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Un quadro internazionale non piacevole

di Gianfranco La Grassa - 29/12/2006

 

Come un giocatore a poker in difficoltà, avendo assommato perdite di una certa entità, rilancia con una posta più alta, così gli USA stanno accentuando ulteriormente il lato aggressivo della loro politica con manovre certamente assai pericolose. C’è stato l’improvviso incontro tra Olmert e Abu Mazen; dal TG1 al “Giornale”, quasi tutti hanno visto dietro l’incontro pressioni americane con un ben preciso piano “in testa”. Si è spinto il leader moderato palestinese sulla via di un più veloce tradimento del suo popolo, sperando nella stanchezza di quest’ultimo di fronte ad una guerra lunga, e che non vede via di uscita – non solo onorevole, ma proprio politica a meno che non si voglia semplicemente rinunciare a chiedere il ritiro israeliano dai territori occupati – se non nella sua prosecuzione a tempo indeterminato, che costa ovviamente molto in termini di vite umane, e non solo. Si è stabilito chiaramente un patto di ferro tra Israele e moderati palestinesi smascherando, oltre ogni possibile dubbio, il fatto che Abu Mazen non è null’altro che un possibile Quisling.

Per facilitargli i compiti, si è promessa la liberazione di un certo numero di prigionieri palestinesi in cambio di quella del soldato israeliano ancora detenuto. Si è promesso di sbloccare i fondi che erano di pertinenza del Governo palestinese in quanto gettito di imposte; certamente tali fondi non andranno a chi ne avrebbe diritto perché sia gli USA che Israele proibiscono un qualsiasi finanziamento ad Hamas. Si è infine deciso di appoggiare fino in fondo la mossa del “traditore” tesa a convocare elezioni anticipate, promettendo fiumi di finanziamenti a tal fine, nonché per rafforzare le milizie dei “moderati”. Questa pressione su Abu Mazen, affinché acceleri i tempi delle sue manovre da “venduto”, è pericolosa, ma è appunto la mossa del giocatore di poker in difficoltà.

Nel contempo, l’ONU, con la complicità dell’intera Europa (nemmeno i francesi si sono distinti in simile frangente), ha approvato le sanzioni contro l’Iran. La Russia è riuscita ad annacquare un po’ la mozione votata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza – ed infatti, immediatamente, USA e Israele hanno dichiarato che si tratta solo di un primo passo poiché occorrono “misure più persuasive” – ma ha comunque dovuto “abbozzare”, e così pure la Cina; la qual cosa dimostra l’ancor notevole debolezza di questi “imperialismi” nascenti e per il momento, come ho già scritto sul blog, del tutto “adolescenti”. Tali paesi debbono stare ben attenti perché la fase di passaggio che stanno attraversando è molto delicata e incerta (e la decisione di approvare le sanzioni contro l’Iran ne è una dimostrazione). Si è scatenata in questi giorni l’offensiva etiope, sostenuta chiaramente dagli USA, contro le “Corti islamiche” in Somalia, che sembra aver ottenuto successo (non sono in grado di fare previsioni per il futuro; i tempi non saranno brevi, comunque vadano le cose, malgrado al momento le forze islamiche siano in precipitosa ritirata). Infine, anche la decisione di procedere all’esecuzione di Saddam (che non favorirà comunque l’azione statunitense in Irak) è un ulteriore segnale nella stessa direzione, quella del “gioco al rialzo”.

 

Un certo numero di persone (e di forze politiche) si è illuso che fin da subito l’amministrazione americana iniziasse a ripensare le sue scelte, dato che gli stessi generali del Pentagono mostrano contrarietà alla richiesta di Bush relativa all’invio di altri 120-130.000 soldati nel teatro di guerra iracheno. E’ in realtà molto probabile che gli ambienti militari rifiutino una strategia basata sulla concentrazione dello sforzo bellico in Irak, dove l’azione americana è compromessa; non tanto perché si possa pensare alla prossima vittoria delle forze contrarie all’occupazione quanto per la comunque evidente ingovernabilità del paese. Se si deve proseguire nella strategia di “attacco”, perseguita nell’ultimo quindicennio dagli USA (sia sotto l’amministrazione repubblicana che sotto quella democratica), bisogna allargare il terreno dello scontro, tenuto conto che anche in Afghanistan (con precisi riflessi e propaggini in Pakistan) gli equilibri non appaiono per nulla favorevoli agli interessi “occidentali” (leggi statunitensi, data l’ormai impressionante debolezza dell’Europa, sempre più succube dell’Alleanza Atlantica); ed infatti l’aggressione americana (e israeliana), condotta non soltanto sul piano militare ma anche tramite varie iniziative di forte pressione, viene ormai allargata alla Palestina, all’Iran e alla Siria, al Libano, ecc.

