a questa dedicò quasi tutte
le sue energie intellettuali, e che perciò egli era più scienziato che non altre cose?) Marx scrive: “qui
si tratta
delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazionedi determinati rapporti e di determinati interessi di classi
. Il mio punto di vista.....può menoche mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura,
perquanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi
[quest’ultimo corsivo è mio]”.L’ultima frase da me messa in corsivo, pur nella sua genericità, apre appunto alla considerazione
degli uomini concretamente esistenti, empirici, che non sono solo “personificazione, incarnazione di
determinati rapporti, ecc.”, non sono quindi solo punti di snodo di un reticolo di rapporti sociali di
forma “storicamente determinata”. Ma nel fare scienza, Marx non tratta di questi individui concreti,
bensì solo delle loro “maschere” sociali; egli li considera incasellati in determinate posizioni
nell’ambito della struttura capitalistica dei rapporti di produzione, e dunque portatori di azioni che
da queste posizioni si dipartono. Del resto, questa struttura di rapporti di produzione – molto schematica,
perché fondata sulla mera proprietà/non proprietà dei mezzi di produzione – è un’altra categoria
teorica: non rappresenta il mondo (sociale) empirico, concretamente reale. Marx analizza soprattutto
il “modo di produzione capitalistico”, che non è la società nel suo insieme, nella sua effet5
tiva esistenza, mutevole di giorno in giorno. La scienza è qui in primo piano; ma è senz’altro giusto
affermare che “grigia è la teoria e verde è l’albero della vita”.
La scienza è in fondo una mappa orientativa, uno schema (ipotetico) per cercare di “muoversi”
nel “mondo”; non ha – almeno non per quanto mi concerne – l’intenzione di cogliere “profonde verità”,
di scandagliare gli insondabili misteri della nostra esistenza, del nostro essere “scagliati” in
questo Universo di dimensioni tali da stordire. La scienza non può quindi pretendere di esaurire il
nostro pensiero che si avventura verso “altri orizzonti”; figuriamoci se non sono d’accordo su questo.
Tuttavia, non sono personalmente interessato – forse anche perché scoraggiato dall’immensità
del compito – ad andare oltre l’ambito della scienza e dei suoi suggerimenti in tema di agire pratico
nel mondo.
Per quanto mi riguarda, ritengo che l’arte sia nettamente migliore della filosofia nell’afferrare
(intuitivamente) l’“albero della vita”. Ma questo non ha qui importanza. Spero sia adesso chiaro
qual è l’uomo di cui parlo quando accenno al “punto di snodo” della rete dei rapporti sociali; si tratta
semplicemente di una “figura teorica”. Importante però, perché molti continuano a fare pasticci
tremendi, cacciando l’uomo concreto nel cuore stesso delle teorie scientifiche. Si pensi alla banale
critica fatta da alcuni alla teoria economica neoclassica; da “buoni filosofi” (umanisti?) essi inorridiscono
perché questa tratta dell’
homo oeconomicus. Tutti i grandi economisti neoclassici, non unoescluso, sapevano perfettamente che l’uomo reale non è mosso solo da finalità economiche, non agisce
in base alla pura razionalità del
minimax (minimo mezzo o massimo risultato). Certa criticarivolta ai neoclassici è perciò fondamentalmente sbagliata, non colpisce l’obiettivo. E’ semmai necessario
criticare, secondo il punto di vista marxista, le “robinsonate” di questa teoria – il suo “originario”
fondarsi sulla relazione tra un soggetto e i mezzi (beni) necessari a soddisfare i suoi bisogni
(da cui deriva una certa costruzione della società su cui certo non mi dilungo in questa sede) – mostrando
la maggior pregnanza del quadro teorico di Marx, costruito attorno al concetto di modo di
produzione capitalistico (con la sua particolare struttura di classi, ecc.); ma quest’ultimo non è più
reale, concreto, aderente all’esistente (all’“albero della vita”) di quanto non sia l’
homo oeconomicus.E’ su questo punto che molti marxisti “smarronano”, perché credono che la teoria di Marx “fotografi”
meglio la
realtà, le sia più aderente, la riproduca con maggiore fedeltà, sia più esaustiva.Nulla di più errato. E siccome non credo che Preve commetta questo errore, mi auguro che quanto
detto sull’argomento sia sufficiente.
