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La fusione Mittal-Arcelor e i suoi insegnamenti negativi (1)

di Gianfranco La Grassa - 09/01/2007

 

 

Alla fine di giugno dello scorso anno, le due più grandi acciaierie del mondo – la francese Arcelor e l’americo-indiana Mittal Steel Company – si sono accordate per fondersi, creando un gigante con un potere di mercato enorme. La fusione è stata preceduta da complesse vicende seguite all’Opa ostile lanciata dalla Mittal sull’Arcelor. Quest’ultima ha resistito a lungo, a un certo punto stava per concludere un accordo con la russa Severstal, che avrebbe creato un colosso ancor più forte della Mittal, ma alla fine ha prevalso l’impresa “indiana” (sostanzialmente americana). E’ difficile dare ordine all’intera operazione – molti lati della quale restano comunque poco chiari (com’è logico)  – al fine di far capire l’andamento dei fatti; direi piuttosto paradigmatici per quanto riguarda la crescente debolezza dell’Europa e il suo progressivo decadere a parte dell’Impero USA. Proverò a ricostruire, per sommi capi, la vicenda pur se so in anticipo che sarà difficile delinearne un quadro soddisfacente e almeno in parte comprensibile.

 

Intanto i due protagonisti. L’Arcelor nasce nel 2002 dalla fusione di Usinor (Francia), Arbed (Lussemburgo) e Aceralia (Spagna). Viene comunque considerata una grande impresa siderurgica in prevalenza francese, che nel 2005 è stata al secondo posto, dopo la Mittal, per la produzione d’acciaio. Tuttavia, se si guarda al fatturato, l’Arcelor è al primo posto (32 miliardi di euro contro 28 miliardi di dollari della ditta americo-indiana). Questa differenza di posizione sul piano della quantità prodotta e su quello del fatturato è dovuta alla diversa gamma di prodotti delle due imprese. La Mittal è presente in quella che potremmo definire (per intenderci) una produzione “di massa”, cioè di acciai di media qualità e di più largo uso (in specie nell’edilizia, pur se ovviamente vende pure ad altri settori, ivi compreso quello automobilistico). L’impresa francese produce acciai “medi”, ma ancor più acciai speciali, di alta qualità (serve molti settori ma in particolare quello dell’auto e anche quello aviatorio, ecc.).

Dal punto di vista dell’innovazione di prodotto, l’Arcelor è senz’altro più avanti dell’altra; ed è pure più moderna tecnologicamente. Essa aveva da non molto concluso con successo l’acquisizione della canadese Dofasco – che le aveva aperto il mercato automobilistico nordamericano – battendo la tedesca ThyssenKrupp (nomi ben noti), che non a caso ha appoggiato la Mittal nella sua operazione su Arcelor; un appoggio anche politico data la capacità di pressione sul Governo tedesco, che a sua volta ha influenzato gli organismi europei, schieratisi contro l’avvicinamento (difensivo) dei francesi ai russi della Severstal e quindi a favore dell’Opa ostile lanciata dalla Mittal (cioè, in ultima analisi, dagli americani). Gli ambienti governativi francesi, invece, hanno fino all’ultimo manifestato la loro preferenza per un accordo Arcelor-Severstal.

Un elemento di debolezza, non credo quello decisivo, dei francesi rispetto agli americo-indiani si trova nella struttura azionaria delle due grandi imprese. La Mittal è di proprietà della omonima famiglia (che risiede principalmente negli USA) per il 74%; si tratta, nominalmente, di fondi (Richmond Investment Holdings e LNM Global) che hanno sede nei cosiddetti “paradisi fiscali”; non è quindi per nulla chiaro, al di là della ufficiale proprietà della famiglia in questione, chi si nasconda poi realmente dietro quel 74% azionario che di fatto rende inattaccabile la Mittal. L’Arcelor, al contrario, ha l’85% delle azioni in libera circolazione in Borsa. Il più “grosso” azionista (si fa per dire) è il franco-polacco Roman Zaleski (vedremo poi il suo ruolo) che ha quasi l’8% delle azioni tramite la sua impresa, la Carlo Tassara International. Lo Stato lussemburghese ha il 5,6%. Una considerevole parte dell’85% azionario liberamente circolante in borsa è in mano ad una miriade di piccolissimi proprietari, che sono lontanissimi dai problemi della gestione d’impresa; per loro l’azione è solo un titolo di risparmio a rendimento variabile (a differenza dell’obbligazione, che ha saggi d’utile fissati al momento del lancio dell’operazione debitoria). Tuttavia, un certo numero di questi minimi azionisti – detentori di una quota di appena il 2,5%; non però indifferente ai fini del controllo societario – è riunita in una associazione la cui presidente, certa Nicolette Neuville, ha giocato, così come Zaleski, un ruolo favorevole all’Opa della Mittal. In ogni caso, la configurazione dell’Arcelor ad azionariato diffuso la rendeva certo più vulnerabile a scalate; tale fattore però spiega il lato puramente formale dello scontro, non certo il perché la battaglia sia stata così accanita, con il Governo francese in attrito nei confronti degli organismi europei (alcuni settori politici e finanziari francesi si sono invece posti sulle posizioni di questi ultimi), del tutto proni di fronte al (pre)potere statunitense. Nel complesso si è assistito al confronto tra una prospettiva franco-russa e la sostanziale acquisizione dell’azienda francese da parte di quella ad impronta americana.

