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Crescita e sostenibilità. Riorientiamo la corsa o ci godiamo lo scontro?

di Lucia Venturi - 29/12/2006

Quelle che sono spesso opinioni condivise rimangono argomenti di conversazione nei convegni o (e non sempre) sui giornali
La fine dell’anno che incalza è come sempre occasione di bilanci. Gli auguri che si scambiano in questi giorni puntano sempre ad un futuro migliore di quello che si lascia alle spalle, anche se i presupposti in campo non sono forieri di grandi cambiamenti. O almeno di quelle svolte che potrebbero far davvero rimettere in moto speranze ed entusiasmi, verso un mondo più equo, più giusto e in cui si possa vivere meglio, se non noi, almeno le generazioni che verranno dopo di noi e quelle a seguire. I

titoli dei giornali e gli articoli che compaiono in questo scorcio di fine anno, presentano infatti un pianeta in estrema difficoltà, in cui gli effetti del surriscaldamento climatico non sono annunciati, ma vissuti da persone in carne ed ossa, popolazioni costrette a lasciare le proprie terre, perché risucchiate dall’oceano, come sta avvenendo a Lohachara, una piccola isola del golfo del Bengala. O in Somalia, dove alle oltre 330mila persone già cacciate dalle proprie case e dai propri villaggi a causa delle piogge e dei continui allagamenti, e costrette a rifugiarsi in zone in cui è forte la minaccia della malaria, se ne stanno aggiungendo in queste ore altre decine di migliaia a causa dei conflitti infiniti e dimenticati che da decenni vive l’intero Corno d’Africa, già piegato da miseria e carestia.

O in Nigeria dove centinaia di persone sono morte carbonizzate per il futile tentativo di accaparrarsi qualche tanica di petrolio, che potrebbe rappresentare la loro ricchezza e che invece determina la loro sciagura.

A due anni dalla tragedia dello tsunami che colpì i paesi costieri dell’oceno Indiano, causando 200 mila morti e oltre due milioni di profughi, nonostante gli straordinari aiuti a livello internazionale, il bilancio che fa Clinton - nominato dall’Onu per gestire la ricostruzione - denuncia una situazione ancora in estrema crisi, per il fatto che gran parte della popolazione che vive in quei territori versava già in condizioni inaccettabili, ancora prima della catastrofe.

Alcuni esempi - ma l’elenco potrebbe proseguire molto oltre - che dovrebbero far pensare o meglio ripensare a politiche globali che hanno invece come unico obiettivo quello di mantenere e di rilanciare l’attuale sistema economico a scala planetaria.

Stiglitz dalle colonne de la Repubblica sottolinea che nonostante il prezzo del petrolio alle stelle e la situazione incandescente e ormai fuori controllo del Medio Oriente, l’economia globale ha tenuto evitando – non si sa come, sembra dire - una catastrofe economica di dimensioni gigantesche. Ma osserva che il 2006 ha prodotto anche una serie di messaggi d’avvertimento di quello che sarà il futuro negli anni a venire e che ci sono stati dei segnali evidenti di un rifiuto netto delle politiche fondamentaliste e neo-liberiste. Portando ad esempio il voto del Nicaragua e dell’Ecuador e la riconferma netta di Hugo Chavez in Venezuela, che ha iniziato a redistribuire alla popolazione sottoforma di servizi, i vantaggi provenienti dall’enorme ricchezza del petrolio. Che comunque rimane il fulcro delle politiche economiche ed estere del Venezuela.

E segnala come fatto ancora più interessante su scala mondo, per le conseguenze che questo determinerà in termini di instabilità, la bocciatura che invece gli americani hanno dato nelle elezioni di medio termine, alla politica di Bush.
Soprattutto perché ha fatto emergere le debolezze di un paese, che si annuncia nei proclami e nelle azioni il padrone del mondo e che invece deve riportare a casa bilanci poco favorevoli, sia in termini di immagine che di risultati concreti.

Sia nella politica mondiale, sia in quella interna dove i risultati attesi per il rilancio dell’economia messi in atto dall´amministrazione Bush attraverso una politica fiscale, che favorire soprattutto i ceti alti, ed una riduzione del prezzo del denaro, ha portato invece ad un rallentamento della crescita economica e dei consumi. Mettendo nei fatti fortemente a rischio l’economia del più potente paese del mondo, che su quello basa la sua stabilità e il suo style of life, e di conseguenza la stabilità a livello globale.

E sempre dalle colonne de la Repubblica, in un suo articolo Giorgio Ruffolo riassume quanto emerso negli ultimi mesi dai rapporti sulle gravi minacce che incombono sul pianeta, dovute a politiche basate proprio sulla crescita e sui consumi che da una parte depauperano le risorse e dall’altra creano squilibri ecologici e sociali. Chiosando sul fatto che ormai “catastrofisti sono i fatti e non le opinioni”.

E conclude sostenendo che il problema della crescita insostenibile “è il più formidabile problema che l’umanità abbia mai incontrato”. E che per risolverlo sarebbe necessario porre in essere modelli di sviluppo basati sulla stabilizzazione e sulla redistribuzione delle risorse a livello planetario. Ma per questo dice Ruffolo servirebbe “una svolta antropologica, non solo economica”.

Insomma, nella sfera culturale sembra ormai non esistano più dubbi, sulla necessità di ripensare a livello paese e a scala mondo le attuali politiche economiche. Fosse solo per il fatto che l’instabilità economica va di pari passo con l’instabilità sociale e questo non può che produrre crisi nella parte ricca del paese. Senza voler scomodare ideali di giustizia e di equità sociale o preoccupazioni legate alla salvaguardia ambientale del paese. Infatti c´è ormai un analisi convergente tra chi analizza i processi economici da un punto di vista, per così dire, accademico e chi vi associa anche un idea politica di fondo, di come vorrebbe che funzionasse una società nel suo complesso perché potesse considerarla un modello da perseguire.

Il problema però è che queste analisi mal si incrociano (o non lo fanno affatto) con il dibattito politico-amministrativo in corso. E quelle che sono spesso opinioni condivise rimangono, appunto, argomenti di conversazione nei convegni o sulle pagine di giornale. Come se la politica fosse altro. O dovesse fare altro.

E questo avviene, con i dovuti distinguo, anche per quanto riguarda le agende politiche interne. Basta vedere quali sono i temi in discussione nella nuova agenda del governo o fase due per come si preferisce chiamarla, che seguirà dopo i burrascosi mesi della finanziaria, oggi finalmente legge.

Un agenda che sarà scritta “su fogli bianchi” ha detto Prodi, nel seminario che si svolgerà a Caserta, cui ha chiamato tutti i suoi ministri e che dovrà ridare slancio alle politiche di governo. Ma è difficile pensare che in quei fogli bianchi non prevalga l’obiettivo monomaniacale della crescita da misurarsi con frazioni di punto di Pil.

Come se gli interessi veri del paese fossero altro dalle preoccupazioni per l’instabilità globale e come se i problemi che minacciano il mondo e quindi anche noi, fossero sempre rinviati all’anno che verrà. E quindi ci si preoccupasse del presente, dell’immediato senza contare appunto che il futuro del pianeta è già qui.

Non vorremmo allora che l’epilogo fosse come quello della storiella che Ruffolo racconta a fine del suo articolo, in cui quando un casellante avendo fatto di tutto (e non è comunque il caso della politica attuale) per evitare uno scontro tra due treni in corsa, telefona alla moglie per dirle di godersi almeno lo spettacolo.