Un altro punto, a mio avviso superficiale, delle considerazioni di Preve. Negli anni ’60, il Club
di Roma (legato alla “Trilateral”, ricordiamo anche questo per favore, visto che si tratta di una mafia
capitalistica egemonizzata dagli americani!) sosteneva che, entro la fine del secolo, si sarebbero
esaurite le risorse energetiche del pianeta e ci saremmo trovati con il “culo a terra”; senza quindi più
alcuna possibilità di sviluppo. Il fatto che la previsione fosse errata, dice Preve, non implica che non
possano essere esatte le attuali profezie di sciagura, di esaurimento delle fonti energetiche entro il
2050, di altri molteplici disastri ecologici che potrebbero colpire gravemente la Terra. Certo, nulla
esclude che ciò possa avvenire; però è altrettanto lecito affermare che nulla esclude che le previsioni
siano ancora una volta cervellotiche; ad esempio come le previsioni meteorologiche di qui a 2-3
mesi. E’ più che lecito farle, ma vanno trattate come “prove”, come esperimenti, con la consapevolezza
della bassissima, infinitesima, probabilità relativa alla loro esattezza. Altrimenti si fanno profezie,
non previsioni scientifiche. Ed io dovrei cominciare a strapparmi i capelli per delle profezie?
Siamo seri, per favore!
Per il momento, io so che negli anni ’60 si prevedeva il disastro entro 30-35 anni. Da allora, la
popolazione mondiale è cresciuta enormemente, si è sviluppato il sud-est asiatico, sono ormai da
anni in piena avanzata i due più popolosi paesi del mondo (almeno il 35% della suddetta popolazione),
con una crescita esponenziale dei consumi energetici. Eppure, anche i più catastrofisti ci assegnano
ancora 40 e passa anni di possibile sopravvivenza e di utilizzo delle (attuali) fonti di energia;
e se arrivati a quella data, con ulteriori incrementi della popolazione, del Pil mondiale, dei consumi
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energetici, ecc., si venisse a dire (non a me e a Preve, ovviamente) che ci sono al massimo altri 40-
50 anni di sviluppo e non di più? Può forse escludere questa possibilità Preve? Non vorrei si ragionasse
come certi bordighisti, che fissano la rivoluzione proletaria a un dato anno; poi questa non si
verifica, allora essi l’aggiornano ad un’altra data; e così via. Ricordo anche un'altra “piacevole trovata”
dei comunisti duri e puri. Fallito il socialismo reale, accartocciatasi la prospettiva rivoluzionaria,
essi si sono detti: ma che scemi, non ci ricordavamo più che il capitalismo si è affermato sul
feudalesimo nel corso di alcuni secoli e con anche alcuni periodi di ritorno all’indietro; quindi così
accadrà pure per il comunismo; adesso è solo fallita la prima ondata, ma nel corso dei prossimi secoli
esso trionferà. E’ un ragionamento sensato? E’ da prendersi in seria considerazione? Domande
retoriche, ovviamente, sia per me che, spero almeno, per Preve.
Potrei ancora ricordare Togliatti: di fronte alle obiezioni che la sua via italiana (parlamentare) al
socialismo assomigliava molto all’opportunismo kautskiano, egli rispose che in effetti, quarant’anni
(o giù di lì) prima, quella tesi era errata (e quindi Kautsky era veramente un socialdemocratico riformista
e “rinnegato”), ma all’epoca in cui egli (Togliatti) formulava più o meno la stessa tesi le
condizioni erano totalmente cambiate, ed essa era quindi realistica e rivoluzionaria. Quando mi
scontrai con i dirigenti comunisti provinciali su questi problemi – prima di abbandonarli e mettermi
con i “filocinesi” (maoisti) – mi accorsi che era inutile stare a discutere, perché era impossibile dimostrare
loro, con piena evidenza, che Togliatti si avviava sulla stessa strada di tutte le socialdemocrazie
di ogni tempo. Adesso, però, dopo mezzo secolo credo si possa tirare qualche conclusione.
Non che io avessi completamente ragione, ma in ogni caso ero più realistico (e previsivo) di coloro
che infilavano la testa sotto la sabbia come lo struzzo.