 

Si tenga presente che il mercato dell’acciaio, dopo un lungo periodo di stagnazione (a partire dallo choc petrolifero del 1973), è di nuovo in buona crescita (3-4% all’anno). Il paese che ultimamente ha dato il maggior impulso agli acquisti di acciaio è stata la Cina, il cui impetuoso sviluppo esige grandi quantità di risorse energetiche (petrolio in primo luogo) e, appunto, di acciaio. Detto per inciso, la Cina, grande esportatrice di coke, destina oggi gran parte di questo carbone alla sua produzione interna d’acciao (mediante altoforni), che si è quintuplicata tra il 1990 e il 2005 (essendo ottenuta da alcune centinaia di acciaierie di non grandissime dimensioni); la fame cinese d’acciaio è al momento insaziabile e la drastica riduzione dell’esportazione di coke ha innalzato enormemente (600%; il 70% nel solo 2005 e il 20% quest’anno) il prezzo di quest’ultimo sul mercato mondiale.

Malgrado l’aumento considerevole della domanda d’acciaio, il suo prezzo è salito assai meno di quest’ultima a causa soprattutto della minore concentrazione monopolistica di tale industria rispetto a quella dei suoi fornitori (i produttori di minerale di ferro) e a quella dei suoi clienti (edilizia ma soprattutto settore automobilistico). I 10 principali produttori di minerali di ferro (estratti soprattutto in Brasile ed Australia) rappresentano l’80% della produzione mondiale; le 10 principali imprese automobilistiche producono il 60% di autovetture; mentre le 10 principali imprese siderurgiche coprono solo il 27% del mercato dell’acciaio.

Ovviamente, una simile situazione ha spinto i proprietari e controllori delle acciaierie a mettersi sulla strada delle grandi acquisizioni-fusioni onde accrescere la centralizzazione dei capitali – e dunque il potere di mercato delle imprese – anche in tale settore. Ancora una volta, tuttavia, questo semplice fattore non può spiegare perché invece dell’accordo Arcelor-Severstal, la prima impresa abbia infine dovuto soccombere (questo mi sembra il termine adatto) all’Opa ostile della Mittal. Si è naturalmente addotto il fatto che le due imprese si completano per quanto riguarda la gamma dei prodotti e per le zone geografiche in cui sono situati i mercati di vendita degli stessi: la Mittal vende soprattutto in America del nord e nell’Europa dell’est, l’Arcelor nell’Europa occidentale e nel Sud America. Ancora una volta, simile spiegazione, puramente economico-mercantile, riguarda aspetti del tutto superficiali, cui può limitarsi qualche neoliberista accanito, ma non certo chi ha una visione un po’ meno semplicistica dei problemi (politici) dell’economia, soprattutto quando riguardino prodotti comunque strategici del tipo dell’acciaio.        

 

L’Arcelor ha resistito a lungo alle pressioni della Mittal; e, come già rilevato, ha attuato la sua tattica difensiva passando, in un certo senso, al contrattacco mediante i contatti e i tentativi, quasi riusciti, di accordo con la Severstal. C’è stato un momento, anzi, in cui sembrava che l’integrazione tra l’impresa francese e quella russa fosse ormai cosa fatta, malgrado la pervicace opposizione e gli ostacoli continuamente frapposti dagli organismi di questa Europa vassalla (e sembra diventarlo ognora di più) degli Stati Uniti. Per risalire alle radici di simile sessantennale servaggio bisogna rifarsi alla seconda guerra mondiale, alla sconfitta della Germania e all’esaurirsi della potenza di Inghilterra e Francia, benché quest’ultima abbia continuamente opposto una certa resistenza al suo declino (favorito dalla dissoluzione del suo impero coloniale, sostituito dal neocolonialismo statunitense, tuttora in auge perfino laddove, si pensi al Vietnam, era stato sconfitto “sul campo”); resistenza più decisa, tuttavia, durante la presidenza di De Gaulle, ma che poi si è molto illanguidita.

