Le parole di Prodi su quel che potrebbe accadere anche da noi - «L’Italia ha le peggiori periferie d’Europa. Non crediamo di essere diversi da Parigi. È solo questione di tempo» - hanno suscitato dissennate reazioni nel centrodestra. Si è sentito di tutto, tra l’orgoglio ferito, la coda di paglia, l’odio, l’insulto: «Intellettualmente disonesto»; «provocatore di disordini»; «irresponsabile»; «fuori i nomi di qualcuno che possa organizzare iniziative violente»; «profeta di sventure».
Si è distinto il presidente del Senato: «Bisogna evitare di portare in campagna elettorale temi così allarmistici. Preferirei maggiore prudenza e responsabilità». La seconda carica dello Stato. Sempre attento, Pera, ai doveri e ai linguaggi istituzionali. (In una prolusione tenuta a New York il 23 settembre si è espresso così: «Coloro che rifiutano la nostra cultura e i nostri valori sono i nuovi cannibali. Bisogna difendersi da questi cannibali con tutti gli strumenti, anche con la forza»).
Vivono in un castello incantato, non conoscono o fingono di non conoscere quel che si muove fuori dalle mura. La realtà è nemica, i libri lo sono ancora di più. Non si pretende che abbiano letto Albert Camus: «Quando la povertà va unita con quella vita senza cielo e senza speranza che giunto in età virile ho scoperto negli orribili sobborghi delle nostre città, allora viene consumata l’ultima e la più rivoltante delle ingiustizie: bisogna far di tutto perché questi uomini scampino alla duplice umiliazione della miseria e della bruttezza. Nato povero, in un quartiere operaio, però io non sapevo che cosa fosse la vera sventura prima di conoscere le nostre fredde periferie. Nemmeno l’estrema miseria araba è paragonabile, sotto cieli diversi. Ma una volta conosciuti i sobborghi industriali, ci si sente, credo, insozzati per sempre e responsabili della loro esistenza».
Siamo negli anni Quaranta del Novecento, figuriamoci se pensiamo a quel che è successo dopo, la ricostruzione incontrollata, la grande trasformazione, la nascita di mostruosi agglomerati a ridosso delle città, lo spopolamento delle campagne, l’esplosione dell’industria e poi la fine dell’industria o meglio il suo ridimensionamento, l’immigrazione. Si sa, la periferia, così com’è stata ed è intesa dal grande capitale, produce degrado e il degrado produce violenza. Se quanti insultano Prodi avessero letto almeno, nel 1955, quando uscì o nei decenni successivi, Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, avessero letto, nel 1960 o dopo, Milano, Corea, di Franco Alasia e Danilo Montaldi e L’immigrazione meridionale a Torino, di Goffredo Fofi, del 1964, sarebbero meno ignoranti e meno arroganti, con qualche sospetto in più, visto che in quei libri e in altri venuti in seguito c’erano tutti i segni di quel che poi sarebbe accaduto.
Prodi ha fatto uso di ragione, ha messo in guardia, non certo compiaciuto di quanto succede e potrà succedere. Nella crisi delle banlieues quel che piace alla destra italiana è la proclamazione dello stato d’emergenza come ai tempi della guerra d’Algeria rispolverando una legge del 1955. Il coprifuoco, la repressione, lo scontro. «Una scelta che dimostra come Dominique de Villepin non ha ancora il nerbo di un uomo di Stato», ha scritto nel suo editoriale dell’altro giorno Jean-Marie Colombani, il direttore di Le Monde.
La Francia non è l’Italia. Le dimensioni delle periferie d’Oltralpe sono differenti, mancano qui da noi quegli enormi falansteri popolati dalla medesima etnia. Spesso, però, le periferie francesi sembrano meno degradate delle nostre. Che hanno palazzoni già scrostati appena nascono, costruiti con materiali scadenti, in luoghi privi di servizi, di trasporti adeguati, di possibilità di socializzazione e del verde, nemico perché toglie denaro agli immobiliaristi. Dove i bambini crescono tristi. Sono saltati i ponti tra cittadini e istituzioni. La sede sindacale, la sezione di partito, spesso anche l’oratorio parrocchiale non ci sono più dopo che le fabbriche sono diventate lande desolate, preda della speculazione edilizia. I bilocali e i trilocali di quei casermoni, identici l’uno all’altro, sono stati venduti alle famiglie operaie che faticano ora a pagare il mutuo della banca e ad arrivare, con quel che guadagnano - la pensione, i lavoretti - alla fine del mese. I vecchi non credono più in nulla, i giovani non hanno mai creduto in nulla.
La condizione umana, nelle grandi periferie, è precaria e non sembra preoccupare i governanti. Le forme di lavoro privo di ogni certezza, la flessibilità senza regole, la rinascita, in ogni ambito, del caporalato, i subappalti, soprattutto nell’edilizia, incontrollati, la legge Bossi-Fini che non risolve i problemi dell’immigrazione, la presenza non marginale delle mafie nel Nord Italia, creano tensioni sotto la cenere della passività. La Lega ne approfitta per soffiare sul fuoco, anche dopo le parole di Prodi, contro i migranti, il più delle volte indispensabili alla produzione. La legge finanziaria, che toglie risorse ai Comuni, è responsabile di una situazione sociale che potrebbe esplodere. Due esempi metropolitani. A Torino - la fonte è il gruppo Abele di don Ciotti - vivono 50mila invisibili. Dormono nelle baracche, sotto i ponti, in 20 in una stanza, entrano ed escono dal sistema dell’edilizia, le Olimpiadi, le autostrade, l’alta velocità, un subappalto dopo l’altro, tra la Falchera e le Vallette. Chi sono? Vengono soprattutto dall’Europa dell’Est e dal Nord Africa, appartengono a tutte le etnie. In febbraio-marzo, dopo le Olimpiadi, saranno senza lavoro e la disoccupazione potrà renderli più fragili di fronte agli allettamenti della criminalità.
A Milano si conoscono da quasi vent’anni le aree a rischio dove si sono insediati boss della ‘ndrangheta che vivono in ville-fortilizi e danno lavoro sporco e pulito ai picciotti arrivati al Nord dopo la disgraziata legge sul soggiorno obbligato. I luoghi del disordine sono Trezzano sul Naviglio, Pieve Emanuele, Buccinasco, Rozzano, certe zone di Niguarda e della Barona, il quartiere Stadera dove, fino a poco tempo fa, la polizia non si faceva vedere.Un’inchiesta del 1991 del Comune di Milano e un’altra inchiesta di «Società civile» dello stesso periodo rivelarono la pericolosità della situazione, ma i rimedi furono insufficienti.
Non è soltanto la delinquenza organizzata la protagonista degli squilibri. Anche qui dominano il lavoro precario, l’insicurezza, la paura di non farcela, i problemi di convivenza tra le fasce deboli della popolazione e gli immigrati, i disastri provocati dal diffuso mercato della droga. La fatica di tirare avanti. Risulta da uno studio condotto da Francesca Zajczyk e da altri sociologi urbani che una quota oscillante tra il 13 e il 14 per cento della popolazione residente a Milano, corrispondente a circa 160-180mila abitanti, si trova in una condizione di povertà oggettiva o, comunque, di medio/grave disagio sociale. L’orgoglio e l’identità operaia facevano una volta da mastice contro il degrado, la vulnerabilità, il senso di insicurezza. La fabbrica era una centrale di cultura. Adesso? Si capisce che c’è da essere preoccupati. Dalla rassegnazione si può passare infatti alla rivolta contro tutto e contro tutti quando è stata varcata quella frontiera dell’invivibilità che ogni comunità si pone.
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