Malgrado certi successi momentanei (non so se reali o più che altro “di facciata”), resto convinto che questa “mossa da poker” non si risolverà in senso troppo favorevole agli Stati Uniti (e a Israele), che dovranno sostenere costi abbastanza pesanti già nel breve periodo e andranno incontro a probabili insuccessi nel medio. Credo che sia iniziato, e si accentuerà, un periodo di revisione della strategia statunitense, che comunque – sia chiaro – sarà sempre caratterizzata da una costante vocazione egemonica o comunque dalla volontà, se non proprio di dominare globalmente (ciò si sta rivelando impossibile), di restare quanto meno la principale potenza economica e militare per molti decenni a venire. Questa, almeno, è l’intenzione; quanto alla sua realizzazione, si vedrà in futuro, però nel lungo periodo. In ogni caso, l’attuale accentuazione della politica imperialistica degli Stati Uniti (con al seguito Israele) provocherà gravi tensioni nei prossimi anni e si rivelerà assai pericolosa per tutti.

 

Di fronte a questa politica di arroganza e prepotenza – non fine a se stessa ovviamente, ma guidata da precisi interessi economici e geopolitici – l’Europa brilla per il suo servilismo sostanziale, per l’incapacità di salvaguardare gli interessi delle sue popolazioni; sono prevalentemente le grandi concentrazioni finanziarie – in varia guisa intrecciate con quelle americane – e le grandi imprese industriali prive di vera strategia competitiva ad avvantaggiarsi di questa passiva dipendenza. Al momento non si nota alcuna reale capacità di realizzare politiche che siano di aiuto all’avanzamento del cosiddetto sistema-paese; nemmeno restando sul terreno del più tradizionale sviluppo capitalistico, quello della società che ho genericamente denominata “formazione sociale dei funzionari del capitale”. L’Italia è il paese più segnato dalle tipiche caratteristiche della subordinazione europea agli Stati Uniti; è il paese in cui la GFeID (grande finanza e industria decotta) agisce in più scoperta combutta con i centri del potere finanziario-politico del paese predominante, a totale detrimento degli interessi della popolazione (in particolare dell’intero corpo lavorativo, sia “autonomo” che dipendente).

La destra è scoperta (e rozza) nel suo incondizionato appoggio alle peggiori, e più aggressive, mosse dei centri di potere americo-israeliani. Tuttavia, il centrosinistra – con tutte le varie sfumature consentite dalla commedia inscenata dalle sue correnti “moderate” e “radicali” –  manovra in piena consonanza con l’imperialismo (egemonismo) americano, solo sperando che prevalgano alla fine le correnti in qualche modo meno violente, quelle che sappiano impiegare le “giuste” dosi di “bastone e carota”. E’ del tutto sintomatico che il Ministro degli Esteri (già Premier del Governo di aggressione alla Jugoslavia al seguito degli USA nel periodo di presidenza democratica), dopo aver venduto fumo con dichiarazioni di blanda (e arzigogolata) critica ad Israele, appoggi pienamente la politica del rinnegato Abu Mazen; e non abbia avuto nulla da ridire sui contenuti della mozione che gli USA volevano approvata dall’ONU contro l’Iran (lo ripeto: solo le manovre russe hanno avuto l’effetto di edulcorarla in qualche misura). Anche in politica estera, insomma, si svolge l’indecoroso e lurido gioco delle parti: tra destra e sinistra e, all’interno di quest’ultima, tra “riformisti” ed “estremisti”. Una autentica, e senza dubbio variopinta, massa di mentitori e mestatori; da una parte i forsennati fan americo-sionisti, dall’altra gli ipocriti e i giocatori delle “tre carte”, che cercano di rappresentare tutto e il contrario di tutto, in ciò favoriti dai tatticismi (a volte da mascherate connivenze) dei pacifisti, dei movimentisti (e “no-globalisti”), delle varie “anime belle” del multiculturalismo e della solidarietà tra “diversi”, ecc.