Scrive Preve che vorrebbe sapere da qualcuno, che ne sa più di lui, se lo sviluppo mette a rischio
il pianeta oppure no. Anch’io vorrei saperlo, e anch’io non sono un esperto di questi problemi. So
solo che non lo sono certo Latouche, De Benoist e tutti i filosofi della decrescita. Tra gli scienziati
c’è dibattito e non tutti sono d’accordo. O meglio, credo che nessuno dica che tutto va bene, che
non sussiste alcun rischio, che possiamo dormire tra due guanciali. Ci sono opinioni diverse sulla
possibilità o meno di risolvere i problemi senza decrescere, anzi incrementando lo sviluppo di nuove
tecnologie sempre più sofisticate (fra cui le nanotecnologie, forse ancora allo stadio iniziale, con
qualche filone di fantascienza, ma credo molto interessanti), ecc. ecc. Non vorrei mettermi a dibattere
questi nodi tutt’altro che risolti; e nemmeno saprei fare il conteggio degli esperti favorevoli
all’una tesi (ottimistica) o all’altra (pessimistica). Mi sembra siano nettamente maggioritari i primi,
ma non posso esserne sicuro al 100%. Tuttavia, una prova indiziaria che sono in maggioranza si può
desumere dal fatto che gli ecologisti (tra cui conosco molti filosofi e pochi scienziati) accusano gli
avversari di essere al soldo delle multinazionali. Forse nei due-tre secoli che precedono, e che hanno
visto un progresso scientifico e tecnico in accelerazione esponenziale, c’è stata una schiacciante
prevalenza della scienza pura e disinteressata, mai finanziata da Stati e mercanti (ad es. nel campo
della navigazione) o dalle industrie, molte delle quali produttrici di quelle armi che hanno risolto i
conflitti per la supremazia, di cui è punteggiata la nostra intera storia? E vogliamo credere che prima
del capitalismo, a partire già dall’antichità, i grandi avanzamenti della conoscenza scientifica
non hanno avuto nulla a che fare con le classi dominanti e i loro antagonismi spesso cruenti? Cerchiamo
di non raccontarci balle (non è fra l’altro il non raccontarsele quell’essere comunisti, di cui
ha spesso parlato Althusser, in questo approvato anche da Preve?).
Per me è eccezionale il folgorante inizio di “2001 Odissea nello spazio” (Kubrik). Siamo nel
periodo delle prime scimmie già in marcia verso gli ominidi. Le varie “tribù” di scimmie si scontrano
come al solito; ad un certo punto, una prende in mano un pezzo di legno e, a mo’ di clava, la picchia
sulla testa di un “nemico” uccidendolo. Resta un momento perplessa, poi da lei (e da quelle del
suo gruppo) si levano urla (stridii) di gioia, il pezzo di legno-clava viene lanciato in alto, volteggia e
….si trasforma nell’astronave in cui poi si svolgerà la vicenda. Il “progresso” umano è sintetizzato
in quel volo della clava; e non si tratta solo di scienza e tecnica, ma di evoluzione – con salti trasformativi
– delle forme sociali e culturali della civilizzazione umana. Il tutto con un “comincia7
mento”: il conflitto e l’uso dell’arma per prevalere in esso. Gli “umanisti” saranno inorriditi di fronte
a tale pensiero; io no. Ci si deve “mettere una pezza”, cioè cambiare le regole di questo gioco
(sempre selvaggio malgrado le diverse forme, alcune apparentemente “civili”, del suo manifestarsi)?
Io penso di si, credo che ci si debba battere per conseguire tale obiettivo. Tenendo però conto di
quanto è finora avvenuto; e conoscendo adeguatamente quali mezzi sono a nostra disposizione in
questo, probabilmente eterno, combattimento (eterno finché dureranno gli uomini e la Terra).
L’imperialismo. A Preve non piace che io usi egemonismo. Tuttavia, imperialismo può essere
utile nell’agitazione propagandistica, nella polemica, in ambito giornalistico. Nella scienza è necessario
utilizzare nomi diversi per indicare fenomeni diversi. Se egemonismo non va bene, si dovrà
trovare un altro termine; anche se a me egemonismo non dispiace. Imperialismo è stato usato per
segnalare una semplice politica imperiale o come sinonimo di colonialismo (ad es. da Kautsky). Lenin,
cui faccio riferimento come gran parte dei comunisti marxisti, criticò entrambi gli usi. Egli parlò
di imperialismo per definire un determinato fenomeno (storico) secondo due aspetti che egli pose
come principali. Intanto, la lotta per l’egemonia mondiale tra un certo numero di potenze più o meno
della stessa forza. In questo senso (geopolitico) io parlo di policentrismo. Preve considera gli
USA l’unica vera potenza mondiale, e talvolta (telefonicamente) si è detto poco convinto della mia
tesi di un incipiente policentrismo; tanto più allora il termine “imperialismo” è poco appropriato. In
ogni caso, sia chiaro che anch’io considero l’attuale epoca ancora per l’essenziale monocentrica;
ritengo che si sia appena aperta la porta per l’entrata in una fase di avvicinamento progressivo al
policentrismo (imperialistico). Sono convinto che tale fase non sia reversibile, e che quindi nel giro
di qualche decennio saremo in una nuova epoca “imperialistica”; al momento non la considero però
tale perché, appunto, non policentrica.