Bisognerebbe anche riscrivere con accuratezza la storia della CECA (comunità europea del carbone e dell’acciaio), messa in piedi nell’aprile del 1951 in quanto embrione della futura comunità europea. Tale organismo non ha affatto costituito un elemento di autonomia del nostro continente, ma ha invece sancito e ribadito la sua sudditanza al vero vincitore della guerra (nel campo capitalistico): gli USA. Fin da allora ci sono state le grandi ciance degli europeisti che, poco importa se in buona o mala fede, hanno semplicemente mascherato la mancanza di sovranità dell’Europa, asservita agli scopi della NATO, organismo creato ufficialmente per contenere la presunta minaccia “comunista” proveniente dall’URSS. Tale finalità era in realtà, fin dall’inizio, una pura copertura ideologica, tant’è vero che, crollata questa (inesistente) minaccia, non si è affatto smantellata l’alleanza sedicente difensiva; che non è mai stata né alleanza (ma subordinazione agli Stati Uniti) né difensiva (bensì una pistola carica sempre puntata verso est). Oggi, venuto a cadere il campo socialista, non ci sono più menzogne che tengano; la NATO serve esclusivamente agli USA per mantenerci sotto controllo ed allargare la loro sfera egemonica verso i paesi europei ex socialisti, tentando un nuovo (ma ormai solo parziale) “accerchiamento” della Russia, ridiventata, da cinque anni a questa parte, una potenza di tutto rispetto e non più disposta, come sotto Gorbaciov ed Eltsin, a farsi devastare dal capitalismo di tipo statunitense.

 

 Interessante considerare – pur se si dovrà essere molto sommari – le forze in campo. La direzione generale dell’Arcelor e il Governo francese hanno opposto sino alla fine una accanita resistenza di fronte alla prospettiva di cadere di fatto sotto il controllo della Mittal; tale opposizione nasceva dalla chiara consapevolezza che il problema non era semplicemente economico-mercantile poiché, in tal caso, la differente gamma di prodotti e di mercati mondiali di smercio avrebbe giocato in favore della unione franco-americo-indiana. In realtà, la sedicente fusione significava una sostanziale dipendenza dato che dietro la Mittal stanno sia il capitale finanziario che il potere politico degli Stati Uniti; l’impresa oggi vincente è un deciso “simbolo” delle mosse, alcune assai recenti, compiute dagli USA verso l’India con ben precisi intenti geopolitici in Asia e nel mondo (cruciale l’ultimo viaggio di Bush in quel paese e l’aiuto promesso anche in relazione ai programmi atomici indiani, nel mentre si tuona contro quelli iraniani). Per questi motivi, Governo francese e vertici direzionali dell’Arcelor si erano mossi all’unisono verso un accordo con la russa Severstal, che garantiva il rafforzamento del potere di mercato (il colosso che ne sarebbe nato avrebbe goduto dell’avanzamento dell’azienda francese in fatto di innovazioni di prodotto e di processo, e avrebbe nettamente conquistato il primo posto mondiale non solo come fatturato bensì pure come quantità prodotta) nell’ambito di un sostanziale equilibrio di poteri fra le due imprese (e dunque fra i poteri politico-statali che ne costituiscono il retroterra).

Ci sono senza dubbio stati errori tattici da parte dell’Arcelor, ma il problema cruciale resta il forte dispositivo politico-finanziario messo in campo dalla Mittal, con precisi appoggi anche nel mondo politico (e sindacale) francese. La ditta americo-indiana aveva alle sue spalle cinque colossi finanziari: Goldman Sachs (sempre in mezzo nelle mosse politicamente decisive), Citigroup, Crédit Suisse, HSBC, Société Générale. L’azienda francese aveva anch’essa dei pezzi da novanta; innanzitutto le sue tradizionali banche d’appoggio, cioè la BNP Paribas e la Calyon. Essa ha però dovuto ricorrere alla Merril Lynch, alla JP Morgan, alla Lazard e alcune altre. Soprattutto – errore non forse decisivo ma certo fatale – si è fatta assistere, per la valutazione delle offerte (da parte di Severstal e Mittal) dalla Morgan Stanley, normalmente competitrice, in campo economico, della Goldman (ognuna delle due, le più grandi banche d’affari del mondo, gestisce, tra attività proprie e di altri, capitali di ammontare pari a circa la metà del Pil italiano; tanto per valutare la loro potenza).   

