“In linea con la sua propensione alle situazioni estreme, mentre l'Europa Occidentale si trova di fronte a un problema demografico, la Russia si trova di fronte a una catastrofe. La sua popolazione è diminuita di circa 3 milioni e mezzo dal momento della frantumazione dell'Unione Sovietica. Riduzioni di queste proporzioni dipendono di regola da emigrazioni di massa o da eventi bellici, ma la Russia è stata [nel periodo in questione] largamente in pace ed è un importatore netto di individui. La causa è cruda: dalla fine del comunismo i decessi sono stati circa dieci milioni di più delle nascite”.
Così scriveva l'Economist all'inizio dell'ottobre 2004. E poiché all'Economist si può fare l'osservazione affettuosa opposta, cioè la tendenza all'understatement, il quadro va preso sul serio. Ed è crudo davvero.
L'analisi del dato è complessa. Un problema di povertà, di cattiva nutrizione, di elevato alcoolismo? Probabilmente tutte questo cose insieme. Un problema di micidiale diffusione della droga, della crescita esponenziale dei malati di Aids, della ricomparsa su larga scala della tubercolosi? Sicuramente tutte queste cose insieme. Ma questo mix desolante, a sua volta, è irrorato da una miscela corrosiva di disorientamento, di choc collettivo non ancora superato per la perdita d'identità e di standard di vita che ha colpito decine di milioni di russi.
Il risultato è devastante: l'aspettativa media di vita per un maschio russo è oggi molto al di sotto di quanto non fosse 40 anni orsono. Meno della metà dei ragazzi russi che oggi hanno 16 anni raggiungerà i 60 anni di vita.
Parto da questi dati della realtà, non aggirabili, per evitare di cadere nelle dispute, astratte e inconcludenti (quando non puramente ideologiche), sul tema se “si stava meglio quando si stava peggio”, o viceversa. Oppure su quell'altra osservazione, assai comune tra coloro che visitano Mosca e scambiano Mosca per la Russia intera, secondo cui “c'è tutto nei negozi”, oppure “Mosca è ormai identica a una qualunque città europea”. E' evidente infatti che – esattamente come ai tempi del marchese De Custine – Mosca non è la Russia. E misurare il paese in base a ciò che si vede sugli scaffali dei negozi (per giunta di Mosca) è il miglior modo per non capire nulla di ciò che vi sta accadendo.
Questa rivista dedicò al dramma della Russia un numero speciale, ……….. sulla copertina del quale campegggiava la scritta: “La Russia in pezzi”. Era un giudizio esatto e sarà dunque utile ripartire da quella rassegna di materiali e riflessioni per rifare il punto, a …….. tot anni di distanza.
Per quanto concerne l'economia, il primo dato su cui basare la riflessione è il prezzo del petrolio. Vladimir Putin, dal momento della sua ascesa al potere al momento in cui scriviamo, ha avuto dalla sua parte, invariabilmente, la congiuntura petrolifera. Il petrolio “alto” lo ha accompagnato e lo accompagna come dato costante. E tutte le previsioni più attendibili dicono che una inversione di tendenza del prezzo del barile, e di quello del gas, come pure di tutte le materie prime, non appare probabile.