Imperialismo, per Lenin, significava però anche un altro processo. Si trattava della fase suprema
o ultima del capitalismo, del suo stadio monopolistico (irreversibilmente stabilizzatosi), cioè di un
periodo di massima centralizzazione dei capitali. Il dirigente bolscevico non pensava, come Kautsky
o Hilferding, che si sarebbe giunti all’unico trust mondiale; non contestava però l’esistenza reale di
tale tendenza univoca (anche lui non vedeva altro che questa), era semplicemente convinto che essa
si stesse affermando tra scontri mondiali intercapitalistici (interdominanti) acutissimi che avrebbero
condotto alla generale rivoluzione proletaria (di cui quella russa fu pensata come semplice inizio,
come detonatore, come innesco). La rivoluzione proletaria mondiale non c’è stata; laddove si era
prodotto qualcosa che ad essa poteva assomigliare (ma che alla fine si dimostrò essere ben diverso),
il processo è completamente rifluito; l’aumento delle dimensioni d’impresa è proseguito imperterrito
senza arrivare ad alcun ultimo o supremo stadio monopolistico. Tuttavia i marxisti sclerotici
d’oggidì continuano, essi pure imperterriti, a parlare di massima centralizzazione capitalistica, della
lineare e continua crescita della dominanza e parassitismo del capitale finanziario, ecc.
In realtà, il gigantismo delle imprese va messo in rapporto con l’ampliamento e l’infittimento
del reticolo mercantile e con le periodiche grandi epoche di innovazioni di processo e di prodotto
che riarticolano i rapporti tra i vari settori produttivi del sistema economico, creandone molti di
nuovi dove i vari capitali si precipitano riaccendendo la loro reciproca conflittualità, ecc. Non esiste
ultimo stadio, “massima” centralizzazione monopolistica e tutte le altre belle previsioni (sballate)
del marxismo
d’antan. Quindi né dal punto di vista geopolitico della lotta tra potenze, né da quellodello “stadio monopolistico” (in quanto “fase ultima o suprema”) del capitalismo, sussistono quelle
condizioni considerate da Lenin e raggruppate sotto la denominazione di “imperialismo”.
Anche per quanto riguarda la finanza, l’analisi andrà condotta al di fuori dei vecchi schemi. Esistono
periodi, congiunture, in cui la finanza denota fenomeni di grande speculazione e di parassitismo
(a spese del sistema produttivo), ma altri in cui essa ha funzioni strategiche propulsive, sia in
tema di innovazioni sia per quanto riguarda la politica di espansione delle sfere di influenza. Anzi,
bisognerà pur considerare non le sole congiunture, che si alternano le une alle altre, bensì anche la
differenziazione della funzione finanziaria in paesi diversi nella medesima epoca (in specie mono8
centrica come quella attuale). E sarà necessario analizzare, oltre ai parassitismi della finanza, quelli
dell’industria che spesso indico come “decotta”, pur sempre in fasi diverse, e nei vari paesi, della
configurazione della formazione sociale capitalistica mondiale.
Non ha quindi senso ostinarsi a denominare nello stesso modo fenomeni fra loro assai differenti,
in mutati contesti storici. Ripeto: usiamo la vecchia dizione per certi scopi di politica immediata, ma
cambiamo definizioni in merito alla geopolitica e alla struttura capitalistica secondo quanto possiamo
capire d’essa attualmente. Altrimenti facciamo solo dei gran pasticci e ripetiamo poi, pari pari,
le analisi leniniane, che oggi ritengo nettamente superate e non più utili ai nostri scopi. Se mi dico
leninista, lo sono in tutt’altro senso che vedremo fra un po’.
Preve si pone assieme a Latouche, a De Benoist (e a Bontempelli-Badiale) – più certamente
molti altri – a predicare la decrescita. De Benoist, dice, si rende conto dell’antinomia tra geopolitica
– il fatto che gli USA sono molto potenti e che l’antiamericanismo non può vincerli a chiacchiere –
e questa decrescita, ma, essendo “dialettico”, la risolve….non ho affatto capito in che modo, poiché
a mio avviso Preve non lo dice. Tra geopolitica e “inviluppo” delle forze produttive c’è in effetti
contraddizione lacerante e tensione acuta; il definirla antinomia e fare appello alla dialettica non la
risolve in alcun senso. La contraddizione resta e sarà meglio, quando però ce ne saranno le forze,
affrontarla nell’agone della lotta (con la ben nota “analisi concreta della situazione concreta”), se
questa riprenderà in direzione della trasformazione dei rapporti capitalistici. Con le belle paroline,
Preve e il suo amico De Benoist non risolveranno la contraddizione in oggetto. Per adesso è semplicemente
necessario rendersene conto e non indurre la “gente” a credere illusoriamente che sia possibile
risolverla puntando tutte le forze sulla trasformazione sociale, anzi di più ancora: sul fiorire (o
non so come definirlo; lascio a Preve di trovare la parola) del “genere umano”.
