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Il libro della settimana: Stefano Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto

di Carlo Gambescia - 04/01/2007

Il libro della settimana: Stefano Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 285, euro 19,00

Accade a volte di leggere un saggio e trovarlo ben documentato, ma capita pure, che una volta chiuso il libro, ci si senta delusi, perfino irritati… E questo, a prescindere dall’eccellenza dell’autore . Di solito, in questi casi, c’è sempre un problema di “intelaiatura”: c’è qualcosa che non funziona sul piano teorico. L’autore, presume di esporre una certa tesi, e invece proprio sulla base delle sue premesse, incappa, senza rilevarlo, in alcune contraddizioni. Perché? In genere, perché si è addentrato, oltre il lecito, in campi non suoi. Del resto, accade pure, che le incoerenze possano essere poi scoperte dal non specialista: o per essere precisi, da chiunque abbia una formazione diversa da quella dell’autore. E magari proprio nel settore, che subisce l’ “intrusione”…
Un ottimo esempio in argomento è dato dal recente, e comunque interessante, volume di Stefano Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (Feltrinelli, Milano 2006, pp. 285, euro 19.00). Per carità, chi scrive, apprezza, come dire, per chiara fama, le qualità di giurista del professor Rodotà, Ordinario di Diritto civile nell’Università di Roma, già Garante per la Privacy, membro di prestigiose istituzioni, collaboratore di Repubblica, oltre che di prestigiose riviste scientifiche e di cultura. E mai oserebbe criticarne la dottrina. Anche perché non padroneggia il sapere giuridico. O comunque, non in modo impareggiabile, come il professore.
Ma chi scrive ha una formazione sociologica. E si è così potuto accorgere che quel che non funziona nel libro - e può dunque infastidire – dipende purtroppo dal non sufficiente approfondimento del rapporto tra vita e regole (tra il non diritto e il diritto). O se si preferisce tra contenuto (la vita sociale) e forma (il diritto): tema sociologico per eccellenza. Non vorremmo però annoiare il lettore… Facciamo perciò subito un esempio pratico.
La “vita sociale” può essere rappresentata, da un serie eventi. E la “forma”, dalle leggi (il diritto positivo), che recepiscono, regolamentandoli, gli eventi. Per esempio, all’epoca, dell’approvazione della legge sull’aborto, chi era favorevole sostenne che la “vita”, condensata e rappresentata dal numero crescente di aborti clandestini, richiedeva una nuova forma giuridica “progressiva”, imposta appunto dalla “vita”. In parole povere, si invocava una regolamentazione giuridica, capace di “legalizzare”, portandolo alla luce, l’aborto clandestino. E di solito, chi difende la necessità di legiferare, “recependo” nuove forme “progressive” di vita, è su posizioni illuministiche, mentre chi critica questo atteggiamento è su posizioni conservatrici, perché convinto che le società possano trovare, e da sole, l’ equilibrio collettivo (anche se poi i conservatori non spiegano come. Ma questa è un’altra storia).
Comunque sia, tra i progressisti potremmo collocare, Condorcet, e ovviamente il professor Rodotà, tra i conservatori Burke, tanto per fare qualche nome importante.
Ora, non è detto che forma giuridica “progressiva” concordi sempre con i contenuti giusti. Come è noto, le leggi riflettono, se non lo spirito popoli, come sosteneva la Scuola storica dei diritto, sicuramente lo spirito dei tempi. Che non sempre è edificante… E qui per capire l’incoerenza dei sostenitori del mix regole-diritti-progresso, basti fare il facile esempio di una ipotetica, ma “progressista”, società di ladri che di sicuro infierirebbe, per legge, sugli onesti…
La distinzione sociologica tra forma e contenuto (tra legge e vita, diciamo così), risale a Georg Simmel, che sviluppò le intuizioni eraclitee di Goethe, Schopenhauer e Nietzsche. Insomma, come al poker, se ci passa la metafora ardita, la vita rilancia sempre, e difficilmente possono imporsi quelle regole, che limitino il numero e l’importo delle puntate. Altrimenti il poker e la vita, perderebbero sapore e significato.