Un’autentica catastrofe politica, che ha ormai consegnato la “sinistra” o all’appoggio sostanziale delle grandi concentrazioni di potere americane o all’inutile predicazione di una “non violenta” opposizione alla politica di queste ultime. Risalire la china richiederà ormai chissà quanto tempo, dopo la devastazione compiuta da costoro al fine di opporsi alla nascita di un qualsiasi embrione di resistenza antimperialista, che si sforzi di analizzare in modo adeguato la situazione esistente.

 

Bisogna cercare di essere sufficientemente lucidi e non semplicemente “generosi” e pieni di “buoni intenti” anticapitalistici e antimperialisti (antiegemonici). Oggi come oggi, l’unica speranza di riuscire a indebolire la politica statunitense di potenza predominante – con ciò mettendo in crisi, alla lunga, i suoi zelanti complici; sia quelli più aperti (destra) che quelli più contorti e ingannatori (sinistra) – risiede nel potenziamento di paesi come Russia e Cina. Certamente va considerato positivo il fondamentalismo islamico poiché si pone in netto contrasto con USA e Israele; e così pure vanno appoggiati i movimenti sudamericani che si battono per una più netta indipendenza dal potente vicino. Ritengo però che da soli, né i movimenti esistenti nel mondo arabo né quelli in crescita nel Sud America saranno in grado di conquistare un decisivo successo. Tra l’emergere delle nuove potenze ad est e i suddetti movimenti antistatunitensi non sussiste certo un rapporto di causa ed effetto; tuttavia i due processi sono fra loro intrecciati ed in oggettiva solidarietà. L’importante è afferrare quale fra i due può rivelarsi, nel medio periodo (grosso modo intorno ai vent’anni), il principale fattore della riduzione della sfera egemonica statunitense e del conseguente acutizzarsi delle contraddizioni interdominanti.

Non dobbiamo nutrire illusioni. Russia e Cina sono nuove potenze in avanzata; la loro politica è quella di tutti gli imperialismi nascenti e in fase di rafforzamento, ma tra contraddizioni assai gravi che rendono ancora incerta e non definitiva (non irreversibile) la loro affermazione. Il loro comportamento, in sede geopolitica, è dunque molto contorto e pieno di compromessi con l’avversario che è ancora più forte di loro (come ho sostenuto più volte, non siamo per il momento in un’epoca policentrica). Si tratta di paesi che, per l’essenziale, possono essere considerati in pieno sviluppo capitalistico, pur se con caratteristiche – di accentramento statale, di non completo cedimento all’ideologia neoliberista – differenti da quelle della “formazione sociale dei funzionari del capitale” (la tipica società nata dalla preminenza USA nel campo capitalistico).

Per quanto le forme siano diverse – la “storia non si ripete mai” nelle sue manifestazioni empiriche – si sta creando progressivamente una situazione mondiale che presenterà infine vaghe somiglianze con quella a cavallo tra otto e novecento (l’epoca “classica” dell’imperialismo). Nei paesi a capitalismo più avanzato, il sedicente “movimento operaio” – egemonizzato dai socialdemocratici – fece un colossale flop dando vita al più bieco opportunismo. Piccoli gruppi di comunisti (tipo i bolscevichi) si affermarono nei paesi a struttura capitalistica estremamente debole e quasi embrionale, e continuarono per tutto il novecento a “fare rivoluzioni” e a “vincere” nelle aree a stragrande maggioranza contadine e di tipo pre(o proto)capitalistico. La Storia mi sembra aver decretato con chiarezza la sconfitta di simili “rivoluzioni” che non sono per nulla state comuniste ma, nel migliore dei casi, hanno aperto la strada allo sviluppo, a volte impetuoso (come appunto in Cina), di società “di classe”, con ristretti gruppi di dominanti ed enormi masse di dominati (e quanto dominati!). Vogliamo ripetere la stessa storia? Errare è umano….con quel che segue.