Tuttavia, le considerazioni geopolitiche vengono
dopo, perché la decrescita è un controsensoperfino
prima di fare appello all’antiamericanismo, e dunque all’esistenza di questa unica superpotenzamondiale che dobbiamo pur combattere. Prendiamola larga. Nel 1889 esce i “Tre uomini in
barca” di Jerome K. Jerome, grande umorista inglese. Vi sono alcune pagine gustosissime, in cui
l’autore si lancia in una sequela di invettive contro coloro che hanno irreparabilmente inquinato le
acque del Tamigi, facendovi morire ogni specie di fauna ittica. Inoltre, le rive del fiume sono state
disboscate e rese spoglie da proprietari che hanno occupato ogni lembo di terra, talché è ormai impossibile
trovare un pezzo di sponda da cui tuffarsi per fare il bagno (del resto, in acque inquinate).
Non vi sembra di sentire affermazioni del tutto attuali? Forse Jerome esagera per quei tempi, non ha
capito bene come stavano le cose? Oppure è un profeta che già anticipa quello che è accaduto
cent’anni dopo? Un po’ come Marx che, per certi cretini, è soltanto un profeta che ha anticipato la
globalizzazione odierna?
Queste sono evidenti asinerie. Jerome vedeva quel che andava visto, non si inventava nulla; il
degrado ambientale è iniziato come minimo con la fase industriale del capitalismo. Su questo non
ho molti dubbi e non sono affatto in grado di rispondere al quesito: ne valeva la pena? Debbo però
anche considerare altri aspetti della questione. Sono passati 120 anni dal libro di Jerome (e molti di
più dalla “rivoluzione industriale”, che ha avuto anche, per un ben lungo periodo, effetti disastrosi,
terrificanti, in sede sociale e non solo ambientale). Mi sembra innegabile “l’ombra” rappresentata
dal degrado sopra accennato, in costante aumento, nonché da quello culturale negli ultimi decenni
(almeno in occidente); questa è la mia impressione. Tuttavia, consideriamo anche le “luci”. La popolazione
(dalla fine dell’800) è enormemente aumentata (triplicata, quadruplicata? Non ho i dati e
non li vado a cercare); la percentuale di quella che muore di fame è chiaramente diminuita, la vita
media si è allungata di non so quanto. Le condizioni di alimentazione, di igiene e sanità, pur ancora
tra contrasti e chiaroscuri, sono decisamente migliorate. Si muore pur sempre di qualcosa, ma molte
malattie, e soprattutto le spaventose epidemie, sono state – non dappertutto ma in gran parte del
mondo – debellate o mitigate. Terremoti, inondazioni e quant’altro hanno effetti terribili dove ancora
manca lo sviluppo e assai meno devastanti dove quest’ultimo si è verificato. Sono migliorate le
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comunicazioni, ci si sposta in un battibaleno, con mezzi molto più sicuri. Le popolazioni si sono
mescolate fra loro, certo con fenomeni ancora troppo dolorosi di emigrazione, ecc. (ma era migliore
la situazione di un tempo?). Brutte le città, affannoso il viverci; era meglio la dispersione in campagna?
Oggi forse si, quando si hanno soldi per viverci comodamente, con buoni mezzi di collegamento
per arrivare nei centri urbani.
Insomma, non voglio fare l’elenco dei miglioramenti, ma essi non riguardano solo piccole enclaves
ma buona parte della popolazione mondiale, pur se con differenze enormi tra le varie stratificazioni
sociali e i diversi paesi. Comunque, ad esempio, non dimentichiamo che circa la metà della
popolazione cinese vive oggi come da noi un vent’anni fa o poco più (ma anche da noi, appunto, le
differenziazioni tra i diversi strati sociali erano più che sensibili e nette). Mentre invece in URSS,
tra il 1964 e l’89, quando vi fu “semplice” stagnazione (nemmeno vera decrescita), la vita media è
diminuita di 10 anni, negli Ospedali scarseggiavano siringhe e bende, gli strumenti chirurgici e le
apparecchiature diagnostiche, ecc. I livelli di vita erano bassi, la maggior parte del tempo di quasi
tutta la popolazione (salvo esigue minoranze di dominanti privilegiati) andava spesa per procurarsi i
mezzi di sopravvivenza; le possibilità in tema di cultura erano in forte calo.