Tuttavia, smentendo gli sciocchi che cianciano (oggi ormai quasi non più) di fine degli Stati nazionali, di dominio delle sedicenti transnazionali, la Goldman e la Morgan sono economicamente avversarie, ma giocano le loro partite sapendo bene quant’è importante che comunque il dominio imperiale statunitense non venga sgretolato. La Morgan si è presa dall’Arcelor le sue belle parcelle (non note), ma l’ha di fatto indebolita con i suoi “illuminati” (da chi?) consigli. Essa ha cominciato con il suggerire ai dirigenti dell’azienda francese una consultazione del tutto formale, e priva di poteri decisionali, tra i suoi azionisti; indispettendoli così (anche perché volevano farsi indispettire) con una azione considerata non democratica. Soprattutto, la Morgan ha affidato la valutazione delle offerte delle due imprese (russa e americo-indiana) in competizione a certo Michael Zaoui, fratello di Yoel Zaoui, che era l’artefice delle strategie della Mittal. Certo, esiste il detto “fratelli, coltelli”, ma in questo caso è stato ampiamente smentito.

A favore dei “più potenti”, in senso soprattutto politico, si sono schierati Zaleski con il suo oltre 7% (diventato quasi 8 alla fine dell’operazione) del molto suddiviso capitale azionario dell’Arcelor – ricordo che questo “signore” è il braccio destro di Bazoli, il vero capo del recentemente formato gruppo Intesa-San Paolo; il quale Bazoli ha come “maggiordomo” politico Prodi ed è oggi corteggiato da ambienti dalemiani – e la già nominata Colette Neuville, “capa” dell’unica associazione di piccoli azionisti, che ha avuto anch’essa una sua funzione. Nel momento decisivo dello scontro, inoltre, da “neutrali” sono diventati favorevoli alla Mittal una serie di fondi speculativi (gli hedge fund) – alcuni, i principali, vicini alla Goldman  – e di fondi pensione, che possedevano circa il 30% di azioni dell’Arcelor. Infine, l’intensa attività di lobbying della Goldman – in unione con ambienti finanziari e politici (in specie socialdemocratici) francesi – ha “convinto” (come?) i sindacati a schierarsi per la fusione (subordinazione) dell’Arcelor con la Mittal. Questo la dice lunga sull’odierna funzione ultranegativa degli apparati sindacali (e della sedicente “classe” che essi rappresentano); e non solo in Francia, ma ancor più in Italia e praticamente in tutta Europa. Non c’è niente da fare, la sinistra non si smentisce mai: in tutta la storia (dall’ottocento in poi) è sempre stata falsamente progressista e realmente reazionaria (e filoimperialista), composta da “rinnegati” di varie fedi “socialiste”.

 

Affinché non si pensi che l’operazione sia stata guidata, come si vuol far credere, da semplici criteri “di mercato”, vediamo sommariamente quali sono (e con chi) i legami politici del principale artefice della fusione tra Arcelor e Mittal (con predominanza di quest’ultima); si tratta, come al solito, della Goldman Sachs, che da alcuni anni è la punta di lancia di varie mosse strategiche tese all’egemonia USA in Europa (e, in particolare, in Italia).

Citando La lettre SENTINEL[2]: “Hank Paulson, presidente della Goldman fino al giugno 2006 viene nominato Segretario del Tesoro da George Bush, trovandosi nuovamente insieme a Joshua Bolten, uscito dalla medesima società per divenire il nuovo direttore di Gabinetto del Presidente. Stephen Friedman, il predecessore di Paulson, ha lavorato per 28 anni alla Goldman, dove ha occupato il ruolo di Copresidente dal 1990 al 1992 prima di accettare la nomina di consigliere economico di Bush dal 2002 al 2005. Robert Rubin ha occupato il posto di Vicepresidente della Goldman tra il 1987 e il 1990, poi quello di Copresidente tra il 1990 e il 1992, per diventare infine Segretario del Tesoro sotto l’amministrazione Clinton”.

