Cronache mediorientali (recensione)
di Stenio Solinas - 09/01/2007
Robert Fisk
Cronache mediorientali
Nel momento in cui ci si chiede a chi giova o a chi nuoce quello che scriviamo, si smette di informareper cominciare a fare tutt’altro: propagandare, tifare, parteggiare o addirittura spiare...
S
i esce dalla letturadelle oltre mille
pagine di
Cronachemediorientali
di Robert
Fisk (il Saggiatore,
35 euri) con
un senso di malessere. Sessantenne,
già inviato del Times e oggi
corrispondente da Beirut dell’Independent,
nell’ultimo quarto di
secolo Fisk ha raccontato ai suoi
lettori il Medio Oriente come nessun
altro giornalista ha mai fatto,
seguendone tutte le guerre, vivendone
tutti i dopoguerra. Era in
Afghanistan quando c’erano ancora
i russi, sul fronte iracheno-iraniano,
ha visto la duplice invasione
israeliana del Libano, nonché
quella della Cisgiordania, la guerra
d’Algeria, la guerra del golfo di
Bush padre, l’Afghanistan e l’Iraq
di Bush figlio... In più di un’occasione
ha rischiato di rimetterci la
pelle, è l’unico giornalsita occidentale
che sia riuscito, fra il 1994
e il 1997, a intervistare Osama bin
Laden.
Così questo libro è anche una sorta
di trentennale diario di bordo che
racconta in fondo un unico, interminabile
conflitto in cui di volta in
volta l’alleato di ieri diviene il
nemico di domani, il “buono” di
cui si tacevano i lati oscuri si trasforma
nel “cattivo” di cui si mettono
invece in evidenza tutte le
atrocità e ogni volta, comunque, si
assicura che quella sarà l’ultima e
definitiva, lo sforzo estremo grazie
al quale, dopo, si potrà finalmente
ricominciare in pace a lavorare per
la futura prosperità.
Si diceva all’inizio del senso di
malessere che provoca questo
libro, una sensazione difficile da
definire e da spiegare, ma che probabilmente
nasce da una duplice
valutazione, storica da un lato,
squisitamente giornalistica, ovvero
professionale, dall’altro. Se si
osserva la prima, ci si rende conto
che dalla fine della Grande guerra
l’Occidente si è mosso in Medio
Oriente in maniera miope, arbitraria
e superficiale, inventandosi
Stati, rimangiandosi trattati, ritagliandosi
confini di comodo e
alleati da spremere e poi da mollare.
Fino alla cosidetta
Crisi di Suezdel 1956, questo Occidente era
fondamentalmente l’Europa; da
cinquant’anni a questa parte è fondamentalmente
gli Stati Uniti, ma
il meccanismo è rimasto lo stesso.
Ciò spiega la curiosa sensazione di
un
deja vu di cui comunquenon si riesce a trovare
un senso e una logica,
che si ha ogni qual volta
si affrontano nomi e luoghi
di un territorio che
pure, per noi italiani, è
per buona parte sull’altra
sponda dello stesso mare
Mediterraneo. L’idea che
dall’11 Settembre questo
calderone in cui, a seguire,
sono finiti dentro
colonialismo e postcolonialismo,
guerre di libe-
razione e socialismi arabi, modernizzazione
e fondamentalismo, possa
essere correttamente inteso come
“guerra di civiltà” è solo l’ultimo,
semplicistico e in qualche modo
assolutorio, approdo di una politica
incapace di definirsi come tale, in
grado cioè di durare, assicurare stabilità,
promuovere sicurezza e
benessere.
Il versante giornalistico non è meno
sconfortante, perché mai come oggi
ciò che viene chiesto a chi fa questo
mestiere è schierarsi e non raccontare
e/o comprendere. E questo
schierarsi assume, ormai, le tinte
indistinte - ma non per questo opache,
bensì squillanti - di una crociata
del Bene contro il Male, crociata
nella quale non c’è spazio per i
distinguo e già il solo fatto di non
riconoscervisi è sufficiente per farti
finire nella categoria del nemico
metafisico contro il quale, va da sé,
ogni atto è giustificato.
Nel 1988 a Fisk accadde un fatto
esemplare. Il tre luglio di quell’anno
un volo di linea iraniano con 289
passeggeri era stato abbattuto da
due missili della Marina degli Stati
Uniti sparati dalla nave da guerra
Vincennes, un caso classico di panico,
stress, inefficenza nell’ambito di
una guerra Iraq-Iran in cui Washington
era schierato con il “buono”
Saddam contro il “cattivo”
Komeini. L’articolo che egli scrisse
in prima pagina del Times venne
tolto dalla prima edizione e pubblicato
nella seconda con i riferimenti
all’incompetenza degli americani
tagliati e affiancato da un editoriale
in cui si adombrava l’ipotesi che
forse il pilota iraniano dell’Airbus
fosse un kamikaze... Fisk si dimise
qualche giorno dopo, ma come
osserva nel libro i problemi non
sono le beghe interne a un grande
giornale, gli scontri fra linee editoriali
divergenti o, magari, le ambizioni
da “prima donna” di un inviato:
“Quando noi giornalisti non
riusciamo a comunicare la realtà
degli eventi ai lettori non è soltanto
un fallimento professionale: diventiamo
anche complici degli eventi
sanguinosi che siamo tenuti a riferire.
