Forme di cura. Lo sguardo agli antichi guaritori, per andare oltre l'etnopsichiatria
di Franco Voltaggio - 29/12/2006
Esperimenti di calore terapeutico per ripararsi dal vento della folliaStudi di Alfredo Ancora. L'esperienza della psichiatria transculturale, in un libro edito da Franco Angeli
La tradizione popolare più antica, in Italia e non solo in Italia, associa gli accessi di melanconia e l'aura di un incipiente disordine mentale all'influenza che su talune persone ha la tramontana, per cui chi «perde la testa» sarebbe vittima di un vento maligno e violento. L'universalità di questo contenuto nell'immaginario collettivo trova riscontro in una credenza della medicina sapienziale cinese che definisce «vento» ogni forma di follia e fa delle strategie terapeutiche attivate dal «medico scalzo» «trappole» per catturarlo. Accogliendo questa fantasia come metafora della malattia mentale, uno psichiatra romano, Alfredo Ancora, definisce «costruttori di trappole del vento» tutti gli psicoterapeuti, lui compreso, alle prese spesso con pazienti «difficili», soggetti i cui problemi, non meno dolorosi che complicati, configurano una sorta di tempesta incombente sulla loro testa di rifugiati, richiedenti asilo, migranti economici, che abitano nella «città del papa».
Di qui il tema del suo ultimo libro, I costruttori di trappole del vento. Formazione, pensiero, cura in psichiatria transculturale (Franco Angeli, 2006, pp. 234, euro 23) nelle cui pagine riconosce che la condizione di uno psichiatra istituzionale non è molto dissimile, nella sostanza, da quella dei guaritori primitivi (traditional healers), assumendosi una precisa responsabilità, conoscitiva e terapeutica, che corre a molti livelli. Sotto il profilo conoscitivo, infatti, Alfredo Ancora accoglie come doveroso impegno il fatto di non considerare sufficiente rifarsi al bagaglio di conoscenze proprie della psichiatria praticata in Occidente, giacché si tratta di cimentarla con le suggestioni che vengono da altre culture. Il fatto che queste siano lontane dal nostro modo di stare al mondo e, conseguentemente, non abbiano nulla a che vedere con gli strumenti concettuali della psicoterapia scientifica, è di per sé irrilevante. Lo è per due buone ragioni: essendo il malato soprattutto una vittima della più atroce delle sofferenze, il dolore e la bruciante solitudine della mente, poco importa quale sia la teoria di riferimento cui fare ricorso per attivare la cura; se il soggetto appartiene a un mondo idealmente diverso, è impensabile poterlo incontrare senza in qualche modo colludere con credi e orientamenti che pure sono estranei alla cultura e allo stile di pensiero del terapeuta. Di qui la necessità di quella speciale forma di psicoterapia che è la psichiatria transculturale. Ma che cosa è propriamente la psichiatria transculturale? Per i profani, e forse persino per qualche esperto, è l'equivalente dell'etnopsichiatria, una disciplina, dallo statuto concettuale quanto mai incerto, che si fonda su due assunti di base: a) vi sono forme di disordine mentale che sono peculiari di talune specifiche etnie; b) la conoscenza del retroterra culturale di un'etnia è condizione necessaria e sufficiente per mettere a punto la strategia terapeutica adeguata. Sotto certi aspetti, i due assunti parrebbero trovare giustificazione nelle osservazioni delle ricerche sul campo. A una attenta riflessione, tuttavia, essi mostrano di essere tanto fragili da non meritare di essere considerati veri assunti di base.
La prima asserzione, infatti, non tiene conto della circostanza per cui il paziente diverso non fa il suo ingresso in ambulatorio in quanto sofferente di una patologia originaria che il contatto con una realtà inedita ha semplicemente fatto esplodere, ma è piuttosto malato di una sindrome che, al di là della sua specificità, è l'esito soprattutto di una situazione generalizzata di «spaesamento». Vale a dire che l'interessato non parte già malato, ma si ammala qui e adesso. Ne consegue che la raccomandata conoscenza del suo retroterra culturale può anche essere una condizione necessaria, ma non è certo sufficiente per far decollare il processo di cura. Che fare allora? Ci si può avvicinare a una soluzione praticabile, considerando la dimensione transculturale alla stregua di un processo in cui lo psichiatra transita tra diverse culture mediante una feconda contaminazione con il mondo dell'altro. A questo punto, e qui sta la fecondità della proposta di Ancora, occorre individuare in quella terra di nessuno che è la turba mentale una soglia o confine in cui lo psichiatra incontra l'altro, tenuto conto del fatto, in sé incontrovertibile, che un confine non serve solo a dividere, ma anche a mettere in comunicazione gli esseri umani. Di fatto la cura può nascere non già dall'applicazione alla malattia di una prassi terapeutica consolidata e magari raffinata da qualche nozione di etnopsichiatria, ma dall'incontro tra paziente e psicoterapeuta. Detto così, sembra unicamente una mozione degli affetti, una mera irruzione dei buoni sentimenti in ambulatorio, la spia del nascosto - tra l'altro neppure tanto - terzomondismo dell'autore. In realtà non è così e a dimostrarlo sono i numerosi casi clinici esposti nei Costruttori di trappole del vento, di cui uno è particolarmente significativo. Ha per protagonista Ahmad, un giovane fotografo iraniano fuggito dal suo paese per evitare il carcere: è stato accusato dalla polizia di sovversione, perché sorpreso a fotografare un moto popolare. Ricevuto in Italia, in qualità di rifugiato politico, in un centro di accoglienza, manifesta ben presto i sintomi di una depressione che si aggrava progressivamente sino al punto di sfociare in un tentativo di suicidio. Dimesso, si presenta nell'ambulatorio di Ancora con una cartella clinica in cui è riportata la diagnosi «sindrome depressiva grave con tentativo di suicidio». Il terapeuta, prima di iniziare il trattamento, cerca di entrare in contatto con il giovane fotografo, invogliandolo a parlare di sé e del suo mondo e, per vincere il muro di diffidenza, si spinge sino ad accompagnarlo a visitare con lui una mostra di arte persiana. Segue un periodo in cui Ahmad non si fa vivo e le notizie che arrivano dal centro parlano di un ulteriore aggravamento della crisi depressiva e di un nuovo tentativo di suicidio. Ahmad ritorna un ambulatorio e parla con il terapeuta della moglie e della figlia, una bambina, che ha dovuto lasciare in Iran. A questo punto Ancora ha un'idea, mettere in comunicazione il paziente con il suo nucleo familiare, convincendo la direzione della struttura a farlo telefonare direttamente in Iran. Mentre la conversazione è in corso, Ancora, fa discretamente per allontanarsi, ma il paziente lo richiama, dicendogli «resta, anche tu fai parte della famiglia». Il trattamento può davvero decollare.
Che cosa è avvenuto? La solitudine di Ahmad è stata contrastata facendo dell'ambulatorio una sorta di cabina telefonica che, resa una «quasi casa», simula le pareti domestiche della casa iraniana adatta all'incontro del giovane con le persone che ama, sul filo di un contatto che, se non è fisico, non è, per questo, meno intenso. Resta l'angoscia di Ahamad, la sua malinconia, che però, divenute oggetto di colloquio con un amico, non sono più irretite nella solitudine della depressione. Resta lo psichiatra istituzionale romano Alfredo Ancora, che ha trasformato il suo bagaglio professionale, mettendolo alla prova con il dolore del paziente, senza spocchia e senza faciloneria.