Tuttavia gli enormi afflussi di capitali sull'industria energetica russa non si sono tradotti né in modificazioni strutturali e giudiche del “sistema russo”, né in un miglioramento della vita delle grandi masse popolari. Qui emerge, con tutta evidenza, un limite del presidente russo e della sua squadra. In entrambe i casi l'assenza di risultati denuncia l'assenza di una visione strategica sulla rinascita della Russia. Ma il giudizio concerne tutta l'élite russa attuale, come dimostra il protrarsi, praticamente invariato rispetto alla fase eltsiniana, della esportazione illegale dei capitali. Al ritmo di un miliardo e mezzo di dollari al mese, mediamente, la ricchezza petrolifera russa è emigrata esentasse nelle banche occidentali, producendo tra le altre cose rilevanti distorsioni nei prezzi dei mercati immobiliari di diversi paesi europei e perfino degli Stati Uniti. Vladimir Putin non ha del resto intrapreso alcuna reale riforma dell'economia russa. I due capi di governo e i ministri delle finanze che si sono succeduti sotto la sua presidenza hanno proseguito nella gestione degli affari correnti senza modificare nulla delle strutture economiche. L'unica novità di rilievo è stata l'introduzione dell'aliquota unica per la tassazione, al modico livello del …….., che nelle intenzioni avrebbe dovuto incentivare il numero delle dichiarazioni dei redditi delle famiglie e delle imprese. Il dato statistico dei risultati non è disponibile, ma – secondo fonti qualificate del ministero delle Finanze – non appare esaltante. Il fatto, ad esempio, che la Jukos sia stata posta sotto inchiesta penale per frode tributaria per cifre che si collocano intorno ai 3 miliardi di dollari l'anno, dice che il potere centrale non è in condizioni (o non ha voluto fino ad ora) far pagare agli oligarchi le imposte sui redditi e sui profitti. E, quando ha deciso di imporsi, lo ha fatto spinto da motivazioni di lotta di potere, impiegando le guardie armate in assetto di combattimento, muovendo la magistratura come una pedina di scacchi, non per imporre la legge.
Tutti segnali di una anomalia profonda. Lo stato russo è, prima di tutto, paralizzato da una corruzione generalizzata, che permea tutti i canali di funzionamento, rendendo costose e mai automatiche tutte le procedure. Al centro come in periferia l'intrapresa economica è bloccata dalle tangenti che devono essere pagate ad ogni piè sospinto. Le banche, nemmeno quelle di stato, prestano denaro al piccolo e medio imprenditore. Semplicemente non esiste una politica di sostegno pubblico alla piccola e media industria, all'iniziativa privata. Questa dunque si sviluppa poco e con grande fatica e deve restare sommersa per non subire il taglieggiamento dei criminali e quello – parallelo e non meno avido – delle burocrazie. Per cui, chi rischia, in una giungla dove perfino il diritto proprietario è sempre rimettibile in discussione, rischia al buio.
Tutti i diritti sono, per così dire, appesi a un filo: quello dell'arbitrio del funzionario di turno. L'unico diritto che Putin non ha rimesso in discussione è stato quello delle privatizzazioni selvagge dell'era Eltsin-Gaidar-Ciubais. Per meglio dire: le privatizzazioni sono rimaste intatte nella loro generalità, salvo alcune. Ribadendo così la più totale “incertezza del diritto”. Le ricchezze acquisite in modo truffaldino, ai danni del popolo russo dei vouchers , rimangono nelle mani dei truffatori, salvo quelle degli oligarchi “nemici” del presidente. O ex amici, com'è il caso di Vladimir Gusinskij (ex proprietario costretto all'esilio del canale privato NTV), e di Boris Berezovskij (ex azionista di maggioranza della ex televisione pubblica di stato ORT, anche lui costretto all'esilio e inseguito da mandato di cattura). Il terzo oligarca “ribelle” ha avuto la sorte peggiore: si trova in prigione. Mikhail Kodorkhovskij, miliardario proprietario della Jukos e di un'intero sistema di holdings, è stato costretto ad arrendersi e la sua sorte pende come un monito sulla testa degli altri oligarchi. Anche per loro la certezza del diritto è sospesa. Per meglio dire: è condizionale. Se resteranno tranquilli non succederà nulla, finchè gli appetiti della nuova classe non si rivolgeranno anche a loro.
Secondo il censimento generale portato a termine nel 2002, il numero degl'imprenditori indipendenti, a undici anni dalla fine ufficiale dell'economia socialista, non superava i due milioni. Una cifra molto probabilmente assai inferiore alla realtà (perché è assai probabile che solo una piccolissima parte di coloro che si sono “messi in proprio” abbiano rischiato di rendere nota la loro situazione), ma comunque eloquente: una classe media nazionale, determinata a produrre qualche cosa e a trarne guadagno, non si è formata. E, in queste condizioni, non poteva formarsi.