Se non possiamo dire la verità
sull’abbattimento di un aereo civile
- perché danneggerebbe i ‘nostri’ in
una guerra, o perché presenterebbe
nel ruolo di vittime uno dei Paesi
da ‘odiare’ o perché potrebbe dispiacere
al proprietario del giornale
- ci rendiamo complici di quegli
stessi pregiudizi che scatenano la
guerra. Se non possiamo bacchettare
una Marina che spara sui civili,
continuiamo a far sì che gli eccidi
futuri siano ‘comprensibili’.
Eliminate il panico
e l’incompetenza degli
americani - che sarebbero
risultati con evidenza
nei mesi a venire - fingete
che un pilota innocente
sia invece un maniaco
suicida, ed è solo questione
di tempo perché un
altro aereo faccia la stessa
fine. Il giornalismo
può essere letale”.
Nel momento in cui un
giornalista si chiede “cui
prodest”, a chi giova quello che
scrive, smette di fare quel mestiere
per cominciarne un altro, il propagandista,
il tifoso, il partigiano di
una causa, il militante, la spia...
Ed è in questo passaggio
di ruolo che un già difficile
equilibrio semantico viene
disinvoltamente buttato
all’aria: quelli della tua parte
saranno “resistenti”, quelli dell’altra
“terroristi”, la morte di
civili per mano dei tuoi “una
tragedia”, per mano degli altri
“un massacro”... L’incursione
israeliana di Jenin nell’estate
del 2002 non costò la vita a
500 persone, come sostenevano
le fonti palestinesi,
ma a 50, di cui la metà
donne, vecchi, bambini.
Non c’era stato nessun
“massacro” disse il premier
israeliano Netanyahu.
“Massacro” era
quello della primavera
precedente, quando in
un insediamento ebraico
illegale nella Cisgiordania
palestinese
quattro israeliani erano
stati ammazzati e otto feriti,
anche qui donne, vecchi,
bambini. Scrive Fisk:
“Nonmi tornano i conti e non mi
piacciono. Quattro morti israeliani,
tra cui due coloni armati, sono un
massacro. Lo accetto. Ma 24 palestinesi,
compresi un’infermiera e un
paraplegico non sono un massacro.
Che cosa significa questo? Che
cosa ci fa capire del giornalismo,
della mia professione? Dobbiamo
ritenere che ora la definizione di un
bagno di sangue dipende dalla religione
e dalla razza dei civili morti,
per poter entrare nella categoria
del massacro? No, non ho chiamato
massacro i morti di Jenin. Ma avrei
dovuto farlo”.
Il combinato disposto fra la “militarizzazione
della stampa” e l’“interesse
nazionale” produce effetti
devastanti. Ai tempi delle sanzioni e
dell’embargo sull’Iraq se ne sosteneva
la tragica necessità, mezzo
milione di bambini morti, perché
solo così facendo si impediva al dittatore
di riarmarsi. Poi comunque si
decise di fargli lo stesso la guerra in
nome di “armi di distruzione di
massa” mai trovate. Tutto inutile,
dunque, criminalmente inutile...
La guerra fra libertà da un lato e
terrorismo dall’altro dovrebbe
anche significare che i combattenti
della prima non si
comportino come quelli della
seconda. Ma osserva Fisk,
“quandogente con la pelle gialla, nera o
bruna, comunista, islamica o nazionalista
che sia, ammazza i prigionieri,
bombarda a tappeto villaggi
per uccidere i propri nemici o istituisce
tribunali gestiti da squadroni
della morte, gli Stati Uniti, l’Unione
Europea, le Nazioni Unite e tutto
il mondo ‘civile’ devono intervenire
per condannarle. Non per nulla
eravamo i paladini dei diritti umani,
i liberali, i potenti buoni che
potevano fare la predica alle masse
diseredate. Ma quando viene uccisa
la “nostra” gente - quando distruggono
i “nostri” scintillanti palazzi -
allora stracciamo tutte le leggi sui
diritti umani, spediamo i B-52 contro
le classi diseredate e perseguiamo
lo scopo di assassinare i nostri
nemici”.
Forse adesso si capisce meglio quel
senso di malessere di cui a più
riprese abbiamo parlato...