In un certo senso (ma si intenda questo cum grano salis) si deve tornare a Marx: quello delle sue massime opere, non quello delle lettere a Vera Zasulič, per favore! Se il comunismo è possibile, se si deve tentare di incamminarsi lungo quella strada, lo si deve fare dove esso non andrà mai confuso con il generico populismo, con l’appello alle “masse diseredate”, con la generalizzazione (la “messa in comune”) della povertà! Bisognerà però tener ben presente come non si creino, nello sviluppo capitalistico, le oggettive condizioni sociali dell’agognata trasformazione rivoluzionaria; non si va affatto nella direzione di una netta (visibile a tutti) divisione della società in un piccolo gruppo di rentier e in una stragrande maggioranza rappresentata dal “lavoratore collettivo cooperativo” (“dall’ingegnere all’ultimo giornaliero”, per dirla con le parole di Marx), con uno strato di ceto medio del tutto transitorio, minoritario, in grado al massimo di rallentare ma non certo di impedire il processo di rivoluzionamento dei rapporti sociali. E’ principalmente in una società come la nostra – non tanto per il suo alto sviluppo produttivo, quanto per la sua articolata e variegata differenziazione in tanti gruppi sociali, disposti “in orizzontale” come “in verticale” – che deve essere provata la possibilità di costruire il nuovo, se se ne è capaci concretamente, senza mitici svolazzi nell’utopia; e senza affidarsi ad improbabili (e presunti positivi) caratteri antropologici del “genere umano”.

 

 Oggi, dunque, bisogna lavorare, e non sui tempi brevi, per ricreare una difficile condizione di radicale mutamento dei rapporti sociali a partire dall’accettazione dell’inesistenza di dinamiche oggettive che favoriscano tale processo; si deve agire in un mondo in forte travaglio e trasformazione, utilizzando al meglio le contraddizioni che si aprono – ma, come appena considerato, tra mille compromessi – nella complicata lotta per le sfere di influenza combattuta dalla potenza per il momento più forte e predominante (si è tuttora in epoca monocentrica) contro i suoi probabili avversari che, se realizzeranno le loro possibilità di divenire forti competitori degli USA, lo faranno in un contesto sostanzialmente imperialistico. Non ci si illuda su questo; non si tentino scorciatoie pensando alla meravigliosa rivolta degli oppressi che, oltre ad essere improbabile (l’Islam non è certo questa rivolta), farebbe una brutta fine anche nel caso si manifestasse: come quella di Spartaco, delle jacqueries del ‘300, della guerra dei contadini del ‘500 (Müntzer, ecc.), dei comunisti nel ‘900, e via dicendo.

La salvezza per i dominati può nascere dalla disgregazione del potere avversario, conseguente alla lotta senza quartiere tra i dominanti, quando questi si dividono in frazioni di forza quasi eguale, nessuna delle quali intende allora accettare e subire la supremazia di altre. E sarà necessario che sorga una forza capace di approfittare di questa lotta, in grado di analizzare la situazione esistente di fase in fase, adattando le sue tattiche a queste ultime e cogliendo infine “il frutto” quand’è “maturo”. Il movimentismo incosciente di questi tempi, se non è apertamente connivente con i dominanti, si pone comunque sempre in “solidarietà antitetico-polare” con essi. Il fare appello alla mera lotta degli oppressi, degli sfruttati, non produce grandi effetti di cambiamento in una società complessa com’è la nostra a capitalismo avanzato. E se non produce qui qualche risultato, continuare a predicare, come un tempo, “l’accerchiamento delle città a partire dalle campagne” porterà al disastroso epilogo della passata epoca di lotte. E il fallimento sarà altrettanto sicuro qualora si insista nel puntare sulla fantomatica “contraddizione antagonistica principale” – fondata sul conflitto per la distribuzione del valore creato dai lavoratori salariati – alla quale piegare e conformare ogni strategia di combattimento.

C’è ben altro da fare; e, fra quest’altro, esiste la necessità di analizzare e valutare come evolve il multiforme confronto che si svolge nell’ambito della formazione sociale mondiale, con la previsione della progressiva entrata in una fase di nuovo antagonismo policentrico (interimperialistico). I prodromi di quest’ultimo, con la crescita impetuosa delle nuove potenze ad est, è oggi l’elemento che di fatto – qui, si, potremmo usare il termine “oggettivamente” –  sorregge il movimento di rivolta di consistenti quote della popolazione araba e di quella sudamericana (orientate da determinati gruppi dirigenti), in questo momento certamente le più attive nel mettere in difficoltà la potenza dominante centrale. Noi siamo però situati in un’area (Europa e Italia), in cui gruppi economici nell’insieme privi di spinta propria, e forze politiche soltanto mosse da meschini interessi del “giorno per giorno”, giocano in favore della prosecuzione della predominanza USA. Di conseguenza, l’azione di chi vuol “cambiare le cose” è qui particolarmente complicata e richiede la combinazione, e il difficile equilibrio, di elementi di strategia intrinsecamente contraddittorî; quelli che talvolta ho indicato schematicamente come esigenze della potenza ed esigenze della trasformazione. Ne riparleremo spesso e a lungo.