Esiste una classe media “anomala”, variamente composita, in cui confluisce in primo luogo la classe politica (periferica e centrale), con il codazzo dei portaborse e di coloro che fruiscono del suo fallout economico, in gran parte costruito su tangenti e privilegi. Ovviamente nulla di questa massa di redditi emerge in superficie, non è dunque né visibile, né tassabile. Altrettanto ovviamente si può dire che è un settore parassitario, che non produce e non produrrà mai né beni né servizi, ma produce, appunto, corruzione, cioè malessere sociale.
Altra componente fondamentale di questo ceto medio “anomalo” è rappresentata da quelle che da noi sono considerate libere professioni, cioè medici, avvocati, notai ecc. Con il crollo verticale del sistema sanitario pubblico (una delle concause della elevatissima mortalità), i medici sono diventati classe media benestante. I loro servizi, inclusi quelli delle strutture pubbliche, sono tutti a pagamento (ad alto pagamento). E poiché la gente vuole vivere, i soldi da qualche parte, in estremis li trova. Un mercato assai ampio di ceto medio anomalo nutre le classe del ceto medio anomalo. Gli altri muoiono prima. Avvocati (pressochè inesistenti nella società sovietica) e notai (idem) sono tra i meglio pagati e i meglio piazzati nella scala sociale di questo ceto medio russo. L'introduzione della proprietà privata (specie di quella della casa) ha prodotto un immenso seguito di procedure legali, di litigiosità legale, di caccia al tesoro ai danni dei poveri, dei pensionati rimasti in gran parte sul limitare della più acuta indigenza. I più forti prendono e, immediatamente dopo, legalizzano.
Terza componente del ceto medio anomalo russo è rappresentata dalla criminalità. Esauritasi la fase della spartizione violenta – su dimensioni gigantesche – delle spoglie dello stato russo e sovietico, rimane una sterminata prateria per le illegalità di piccolo e medio calibro. Battaglioni criminali agiscono in tutte le direzioni, s'impossessano dei mercati, esercitano taglieggiamenti, si alleano con le mafie delle amministrazioni locali e ne costituiscono il braccio armato. E' una mafia diffusa che permea praticamente tutte le attività sul territorio, fino al punto che nemmeno gli orti privati nelle periferie delle città, quelli che ai tempi sovietici permettevano alle famiglie di approvvigionarsi di frutta e verdure senza andare al mercato, sono ora oggetto delle attenzioni del racket.
La Borsa di Mosca si muove da due anni a ritmi analoghi a quelli delle grandi tigri asiatiche. Il Pil cresce ai ritmi del 6-7% medio annuo. Ma la statistica non nasconde il fatto che il 60% della crescita è di nuovo legato ai prezzi del petrolio e che un pugno di compagnie petrolifere decidono le sorti delle statistiche e della borsa. Come ai tempi sovietici è il petrolio a dominare l'economia. E l'alcol. Centinaia di nuove marche di birra e di prodotti alcolici hanno invaso il mercato del consumo. La crescita del settore industriale della trasformazione alimentare è stata determinata, per oltre il 50 %, dalla produzione alcolica. La pubblicità è anch'essa in parte cospicua debitrice alla produzione alcolica.
Ai tempi sovietici Gorbaciov parlò di “bilancio ubriaco”. Non si è fatta molta strada da allora. Ma anche sotto un altro profilo è cambiato poco o niente: come ai tempi sovietici è la politica a dettare legge. L'economia è la sua ancella.
Non è cambiato niente, dunque? La Russia continua a andare in pezzi? Se il quadro ha questi colori non c'è da stare allegri. Ma almeno su un punto Vladimir Putin è riuscito a frenare i processi disgregativi che aveva ereditato dalla gestione di Boris Eltsin. Lo ha fatto nell'unico modo realisticamente a sua disposizione, cioè imponendo con l'imperio una idea centralistica dello stato sulle burocrazie ultracorrotte, ormai adagiate nell'illusione di sovranità molteplici, diffuse e impunite. E' stato il primo segnale netto della sua gestione. Il primo passo fu un secco ridimensionamento del Consiglio della Federazione, cioè la camera alta del parlamento russo, trasformato in assemblea di notabili locali, ancora eletti a suffragio universale, ma ormai privati di ogni potere reale di controllo sul governo.
