Come sono stato rapito dalla Cia
di Mohammed Al Shafey - 04/01/2007
di Mohammed Al Shafey da Asharq Al-Awsat - traduzione per Megachip di Fabrizio Bottini - Nota introduttiva di Francesco De Carlo Il contenuto della lettera di Abu Omar, come del resto tutta la sua storia, è sconvolgente. Rapito nel febbraio del 2003 per le strade di Milano dalla Cia, che lo aveva pedinato per settimane con l'aiuto di agenti italiani, l'ex-imam viene trasferito in Egitto, dove subisce pesantissimi interrogatori. “Se vuoi un interrogatorio serio, mandi il prigioniero in Giordania; se vuoi che venga torturato, lo mandi in Siria; se vuoi farlo sparire e non farlo riapparire mai più, mandalo in Egitto” . Forse in questo caso le parole di Robert Baer, ex agente della Cia, non sono appropriate alla vicenda di Abu Omar, che dalle famigerate carceri egiziane riesce fortunatamente a far sentire la sua voce. | |
Ma le sue parole esprimono perfettamente tutta la dottrina del programma delle extraordinary rendition, con il quale la Cia ha consegnato e forse continua a consegnare sospetti terroristi nelle mani dei servizi di Siria, Egitto, Giordania, per farli interrogare sotto tortura. In una fitta rete di voli e carceri segrete passano di mano (spesso senza nessuna accusa precisa) decine e decine di esseri umani, di cui le inchieste dell'Europarlamento, della stampa e di qualche magistrato riescono a documentare soltanto una (piccola) parte. Si tratta di un programma che non viola solo il diritto internazionale, ma anche quello americano e dei paesi europei, per il quale verranno accertate le responsabilità dei governi occidentali, che finora hanno raccontato non poche menzogne. Le rendition sono un effetto, tutt'altro che collaterale, della guerra infinita iniziata l'11 settembre 2001. A distanza di qualche anno è sempre più evidente come il sistematico ricorso all'illegalità costituisca non “l'altra faccia”, “il lato oscuro” della Guerra al terrore intrapresa dall'amministrazione Bush, ma la sua natura più profonda. Una guerra combattuta ad Abu Graib, a Guantanamo e nelle carceri siriane, utilizzando le stesse atrocità che diciamo di combattere, alleandoci con gli stessi regimi che dichiariamo pubblicamente nemici della nostra libertà. In nome di quale presunta superiorità morale stiamo combattendo?(F.D.C.) Hassan Mustafa Osama Nasr, conosciuto anche col nome di Abu Omar al Masri, ha fornito a Asharq Al Awsat informazioni dettagliate riguardo al proprio caso, ora al centro di un contrasto Europa-Usa dopo che la Cia è stata accusata di averlo sequestrato in piano giorno in una via di Milano, e di averlo consegnato alle autorità egiziane. In una lettera manoscritta di undici pagine spedita a Asharq Al Awsat , Abu Omar fornisce particolari sul suo sequestro e afferma che I servizi segreti americani e egiziani tenevano sotto controllo la sua moschea e abitazione prima del sequestro, sulla base di sospetti legami con Al Qaeda. Abu Omar, che ha intentato causa all'ex primo ministro italiano Silvio Berlusconi chiedendogli un risarcimento di dieci milioni per aver avuto un ruolo nel sequestro, chiede che venga sentito Nabil al Tunisi, attualmente in carcere a Milano, perché probabile fonte di informazioni utili sulle circostanze che hanno condotto al rapimento. Abu Omar parla anche di quello che definisce controllo ventiquattro ore al giorno del suo cellulare e del computer, prima del sequestro. Afferma, “Ricevevo chiamate di persone che chiedevano di Abu Omar, e poi riattaccavano prima che potessi rispondere. Ho anche ricevuto centinaia di virus via e-mail”. Spiega che un ufficiale della sicurezza gli ha detto, durante un interrogatorio, che c'era una telecamera installata nel suo appartamento di Milano, e che l'ha riperso per un periodo significativo. Per quanto riguarda il suo sequestro in una strada di Milano, Abu Omar racconta: “Stavo camminando lungo via Conte Verde sulla strada verso la moschea per la preghiera pomeridiana al Centro Culturale Islamico di via Jenner; avevo lasciato da mesi il mio lavoro alla moschea della comunità islamica al n. 45 della via”. E prosegue: “Al momento del sequestro, avevo in tasca 450 euro, 400 dei quali erano per pagare l'affitto della casa dove abitavo con mia moglie. Avevo anche il mio passaporto italiano, il permesso di soggiorno, il cellulare, la tessera sanitaria personale, quella dei servizi sociali, un orologio da polso e le chiavi dell'appartamento di via Conte Verde. Questi oggetti di mia proprietà sono nelle mani della sicurezza egiziana, e nessuno mi è stato restituito”. Abu Omar spiega di essere stato trasportato fino a un'altra macchina, o piccolo velivolo, ma non è sicuro, forse era sotto sedativi. Dice: “Non ero completamente consapevole, forse per la forza dei colpi e del dolore che provavo, o magari mi avevano dato un blando tranquillante. Circa un'ora dopo, mi hanno scortato fino a un altro posto, ancora bendato e legato mani e piedi. A giudicare dall'aria condizionata e dal suono di motori, sembrava un aeroporto. Poco dopo ho sentito il suono di molti passi. Mi hanno tolto i vestiti, ed è caduta la benda. Ho visto delle persone vestite come appartenenti alle forze speciali. Mi hanno fotografato, coperto la testa con del nastro molto spesso, lasciando delle aperture per la bocca e il naso, mi hanno legato mani e piedi con dei lacci di plastica, poi mi hanno sollevato fino a posarmi sdraiato dentro un aeroplano”. “Gli interrogatori sono continuati per sette mesi, dal 18 febbraio al 14 settembre 2003. Sette mesi che mi sono sembrati sette anni: sette anni di dolore e tortura. Mi era totalmente proibito di vedere giornali e riviste, o di ascoltare notizie. Era vietato tutto. Mi dicevo che il governo italiano non mi avrebbe abbandonato, che l'ambasciatore italiano sarebbe venuto a visitarmi, dato che sono cittadino italiano, ma nessuno di questi desideri si è avverato. Mi hanno detto che mi avrebbero trasferito in un altro posto. Credevo che i miei guai fossero finiti, che mi portassero in un aeroporto dove mi sarei imbarcato su un aereo per l'Italia. L'auto ha viaggiato per circa un'ora, prima di fermarsi fuori da un edificio. Mi hanno ordinate di uscire. Allora ho capito che si trattava dell'edificio della Sicurezza Statale a Nasr City. A mia cella era di quattro metri per due, senza alcuna ventilazione tranne un aspiratore. C'era soltanto una coperta, ed eravamo sottoterra. Non potevo distinguere il giorno dalla notte, conoscere gli orari delle preghiere, né la Qiblah (la direzione in cui si rivolgono per pregare i musulmani). Sono stato in quel posto per sette mesi e mezzo, interrogato due volte al giorno, dalle undici del mattino fino al pomeriggio, e poi ancora dalle nove di sera all'alba. Mi dicevano che l'Italia mi aveva consegnato all'Egitto, e che da Roma non sarebbe arrivato nessuno in mio aiuto. Mi bendavano sempre, così che non potessi riconoscere il funzionario che mi interrogava”. Nota. Lettera di Abu Omar al Masri, incarcerato in Egitto, Asharq Al-Awsat, titolo originale: How I Was Kidnapped by the CIA . Letter from Abu Omar al Masri Imprisoned in Egypt |