Fuor di metafora. Rodotà nel suo libro, si spinge fin dove il rapporto della vita con le regole si fa addirittura tragico (come nei casi delle clonazioni, del suicidio assistito, degli espianti di organi), fiduciosamente armato degli illuministici “diritti fondamentali”, e di un astratto, “diritto alla libera costruzione della personalità” (p. 21). Diritti, che per sua stessa ammissione, implicano, al tempo stesso, garanzie collettive e autoderminazione dell’individuo. Insomma, si punta alla quadratura del cerchio… Ad esempio, come conciliare diritto alla salute, sancito tra l’altro costituzionalmente, con il diritto a una morte dignitosa? Ma il diritto a un intervento esterno, che per evitare l “accanimento terapeutico” (ma quando comincia? quando finisce?), metta fine alla vita di un uomo, coincide con il libero sviluppo della personalità umana? E se sì, come? E chi decide?
Rodotà non risponde. Si limita a ripetere che le forme (giuridiche) devono inseguire la vita. Ma, se abbiamo capito, fino a un certo punto: il diritto infatti deve adeguarsi alla vita, purché questa non danneggi le moderne libertà fondamentali. Di qui, a suo avviso, la necessità per la gente comune di seguire il cammino indicato dalle élite illuminate, le sole in grado di correggere i vizi dell’ ”uomo medio”, così volgare e reazionario. Ma se “l’uomo medio” (il “buon padre di famiglia” del diritto civile, avversato da Rodotà), non è capace di scegliere “il progresso” giuridico, si deve desumere, che lo sia la società, e in particolare la microsocietà “riflessiva” delle élite? Ma allora chi stabilisce ciò che è giusto o sbagliato? Gli stessi illuminati. Il che non è certo un bell’ esempio di democrazia.
Ma torniamo alla dicotomia forma/contenuto. L’idea di libero sviluppo della personalità umana è forma o contenuto? E’ norma “giuridica” o fatto “sociale”? Anche su questo punto Rodotà tentenna. Anche se poi pare propendere per l’ identità tra sviluppo umano e regola giuridica, ovviamente se “illuminata”: l’uno rinvierebbe all’altra. Ed entrambi all’idea di progresso giuridico e sociale, insita in quella di sviluppo umano… E che cos’è lo sviluppo umano? Quel che impone il progresso…. E’ chiaro che si tratta di un ragionamento circolare e incoerente. Che invoca un principio extralogico di autorità, quello del progresso…
Per tornare a Simmel, l’aspetto più importante della sua sociologia, è che il rapporto tra forma e vita, tra diritto e società, culmina coerentemente nell’ eterno fluire sociale, dove la vita stessa crea e distrugge le forme culturali. Un processo spontaneo dove non c’è spazio, come invece in Rodotà, per “corpi estranei” come il progresso e le élite illuminate: il diritto rincorre la società e viceversa, senza requie, se non in quei brevi momenti interstiziali in cui il diritto si fa regola.
Tuttavia anche quella di Simmel è una visione immanentista, che lascia perplessi. Perché rifiuta qualsiasi legane col trascendente. Va però detto che in Simmel non c’è mai rifiuto della vita come dono, come miracolo quotidiano. Ecco il vincolo originario. E per questa ragione, la vita, anche se non si è credenti, va accettata fino in fondo, con le sue gioie e dolori. Stoicamente.
Questa è la lezione di Simmel.
Rodotà invece non accetta doni… E così vita e diritto si avvitano su se stessi, crogiolandosi in un immanentismo privo di vie d’uscita, se non quelle tracciate, di volta in volta, dalle élite riflessive. Che - è bene sottolinearlo - considerano la società un laboratorio, e l’ ”uomo medio” un nemico da sconfiggere. “Lo schema del dono - scrive Rodotà - (…) implica sempre la possibilità del rifiuto: quando questa manca [come nel venire al mondo], o è ritenuta inammissibile, è la stessa categoria del dono a non essere proponibile. Lo stare al mondo non può essere segnato da un vincolo originario, che accompagna e condiziona l’intera vita, in forme più concrete e obbliganti di un peccato originale. Escludere la legittimità del richiamo sia pure simbolico, alla vita come dono significa non solo restituire ai nati la pienezza della loro autonomia, ma evitare distorsioni pericolose nell’analisi di difficili problemi” (p. 129).
Certo, “pienezza della loro autonomia”. Ma per andare dove?