Hugo Chávez, uomo dell'anno per carmilla
di Valerio Evangelisti - 05/01/2007
Quest’anno, alla rivista Time, è capitato un curioso incidente. Ha pensato di affidare ai suoi lettori on line la scelta dell’ “uomo dell’anno”, cui consacrare la prima copertina del 2007. Pessima decisione, visto che il personaggio più votato è stato il presidente del Venezuela Hugo Chávez, seguito dal capo del governo iraniano, Mahmoud Ahmadinejad. Di fronte a due nomi imbarazzanti, Time ha scelto una via degna di Ponzio Pilato. Ha cioè deciso di conferire il titolo di “uomo dell’anno” ai votanti stessi. La copertina è andata a un generico “popolo di Internet”. Ebbene, Carmilla non sta al gioco e conferisce il titolo proprio al personaggio indicato dai lettori di Time. Seguono le motivazioni. Sono tre anni che su Carmilla non mi occupo dell’Iraq. L’ultima volta che lo feci fu con un articolo intitolato L’Iraq è un severo maestro. A ciò che scrissi allora non ho trovato, in seguito, altro da aggiungere. Gli esiti catastrofici dell’intervento presunto “umanitario” sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso governo degli Stati Uniti ha finito per ammettere la propria sconfitta. Saddam Hussein è stato impiccato, ma la fine della sua dittatura lascia un paese in piena guerra civile e sull’orlo della divisione, governato da un esecutivo fantoccio che in realtà non controlla nulla, e retto (si fa per dire) da una Costituzione che altri hanno scritto per suo conto. Tutti – dico tutti – i precedenti interventi armati “umanitari”, “democratici”, “preventivi”, sono finiti allo stesso modo: con pure bruciature sulla carta geografica. La situazione nel Kosovo, di cui non parla più nessuno, è semplicemente ingestibile. La Somalia è un inferno in cui si combattono bande islamiste, poteri feudali e un’Etiopia mossa da poco celate intenzioni imperiali sulla regione. L’Afghanistan, dotato a forza di un presidente-marionetta che non controlla nemmeno la periferia della capitale, pare ripiombato in pieno feudalesimo. Ricordo un dialogo telefonico che ebbi all’epoca dei bombardamenti sull’Afghanistan, nella trasmissione Fahrenheit di Radio Rai Tre, con due “opinionisti” fra i più ambigui: Gianni Riotta e – udite, udite – Maria Giovanna Maglie. Il primo, appena capì (ci mise un po’ a farlo: è meno sveglio di quanto si creda) che ritenevo l’invasione dell’Afghanistan, in quelle forme efferate, qualcosa di controproducente, mise giù il telefono. La seconda, femminista a scoppio ritardato, mi strillò nelle orecchie che finalmente le donne afgane si erano liberate dell’odioso bourkha. Mi dispiace per lei, ma non è vero per niente. Le afgane indossano il bourkha come prima. La sua abolizione non era nei programmi né dell’attuale presidente-copertina, l’ex ristoratore Kanzai potente quanto Romolo Augustolo, né della cosiddetta Armata del Nord, coalizione tumultuosa di feroci capitribù (qualcuno ricorderà il parlamento arabo del film Lawrence d’Arabia), né, mi dispiace per i fan, del mitico Massud. Integralista musulmano, in apparenza filo-occidentale, che tra i suoi bersagli ebbe sempre le scuole afgane aperte anche alle donne. Il suo ideale, in certa misura, è stato conseguito. Non ci sono più i Talebani al potere, ma l’Afghanistan “liberale” e liberato somiglia molto al precedente. A pochi, tra i governanti del mondo e tra gli operatori dei media al loro servizio, sorge il dubbio che “guerre umanitarie”, stragi di civili (altrimenti detti “vittime collaterali”), occupazioni armate servano a poco o a nulla. Le uniche invasioni statunitensi pienamente riuscite, nell’ultimo ventennio, sono state quelle di Grenada e di Panama. Un’isoletta con vocazione turistica e una città, peraltro bruciata per un terzo (con gli abitanti dentro). Splendidi esempi di strategia politico-militare. Le minacce del basso impero americano, invasato dalla sua vocazione protestante di esportare modelli di