Si aggiunga ancora Robert Zoellick, un “vecchio” Segretario di Stato aggiunto, passato poi alla Goldman; lascia la banca nel 1999 per lavorare a fianco di Condoleeza Rice (che è divenuta quello che sappiamo con Bush Presidente); ed infine, nel maggio 2006, torna alla Goldman come Vicepresidente. La potente banca d’affari statunitense ha inoltre strettissimi legami con la Carlyle Group, “il cui attivismo al servizio della potenza americana è perfettamente conosciuto. Così, nel 2005, le due società hanno annunciato la loro intenzione di creare una impresa di esplorazione petrolifera offshore, chiamata Cobalt International Energy. I due soci contano di investirvi 500 milioni di dollari. La società sarà diretta da Joseph Bryant, vecchio presidente della società petrolifera americana Unocal. Carlyle e Goldman Sachs hanno un altro uomo in comune: Oscar Fanjul. Presidente onorario di Repsol SA e vicepresidente della società Omega Capital, Fanjul è soprattutto amministratore di Unilever, di Marsh & McLennan Companies e del London Stock Exchange. Siede nel Consiglio di Sorveglianza di Carlyle Group (in Europa) e di Sviluppo Italia [ecco “i nostri”!; ndr]. Egli è consigliere internazionale della Goldman”. La lettre SENTINEL così conclude tirando, obbligatoriamente, le somme: “L’OPA di Mittal sull’Arcelor serve perfettamente gli interessi economici e politici degli Stati Uniti e degli agenti, legati all’amministrazione americana, che vi hanno svolto il ruolo principale”.    

Sarà comunque bene non dimenticare – per capire il ruolo della Goldman, e dell’imperialismo americano al cui servizio essa opera (finora con successo) – che un uomo della società finanziaria in questione, vicepresidente della sua sezione europea fino alla nuova nomina, è oggi Governatore della Banca d’Italia; che un altro suo alto dirigente, sempre fino alla nuova nomina, è oggi viceministro dell’economia; che quest’ultimo (Tononi) ed un altro dirigente (Costamagna) della banca americana (da poco ex) sono di fatto all’origine del piano Rovati (in realtà di Prodi, ma in quanto “maggiordomo” della “SanIntesa”), con cui si è tentato di appropriarsi della Telecom utilizzando fondi “pubblici” mediante la Cassa Depositi e Prestiti. Infine, si tenga presenta che il figlio (Marco) di Carlo De Benedetti è nella Carlyle Group che, in coppia con la Goldman, sembra oggi affiancare (o, ancor più probabilmente, si intreccia con) quelle “mafie” internazionali costituite dalla Trilateral o dal gruppo Bilderberg. In ogni caso, si tratta di gruppi di una pericolosità estrema per il potere enorme dei loro affiliati, ma soprattutto dell’imperialismo americano, che si trova sempre ai vertici di tutti questi organismi della “Internazionale del capitale” (in specie della sua sfera finanziaria, dove i rapporti anche con capitali malavitosi, riciclati, sono la norma).

 

Quali sono i primi e provvisori insegnamenti di questa paradigmatica vicenda? Innanzitutto, non ci si dimentichi che l’intero capitale finanziario italiano, e in particolare il più grande gruppo appena formatosi (Intesa-San Paolo), ha fortissimi legami d’affari, ma in posizione subordinata, con la Goldman (e dunque la Carlyle) e gli altri potenti centri della finanza americana; che personaggi come il fu Gianni Agnelli facevano parte (o, se si preferisce, partecipavano alle riunioni) della Trilateral e del Bilderberg, cui partecipano attualmente, tanto per fare qualche esempio, un Tronchetti o il presidente dell’ENI che, probabilmente proprio per questo, ha potuto resistere a certe pressioni indebite provenienti da “sinistra” (tese a favorire le aziende energetiche municipalizzate, od ex tali, da essa per la massima parte controllate), realizzando infine, ma credo solo parzialmente, i recenti accordi con la Gazprom. In questo senso, con analogia storica di larghissima massima (più che altro utile ad evocare i nefasti della finanza), dico spesso che l’Italia, in modo del tutto particolare, e più in generale l’Europa si trovano in una situazione che ricorda quella della Repubblica di Weimar: mecenatismo e filantropia[3] da parte dei centri di potere finanziari (soldi spesi con meschine finalità e minimi risultati sociali e culturali); corruzione massima e marciume crescente degli ambienti dominanti economico-politico-culturali; arrogante e protervo dominio finanziario “in Patria”, ma servile e viscida subordinazione alla finanza americana in quanto battistrada degli interessi imperialistici USA; ostacoli frapposti ad uno sviluppo industriale accelerato, e nei settori di punta dell’epoca, a causa della suddetta subordinazione; spremitura massima delle popolazioni dei paesi invischiati in questa “tela del ragno” di tipo finanziario.