Il propugnare una decrescita non significa certo il “tornare ai tempi in cui Berta filava”. Questo
è un modo pittoresco e contratto di esprimersi, tanto per sbrigarsi (e ciò talvolta è lecito e incisivo).
Tuttavia, è ovvio, il problema è assai più complesso. Intanto, diciamo che la situazione sarebbe, in
caso di decrescita, relativamente ben peggiore di quella dei “bei tempi andati”. Quando Berta filava
con il suo telaio a mano, la società si trovava in una sorta di equilibrio tra forme (strutture) sociali e
avanzamento tecnologico; la differenza tra i vari gruppi sociali stratificati non era probabilmente
minore di quella di oggi, il servilismo dei dominati e il paternalismo dei dominanti anzi maggiore,
con comunque una certa coesione sociale. Insomma, ci si trovava in condizioni che hanno permesso
i successivi sviluppi, il mutamento delle forme del dominio sociale (e non credo in peggio) e il passaggio
dal telaio a mano a quello meccanico e a più complesse attrezzature ancora; è nettamente
diminuita l’importanza del tessile nel sistema complessivo, dov’è andata crescendo la rilevanza
dell’industria pesante produttrice dei mezzi di produzione e di nuove fonti di energia; le successive
ondate di innovazioni hanno poi via via condotto fino alla civilizzazione moderna fondata sui nuovi
settori d’avanguardia odierni.
Se adesso pensassimo di introdurre meccanismi di de-sviluppo nei nostri paesi, la situazione si
deteriorerebbe rapidamente. Tralascio di considerare quel che accadrebbe nei paesi a nuovo sviluppo
(fra cui i due colossi mondiali Cina e India), e come verrebbe accettata dai loro popoli una simile
proposta. Parliamo pure solo di quelli che oggi sono considerati “opulenti”. La popolazione accetterebbe
e verrebbe convinta a diminuire i suoi standard di vita per favorire, di fatto, lo sviluppo di
“quelli che stanno dietro”? Intanto, spero che nessuno mi venga a raccontare che pensa di trasformare
radicalmente le attuali strutture sociali (o addirittura i vari esemplari del genere Uomo abitanti
nei nostri paesi) nei prossimi 20-30 o anche 50 anni. Se si sostenesse questo, si sarebbe semplicemente
dei pazzi da camicia di forza. Il calo del Pil – che dovrebbe veder immediatamente bloccato
ogni aumento di produttività altrimenti si creerebbe una disoccupazione pazzesca, non certo sanata
dall’impiego in lavori utili volontari o in società di cooperazione senza scopi di lucro (questa grande
bugia dei sinistri odierni) – provocherebbe una carenza di risorse; non solo incapaci di reggere investimenti
netti, ma nemmeno i semplici ammortamenti, anzi nemmeno la semplice manutenzione.
Degraderebbero rapidamente le infrastrutture civili, le reti di comunicazione viaria, i trasporti
merci e passeggeri (per strada e ferrovia), i porti e aeroporti (e navi e aerei), l’acquisizione di energia
(anche per quella “pulita”, che piace agli ecologisti, quella del vento e del Sole, occorrono cospicui
investimenti per non parlare della manutenzione piuttosto costosa). I centri urbani si impoverirebbero,
le periferie prenderebbero la “via di Napoli”; e non si pensi di mandare la gente in campagna
(come in Cambogia?) a fare chissà che cosa (a coltivare orticelli?). Sinceramente, non so
immaginare che cosa si potrebbe fare in una situazione di generale impoverimento e di carenza di
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mezzi per alimentare una vita sociale complessa (anzi complicata) come quella odierna, ma che non
può certo essere semplificata come si potesse tornare a strutture sociali di altri tempi.
Quando Marx scriveva: “Il mulino a vento vi dà la società feudale, quello meccanico la società
capitalistica”, non è necessario interpretarlo nel senso, da me già abbandonato, che lo sviluppo delle
forze produttive (e della tecnologia) strappa la rete dei rapporti sociali esistente e spinge alla creazione
di una nuova, la cui specifica configurazione è proprio quella richiesta dallo sviluppo in questione.