società e stili di vita, si sono spostate sempre più a Est. Qui hanno trovato controparti più rigide di ciò che si attendevano. Una di queste è la Cina, che nelle settimane scorse ha deciso, dopo anni di tentennamenti, di sostituire l’euro al dollaro nelle transazioni internazionali. Sulla traccia di ciò che hanno promesso di fare, in tempi appena un poco più lunghi, Russia, Iran e India (quest’ultima più propensa a usare l’oro, invece che la moneta europea). Brasile e Argentina, mi informa il giornalista italiano residente in Venezuela Tito Pulsinelli (presto pubblicheremo un suo articolo, primo di una serie), hanno deciso di usare negli scambi la moneta nazionale, in attesa della moneta unica del Mercosur, il mercato comune latinoamericano. Non è tanto facile accusare Chávez di essere un “dittatore”. Le sue conferme, alla presidenza del Venezuela (l’ultima col 67% dei suffragi), sono avvenute attraverso elezioni assolutamente limpide, monitorate da una folla di osservatori internazionali. In cambio, Chávez ha patito, dai tristi sostenitori del “liberalismo occidentale”, attentati da cui pochi sarebbero usciti indenni, senza un enorme consenso popolare alle spalle. Tali furono, nel 2002, lo sciopero dell’industria petrolifera, di cui lui auspicava una gestione con finalità sociali, e nello stesso anno un colpo di Stato apertamente appoggiato dagli Usa, condito da notizie totalmente false provenienti dai media privati (se oggi sappiamo la verità lo si deve al coraggio di alcuni documentaristi inglesi, che filmarono quanto accadeva). Il crimine capitale di Chávez, agli occhi dei nostri maggiori quotidiani, è stato proclamare l’attualità di un “socialismo del XXI secolo”. Tale socialismo non è in realtà tanto più estremo della socialdemocrazia cui il nostro “centrosinistra”, qualche volta, si richiama, eppure basta a suscitare orrore. Vediamo, molto in breve, di cosa si tratti, e perché le reazioni siano feroci a tal punto (cioè fino ad avallare, nel 2002, un colpo di Stato contro Chávez, spacciandolo come un ritorno a una non meglio precisata “democrazia”, mentre Chávez stesso, la vittima, sarebbe un golpista). Un’inchiesta condotta tra i giovani russi, circa tre anni fa, condusse a questo risultato. La maggioranza di loro voleva che: 1) fossero statali le industrie strategiche, dalla metallurgia pesante, all’energia, alle comunicazioni portanti; 2) fossero a base cooperativa la grande agricoltura e la media industria; 3) fossero privati il commercio, l’industria culturale, il resto dell’agricoltura, le comunicazioni su scala non monopolistica, le rimanenti attività; 4) il tutto poggiasse su meccanismi democratici di raccolta del consenso. Grosso modo, ciò che Hugo Chávez cerca di realizzare somiglia molto a quello che desideravano i giovani russi, e a quanto tentavano i sandinisti. I suoi omaggi a Cuba (obbligati e giusti, come sa bene chiunque adotti un punto di vista latinoamericano) non hanno ricadute né di sudditanza, né di imitazione pedissequa del modello. Oltre all’apporto femminista, sembra avere accettato altri contributi provenienti dal magma ribollente della new left dagli anni 1960 al 2000: quello degli ecologisti (non è accettabile un’industria che inquini), quello dei pacifisti (il mio paese non farà mai guerra a un altro), quello dei cattolici trasgressivi (i poveri, da ultimi che sono, devono stare al primo posto), quello degli anarchici (vanno moltiplicate le forme di democrazia diretta), quello dei marxisti (tra le classi di interessi contrapposti non può esservi compromesso), quello dei “terzomondisti” (la nozione di lotta tra sfruttati e sfruttatori va trasferita su scala mondiale) ecc. Siamo mille miglia oltre il comunismo d’annata, la variante cubana inclusa. Fonte: http://www.carmillaonline.com/ Link: http://www.carmillaonline.com/archives/2007/01/002091.html#002091 04.01.2007 VEDI ANCHE: IL CINISMO DELLA RIVISTA TIME |