Non è un caso che in tutta Europa, e ancora una volta qui da noi in modo speciale, i fenomeni di centralizzazione riguardino principalmente il settore bancario e assicurativo, e che si discuta di diversi progetti in cantiere relativamente ai fondi pensione; discussione e progetti in cui si esprime il conflitto tra vari gruppi capitalistici ai fini del controllo degli stessi in quanto sono, come dimostrano quelli degli Stati Uniti, grandi centri di accumulo di mezzi finanziari. Anche la centralizzazione Mittal-Arcelor (esemplare lo scontro che l’ha preceduta e che ad essa ha condotto) è stata effettuata in base a criteri prevalentemente finanziari, “avanguardia” di quelli ben più decisivi di tipo (geo)politico, piuttosto che seguendo i dettami delle strategie industriali, malgrado gli incalliti neoliberisti (ben pagati per mentire e falsificare) abbiano, ideologicamente, mascherato i reali scopi dell’operazione dietro i “bei discorsi” sulla diversificazione e complementarietà della gamma dei prodotti e dei mercati di smercio relativi alle due imprese fusesi.

Da molti anni l’Europa si sviluppa in modo subordinato alle strategie statunitensi a causa del sostanziale dominio delle strutture finanziarie e di schieramenti politici dediti solo a giochi di basso potere, senza alcuna visione strategica geopolitica minimamente autonoma. Per il momento, tutto sembra giocarsi tra l’ancora nettamente predominante potenza statunitense e quelle che si stanno sviluppando in Asia, più la Russia ormai in accentuata risalita. Fino a quando i nostri paesi – e l’Italia è anche a tal proposito esemplare – resteranno imbozzolati nel meschino gioco tra destra e sinistra, in questa “commedia delle parti”, in questa “recita a soggetto” (il cui copione è scritto per lo più negli USA), non vi sarà altro che basso sviluppo o stagnazione (ammesso che non accada, prima o poi, qualcosa di ancora peggiore). Volendo essere ottimisti, possiamo credere ad un medio periodo di aurea mediocrità, ma non è affatto escluso che si trasformi in plumbeo declino accelerato.

Le forze “critiche”, per quanto al momento (e non so per quanto tempo) deboli, debbono porsi in atteggiamento di netta distinzione e di radicale antagonismo rispetto agli schieramenti politici attuali. Si continuerà con la puntuale contestazione di questi ultimi, con l’analisi delle varie operazioni compiute da un potere economico-politico (e da ceti culturali degradati e venduti) nel tentativo di perpetuare all’infinito i loro servigi a favore dell’imperialismo americano. E si dovranno sviluppare più congrue riflessioni teoriche, che abbandonino l’atteggiamento dottrinale e fideista di gruppetti di ex “rivoluzionari” sclerotici e decerebrati. Per il momento, terminiamo qui; di tempo ce n’è (purtroppo) a iosa.

 

8 gennaio  

 

  



[1] Le notizie sono tratte da un accurato studio condotto dal mensile francese La lettre SENTINEL del luglio-agosto del 2006 (riportato nel sito di questo blog). Le implicazioni delle vicende qui sunteggiate sono, invece, frutto di mie riflessioni.

[2] Si veda anche il recente articolo dell’Espresso sulla Goldman Sachs (anch’esso riportato nel sito).

[3] Le opere “buone” accompagnano sempre le imprese di potere dei dominanti. I “conquistadores” sono sempre andati avanti con armi e massacri, religione e cultura (la loro), benevolenza (o carità) e filantropia che ribadiscono la subordinazione e la dipendenza dei “conquistati”. Si pensi alle ben propagandate “banche etiche”, sulle quali si propalano menzogne a palate. E si pensi alla filantropia dei Soros (mi sembra di averlo visto fra i nomi del Bilderberg) o dei Bill Gates e personaggi consimili. Non so se nella storia si trovino ipocriti maggiori e così squallidi come quelli delle classi dominanti dei paesi capitalistici avanzati.