L’affermazione di Marx potrebbe anche voler significare che nuove forme di società si dotano
comunque di nuove strutture di tipo tecnico, di una più complessa strumentazione che diventa
“scheletro e apparato nervoso” di quella data società. Se non ci sono più i mezzi per mantenere in
buona salute né l’uno né l’altro, si creano le condizioni per una sorta di semplificazione e arretramento,
che si realizzerebbero con lo stesso “buon ordine” delle famose “ritirate strategiche” del nostro
esercito sui fronti africano, greco, ecc. La società si scollerebbe, i gruppi sociali diventerebbero
l’un l’altro nemici, la disorganizzazione regnerebbe sovrana, la vita sociale si incattivirebbe e “ognuno
farebbe per sé”. Non sono uno scrittore, e non ho voglia di perdere tempo a descrivere minuziosamente
che cosa accadrebbe in una situazione di regresso (della ricchezza, pur se so bene che
essa, nelle nostre società, è assai maldistribuita tra i vari gruppi sociali); a me sembra del tutto intuitivo
immaginare il disordine e l’insicurezza del vivere sociale che ne seguirebbero.
Voglio piuttosto spendere due parole su un altro “piccolo” problema. Più volte ho ricordato, e su
questo so che Preve è d’accordo, come non sia mai stata in atto la dinamica prevista da Marx in merito
allo sviluppo del modo di produzione capitalistico. Non si è andati, nemmeno tendenzialmente,
verso la formazione di una piramide sociale con al vertice un piccolo gruppo di rentier e alla base
una vasta massa di lavoratori salariati, del braccio e della mente, costituenti un corpo lavorativo collettivo
(e cooperativo); e con in mezzo una serie di gruppi addetti alla fornitura di servizi privati (ad
es. le “professioni liberali”) o pubblici (ad es. quelli dell’amministrazione statale), gruppi mantenuti
dal plusvalore creato dalla base lavorativa e che, al massimo, avrebbero costituito un cuscinetto in
grado di “assorbire” parzialmente lo scontro (di classe) tra quest’ultima e il vertice proprietario (e
finanziario), senza però impedire, alla fin fine, la realizzazione della trasformazione rivoluzionaria
dei rapporti capitalistici.
La dinamica della nostra società ha invece prodotto nel seno di quest’ultima un’accentuata differenziazione
in svariati raggruppamenti sociali (che non sono certo le “classi” in senso marxista), da
immaginarsi come “segmenti”, sul piano orizzontale, e “strati” su quello verticale. Ogni segmento è
diversificato in strati che possiamo schematizzare in alti, medi, bassi; gli strati dello stesso livello,
appartenenti però a segmenti diversi, non sono investiti da processi di omogeneizzazione fra loro,
restano sempre “esteriori” gli uni agli altri, in semplice interazione, con la possibilità di reciproci
conflitti più o meno acuti. Certamente si verificano anche avvicinamenti e cooperazione tra diversi
strati e/o segmenti in periodi di accentuazione dello scontro nei confronti di altri strati e/o segmenti.
Si tratta di un discorso che tengo sul generico, proprio perché una (mancante) nuova teoria dovrebbe
sforzarsi di delineare con nettezza le posizioni a partire dalle quali i “contendenti” potrebbero, in
date congiunture, lanciarsi in un confronto-scontro tanto violento da mirare al sovvertimento
dell’intera organizzazione sociale. Tutte le lotte che sono avvenute, nel corso di più di un secolo,
nell’ambito dei capitalismi avanzati – anche le più dure, e dai comunisti marxisti sempre gioiosamente
accolte come l’inizio del definitivo scontro “di classe” – sono invece sempre state interne alla
riproduzione (spesso “normalmente” conflittuale) della struttura capitalistica dei rapporti sociali.