Il secondo passo – meno importante del primo ai fini pratici, ma assai rilevante simbolicamente – fu la costruzione di una “verticale del potere presidenziale” con la nomina di sette governatori territoriali completamente dipendenti dal Cremlino, imposti sopra le regioni e le repubbliche, con potere generale di supervisione. Unico difetto: i sette supergovernatori altro non erano che uomini di Eltsin. Ma Vladimir Putin, in quel momento non aveva altre scelte a disposizione. Non tutto di quella fase può essergli imputato, poiché non era solo farina del suo sacco. Era il frutto di un faticoso compromesso con la Famiglia del predecessore. A conferma Putin fu costretto ad appoggiarsi al partito Edinstvo (Unità), summa dei signori feudali e dei funzionari dell'oligarchia. Ricostruire l'unità russa su quelle basi risultò impossibile, ma Putin guadagnò comunque tempo e forze.
In tutta quella prima fase, dall'estate del 1999 fino alla fine del 2003, Vladimir Putin fu più oggetto che soggetto. Egli non è persona che arretra di fronte a nulla, nemmeno di fronte alla guerra. Egli ha condiviso tutte le mosse dei suoi mentori, di coloro che lo portarono al potere, anche quelle più sanguinose come la seconda guerra di Cecenia. Egli ha anzi assecondato ognuna di quelle mosse, le ha sottoscritte, vi ha contribuito. Ma non fu lui a scegliersi, fu scelto. Questo spiega perché mantenne i patti con i suoi grandi elettori. Per quattro anni.
I patti erano sostanzialmente tre: non modificare gli assetti del potere all'interno dell'élite vincitrice; tenere al riparo la Famiglia da ogni futura conseguenza giudiziaria per le sue malefatte e da ogni vendetta; non toccare in alcun modo gl'interessi finanziari degli oligarchi, né rimettere in discussione le privatizzazioni gangsteristiche della prima ora post-sovietica.
Questa situazione si è protratta fino alla fine del 2003, quando Putin decise di non avere più bisogno di suggeritori e mise in pratica – magari senza averlo mai letto – un fondamentale insegnamento di Machiavelli. Quella “regola generale, la quale mai o raro falla: che chi è cagione che uno diventi potente, ruina; perché quella potenzia è causata da colui o con industria o con forza, e l'una e l'altra di queste due è sospetta a chi è divenuto potente” (“Il Principe”, Cap.II: De' principati misti).
Da quel momento l'offensiva interna di Putin è stata durissima. Khodorkovskij, che cominciava a porre le basi della propria ascesa politica, fu arrestato mentre muoveva i primi passi, di fatto espropriato, messo fuori gioco. Il segnale fu colto e impaurì. Molti temettero, con ragione, che tutti i patti sarebbero stati rotti in breve tempo. Ci fu chi reagì. Aleksandr Voloshin, capo dell'Amministrazione presidenziale con Eltsin e poi con Putin, fu costretto ad accettare una dimissione anticipata ed è stato parcheggiato, come presidente della RAO-EES (il monopolio elettrico russo), nelle vicinanze dell'altro oligarca di stato Anatolij Ciubais. Trascorsero pochi mesi è anche l'altro testimone della ascesa di Putin, il premier Mikhail Kasianov, veniva costretto alla resa e alle dimissioni.
Ma Putin è uomo pur sempre prudente. Non tutti i patti sono stati rotti. Per esempio Boris Eltsin e i suoi famigli sono stati lasciati in pace. Probabilmente a patto che non disturbino in alcun modo il manovratore. E le privatizzazioni, come è stato già detto, non sono state (e probabilmente non lo saranno) toccate. Gli oligarchi obbedienti hanno avuto il tempo di proclamarsi fedeli al capo e non sono stati sfiorati.
Giulietto Chiesa è tra gli autori dell'antologia Tutto in vendita – Ogni cosa ha un prezzo. Anche noi.
Fonte: GiuliettoChiesa.it |