Ciò che qui mi interessa rilevare è però un altro aspetto della questione. Esclusa, anche tendenzialmente,
l’omogeneizzazione tra i vari segmenti e strati in semplice interazione “esteriore” (per
“contatto”, in un certo senso), la coesione sociale è assicurata dal moltiplicarsi dell’associazionismo
di tipo sportivo e ludico (quello del “tempo libero”), degli apparati “culturali”, quelli della cosiddetta
cultura di massa. Si tratta di fenomeni tutt’altro che positivi, che non hanno certo creato un innalzamento
del “grado di civiltà” delle nostre società? Penso che in effetti sia così, ma se ne deve co11
munque tener conto. Si stanno oggi mettendo in moto processi che si tende invece a considerare positivi
quali il volontariato, l’associarsi per scopi ecologici e animalisti, per “attività no-profit”, ecc.;
su queste ultime ho il massimo dei dubbi, mentre sulla positività del resto si può solo in parte concordare,
dato che contribuisce al forte calo dell’attenzione (e della cultura) della “gente” in merito
alla
politica, cosicché essa è stata ridotta ad una sorta di prolungamento del “tifo” sportivo.In ogni caso, questa è la situazione cui ci troviamo di fronte. E tutti gli associazionismi e le attività
di cui appena detto si mantengono in piedi perché siamo in una società opulenta dove esiste il
cosiddetto superfluo. Mancando l’alimentazione di quella parte del reddito prodotto che può essere
stornata per questi scopi – e lo può essere appunto in condizioni di rapido sviluppo e di crescita del
reddito – ben poco resterebbe in piedi di quel “fervore” (sia pure di basso livello culturale e, ancor
più, politico). Senza soldi non si fa un bel nulla; e la coesione sociale ne verrebbe lesa, tenderebbe a
sfilacciarsi. Senza poi considerare il numero di individui nient’affatto infimo impiegato in quel tipo
di organizzazioni che esercitano le predette funzioni; anche la disoccupazione crescerebbe con ulteriori
effetti negativi e con conflitti “intergruppi” in via di acutizzazione.
No, francamente non penso che le tesi della decrescita siano realistiche; apprezzo le buone intenzioni,
ma non intendo prenderle in considerazione. Resto favorevole allo sviluppo. Il mio favore
si accentua senz’altro ulteriormente quando intervengono pure le motivazioni legate ai problemi geopolitici
inerenti all’attuale fase ancora per l’essenziale monocentrica. Tuttavia lo ripeto: prima e
indipendentemente dalla variabile geopolitica, ritengo indispensabile lo sviluppo e l’accelerazione
del “progresso” scientifico-tecnico (e perciò della ricerca a tal fine orientata, e delle risorse finanziarie
ad essa assegnate). Il problema è semmai di non chiudere gli occhi di fronte alla necessità di
favorire un certo tipo di sviluppo e non un altro, un certo tipo di ricerca scientifico-tecnica e non un
altro. Questo problema certo resta ed è essenziale; ma non si risolve mettendo i lacci allo sviluppo e
alla crescita del prodotto; è esattamente necessario il contrario. La sua soluzione dipende dalle scelte
politiche
; qui sta la difficoltà, i nostri tremendi ritardi. Non bendiamoci gli occhi e non tentiamodi sopperire a questi ultimi propugnando il ritardo o l’inversione della crescita. E’ come se, per risolvere
eventuali problemi di eccesso di natalità, decidessimo di andare alla radice del problema…..
recidendo i “piselli” o con “opportune” operazioni chirurgiche sull’organo femminile.
In ogni caso, rispetto le buone intenzioni di certuni, sempre però ricordando che di queste ultime
“è lastricata la via che porta all’Inferno”. Per quanto mi riguarda, scelgo al presente la crescita e il
“progresso” tecnico-scientifico (sia pure con il ben noto
grano salis) e, detto con molta franchezza,non intendo d’ora in poi leggere né scrivere un rigo in più su quelle “buone intenzioni”.
Pochissime righe sulla questione dell’antiamericanismo. Il mio, lo ribadisco, non è di principio,
è semplicemente legato all’attuale epoca ancora fondamentalmente monocentrica. Inoltre, se con
una pistola alla tempia mi dicessero di scegliere, per la mia residenza, tra USA e Iran, tra USA e
Cina, tra USA e Russia, in tutti e tre i casi opterei per il primo paese. Naturalmente, sono convinto
che ci vivrei malissimo e ne soffrirei molto; ma credo proprio che negli altri paesi starei ancora
peggio.
E veniamo al tema della terza forza. Anche in tal caso non sarò troppo lungo perché credo di aver
già ampiamente discusso e risposto nei miei due scritti sull’argomento.
Intanto, mi pare ovvio che si tratta di una finzione teorica. Non vedo attualmente possibilità di
costruirla nei prossimi anni; e, quando superiamo i 10, mi sembra assurdo tentare di fare previsioni
in merito a simile possibilità. La finzione teorica consente però di indicare alcuni problemi di fondo.
In un mio scritto nel blog ho detto apertamente che destra e sinistra europee (e quelle italiane sono
le peggiori) sono “storicamente finite”, pur se continueranno a produrre effetti alla guisa degli zombies
(i “morti viventi”). L’Europa, e ancor più l’Italia, sono in una situazione che ho spesso definita
– ma solo come analogia di larghissima massima – “Repubblica di Weimar”. Dominio incontrastato
delle grandi conc